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Le Cronache di Danzig

DO YOU WEAR THE MARK?

Dei Danzig la vulgata comune e maggioritaria racconta la magnificenza dei primi tre album. In molti includono anche il quarto nel cosiddetto periodo migliore della band, poi le cose cambiano. Il numero cinque risente pesantemente delle influenze del tempo, c’era chi si dava al grunge e chi all’industrial, i Danzig optano per questa seconda via e schiacciano il pedale del nastro trasportatore. Pubblico e critica li massacrano e già con con l’album numero sei c’è un timido abbozzo di compresenza di vecchio e nuovo, ma il passato non può mai tornare identico. Da quel momento in poi la vulgata dice che i Danzig non ne abbiano più azzeccata una, il loro declino diventa inesorabile, nonostante talvolta la critica più aziendalista abbia perseverato nell’attribuirgli lampi di genio ancora vividi. Cosa raccontano per davvero le cronache di Danzig?

Contenuti:

1. I got something to say… (1977 – 1987)
2. Il giocattolo del Diavolo (1988 – 1990)
3. La muta del serpente (1992 – 1999)
4. Long way back to Hell (2002 – 2017) 
5. Bela Lugosi is dead (2018 – 2022)

1 – I got something to say…

Glenn nasce Allen Anzalone nel ’55 nel New Jersey, padre riparatore di tv e veterano della guerra in Corea, madre commessa in un negozio di dischi. La famiglia si trasferisce per un periodo anche nel Massachusetts, ma in generale le cose non vanno benissimo soprattutto a scuola. Pare che già a 10 anni Glenn fosse familiare ad alcol e droghe, abitudine che durerà fino ai 15 anni. La leggenda narra che in adolescenza si appassioni alla letteratura gotica e decadente, da Baudelaire a Edgar Allan Poe, e che soprattutto consumi una gran quantità di fumetti. Unendo le due passioni, sviluppa una certa frustrazione verso il politicamente corretto dei comics americani, nei quali vorrebbe tonnellate di sesso e violenza. Un anno prima che io nascessi Glenn si diploma (1973), ma la sua aspirazione rimane quella di poter diventare un fumettista o tutt’al più un fotografo, infatti a New York frequenta una scuola professionale. Parlando di musica invece si diletta sin da bambino con pianoforte e clarinetto, per quanto riguarda la chitarra è un autodidatta, lo stesso per la voce, non avendo mai preso vere e proprie lezioni di canto se non attraverso i dischi consumati da innumerevoli ascolti. Elvis e Jim Morrison sono da sempre, e con evidenza marchiana, i modelli ispiratori della sua timbrica possente e virile, ai quali aggiungere anche Chester Arthur Burnett, conosciuto come Howlin’ Wolf, e Bill Medley con i suoi Righteous Brothers. Ma i vinili che giravano sul piatto di Glenn oltre a quelli dei Doors e degli altri artisti appena menzionati erano anche quelli di Black Sabbath e Blue Cheer per quanto riguarda l’ondata rock che originò l’heavy metal, e naturalmente il punk dei Ramones, l’hardcore dei Black Flag e la produzione di tanti scapigliati freak americani dell’epoca. Lo stesso Glenn già ad 11 anni suona cover dei suoi idoli con band da “garage” alle quali si aggrega.

La formazione del primo gruppo da intestare compiutamente a Danzig risale al 1977 e si tratta dei Misfits, il cui nome deriva dal celebre film di John Huston del 1961, di fatto l’ultima pellicola con Marilyn Monroe (per me tra le sue più belle) e con Clark Gable, Montgomery Clift e Eli Wallach, da noi distribuita come Gli Spostati. Inizialmente Danzig è costretto a far uscire singoli ed album dei Misfits con una propria etichetta, la Blank, poi ribattezzata Plan 9, in onore di Plan 9 From Outer Space di Ed Wood, cineasta americano di serie B, tendente alla Z, spesso citato come il peggior regista di tutti i tempi ed anche per questo assurto a status di personaggio cult. Alla richiesta di vedere pubblicati i propri album i Misfits si sentivano rispondere che non avrebbero mai potuto avere una carriera musicale. In qualche misura arriva a pensarlo anche Glenn ma per motivazioni differenti; i suoi compagni di strada sono, a suo dire, scarsamente dotati e soprattutto affatto professionali. Quanto a “professionalità”, lui entrava ed usciva dalle patrie galere… tuttavia intende crescere sotto quell’aspetto e guadagnare solidità; i restanti Misfits sono “spostati” e così intendono rimanere, ragione per la quale Glenn decide di andare per la propria strada. Accade nel 1983 con la fondazione dei Samhain, praticamente la prosecuzione dei Misfits, il loro secondo tempo in un’ottica più matura ed evoluta. Inizialmente vengono intesi come una sorta di super gruppo punk, assemblando musicisti derivanti da Minor Threat, Reagan Youth, oltre a Eerie Von dei Rosemary’s Baby. Strada facendo la formazione si assesterà, pubblicando in carriera due full-lenght, un Ep ed un terzo album che assembla materiale vario, edito ed inedito. 

I Samhain sul momento fanno guadagnare assai più visibilità a Danzig di quanto avessero fatto i Misfits, i quali a loro volta si riveleranno invece essere una sorta di motore diesel, poiché la loro popolarità ed influenza su altre band esploderà con considerevole ritardo ma in modo vulcanico, basti pensare alla estenuante lista di loro brani coverizzati nel tempo da The 69 Eyes, Backyard Babies, Behemoth, Cradle Of Filth, Earth Crisis, Entombed, The Genitorturers, Green Day, Guns N’ Roses, Hatebreed, The Hellacopters, Metallica, My Chemical Romance, NOFX, Prong, Sick Of It All, Trivium, Volbeat, solo per citarne alcuni. Con i Samhain arrivano Epic, Elektra e Def American. È quest’ultima, grazie all’interessamento di Rick Rubin, che si aggiudica la band. Appena messi sotto contratto, i Samhain diventano i Danzig, anno domini 1987. Questo viene spiegato da Glenn come un suggerimento di Rubin che lui accoglie immediatamente, facendo leva sull’enorme libertà artistica che il cambio di monicker (a lui riferito) gli avrebbe portato. Tant’è che l’unico superstite della line-up di “November-Coming-Fire” (1986) che lo accompagna nella nuova avventura è Eerie Von.

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II – Il giocattolo del diavolo

Danzig è talmente convinto che occorra cambiare strada e tenersi recettivi e mentalmente aperti da ipotizzare di registrare dischi con formazioni sempre diverse. Intanto si parte con John Christ alla chitarra (all’anagrafe John Wolfgang Knoll), Chuck Biscuits aka Charles Montgomery alla batteria (Circle Jerks, DOA, Black Flag) e il solito Eerie Von. Il primo capitolo dell’epopea oscura chiamata Danzig arriva nei negozi nel 1988 e la distanza dai Samhain viene subito marcata, perché a quello sguaiato e mortifero gothic rock si sostituisce uno sguaiato e mortifero blues metal, sempre estremamente cupo, pessimista e solforoso. “Danzig I” diventa disco di platino e rimane a tutt’oggi l’album più venduto della band. Caino e Abele (“Twist Of Cain”), Lilith (“She Rides”), possessioni, demoni e angeli muliebri caduti sulla Terra si inseguono in tracce come “Possession”, “Am I Demon”, “Souls On Fire”; l’immaginario di Danzig insomma è pesantemente religioso, ma di quella religiosità fosca, apocalittica, malmostosa, punitiva e veterotestamentaria, intrecciata da anni ed anni di cinema di genere e fumetti cimiteriali. “She Rides” in particolare verrà identificata dalla band come la loro prima canzone a sfondo sessuale, cornice che piacerà parecchio ai Danzig, almeno quanto le corna del diavolo, cercando spesso e volentieri di fondere i due topos narrativi. Anche l’iconica copertina, tanto essenziale quanto brutale e suggestiva, entrerà nella storia e nell’immaginario collettivo, e saranno molte le band a venire a prenderne spunto, in primis proprio quei Metallica che con Hetfield avevano messo un piede nell’album (i chrous di “Twist of Cain” e “Possession”); il loro omonimo e famigerato Black Album del ’91 esteticamente deve qualcosa a Danzig. Oppure ancora mi vengono in mente gli Entombed di “Uprising”, che nel 2000 a loro modo citano ed omaggiano il seminale debutto dei Danzig. Per non parlare di “Mother”, la canzone forse più famosa in assoluto della band, il cui inciso “Mother, tell your children not to walk my way, tell your children not to hear my words, what they mean, what they say…” non può non richiamare alla mente “House Of The Rising Sun”, portata al successo dai The Animals nel 1964, il cui testo recita “If I listened to my mama, Lord I’d be home today” – e più avanti – “Oh Mother, tell your children, not to do what I have done, spend your lives in sin and misery, in the House of the Rising Sun“. Per “Mother”, come anche per “Twist Of Cain”, “Am I Demon” e “She Rides”, viene realizzato un videoclip che MTV bannerà contribuendone all’aurea maledetta.

Nel 1990 “Danzig II: Lucifuge” (gli album seguono una titolazione progressiva con tanto di numero identificativo, una scelta autoreferenziale che spiega qualcosa sull’ego di Glenn) mostra un’evoluzione del sound in chiave sempre più bluesy e rotonda, i Danzig non mollano di un’oncia l’intelaiatura oscura e minacciosa della loro musica ma addolciscono certi spigoli del primo lavoro, a tratti sin troppo asciutti e scarni. In tal senso “Lucifuge” (forma imperativa per “fuggi la luce!”) è l’espressione forse più compiuta della cosiddetta musica del diavolo, volendo imputare e riconoscere al blues la sua ancestrale e radicata consonanza con l’Angelo caduto, e per altro proprio in copertina Glenn stringe tra le mani una croce (la sua) che reca sopra un teschio dall’aspetto demoniaco, cioè quello dell’artwork del primo album (divenuto poi sostanzialmente la mascotte della band). Tutto il platter ruota attorno al concetto del Male, della malevolenza e della sua influenza sulle nostre vite. L’intera track-list è un capolavoro da pelle d’oca, con alcune vette assolute della discografia dei Danzig come, a mio parere, “Tired Of Being Alive”, “Devil’s Plaything”, “Long Way Back From Hell” e l’acustica “I’m The One”, che pare riverberare una versione malvagia e dannata di Elvis tra i solchi del disco. “Pain In The World” è puro nichilismo e flirta quasi con quello che potremmo definire proto doom metal, gli arpeggi vibrati di “Blood And Tears” affondano le radici addirittura negli anni ‘anni 50 e ’60 (quelli di Roy Orbison, vero e proprio pallino di Glenn), mentre “Her Black Wings” è un manifesto che idealmente rimodula e ammoderna le visioni spettrali dei primi Black Sabbath.

III – La muta del serpente

“Danzig III: How The Gods Kill” arriva due anni dopo e vede nuovamente una lieve ricalibratura delle sonorità, stavolta in chiave più schiettamente gotica e metal. E’ forse l’album più robusto della produzione del primo periodo della band, della cosiddetta “golden age” di Danzig. Molti, magari anche per questo, lo ritengono il migliore, un suo grande fan è ad esempio il bassista Eerie Von. Personalmente, pur reputandolo eccezionale, continuo a collocarlo un gradino sotto “Lucifuge”, per me il vero climax di tutta la carriera dei Danzig. Tuttavia certamente il periodo ’90 – ’92 è un momento incontestabilmente d’oro per quanto riguarda il songwriting della band. “Godless”, “Anything”, “Dirty Black Summer”, “Do You Wear The Mark” e la stessa sublime title-track sono i momenti più riusciti di un album che non ha falle. L’artwork in questo caso è appannaggio di Hans Rudi Giger (già noto ai compratori di vinili di Celtic Frost, Atrocity e, in futuro, dei Carcass). Il proposito di registrare ogni nuovo album con una diversa line-up viene evidentemente abbandonato molto presto poiché “Danzig 4” è per l’appunto il quarto titolo consecutivo ad avere sempre la medesima formazione. E’ un album che a suo modo segna un punto di approdo, sia per chi lo vede l’ultimo tra i migliori, sia per chi ritiene che sancisca invece un primo ridimensionamento. Personalmente lo metto dietro gli altri tre capitoli, non che sia un album fallimentare, affatto, ma probabilmente l’asticella delle aspettative posta da quanto realizzato sin lì dai Danzig era talmente alta da rendere quasi inevitabile la delusione. Mi pare un lavoro a tratti fuori fuoco, certamente più sperimentale (si pensi a tracce come la meccanica “Sadistikal” o “Son Of The Morning Star”, che ricorda da vicino la Rollins Band di “The End Of Silence”, uscito appena due anni prima), ma senza che una una direzione precisa e delineata ne detti la strada. Anche la durata di ben 61 minuti non aiuta a donare compattezza ed omogeneità all’ascolto. Che la sua pubblicazione nel 1994 lasci un segno nella carriera dei Danzig è evidente anche dal fatto che alla spicciolata tutti i compagni di viaggio di Glenn lasciano o vengono licenziati, tanto che nel 1995 il capotreno rimane solo col suo giocattolo tra le mani. Con le dovute proporzioni e la dovuta elasticità mentale, “Danzig 4” sta ai Danzig un po’ come “Do What Thou Wilt” sta ai Death SS, e curiosamente un altro parallelo tra le due band si potrebbe instaurare anche per “Blackacidevil” e “Humanomalies”. Mentre per “Black Laden Crown” bisognerebbe addirittura scomodare “The Lord Of Steel” dei Manowar… ma diamo tempo al tempo.

“Danzig 5: Blackacidevil” nel 1996 è un vero sconquasso che svernicia il sound dei Danzig conosciuto sin lì e ci proietta volenti o meno nel mondo dell’industrial, piuttosto in voga all’epoca. Joey Castillo (batteria) e Joseph Bishara (tastiere) sono i nuovi sodali di Glenn, ai quali si uniscono per delle ospitate anche Jerry Cantrell (su “See All You Were”, “Come to Silver” e “Hand of Doom”), Mark Chaussee (su “Sacrifice” e “Serpentia”) e Josh Lazie (su “Sacrifice”). Si conclude il contratto con la Def American di Rubin e si instaura quello con Hollywood Records, conseguentemente Rubin non è più il produttore della band, gli subentra Danzig stesso, oramai leaderissimo indiscusso ed autarchico. Con “Blackacidevil” Glenn dichiarerà di aver voluto tentare qualcosa di “completamente diverso”, che nessuno aveva “mai fatto prima”. Quel che è certo è che l’album scontenta tutti, troppo diverso dal profilo a cui l’audience era abituata, troppo repentino, azzardato e provocatorio. La Disney, dentro la cui scatola gravitava la Hollywood Records, mostra di apprezzare molto poco le tematiche violente e (presunte) sataniche accarezzate dalla band e, sebbene venga da chiedersi perché diavolo (appunto…) l’avesse messa sotto contratto, promuove mal volentieri l’album ed infine risolve unilateralmente l’accordo, lasciando a Glenn i diritti sulle proprie canzoni. Bishara molla, Lazie e Castllo rimangono, e come ulteriore chitarrista (turnista) si aggiunge Jeff Chambers. Questa è la line-up che dà vita al sesto capitolo ovviamente chiamato “6:66 Satan’s Child” (verrebbe da pensare che Danzig abbia fondato una band ed abbia pubblicato cinque album solo per arrivare a questo fatidico momento…). Il contratto viene firmato con E-Magine, che ristampa pure “Blackacidevil”. Danzig con la sua etichetta Evilive si accoda alla commercializzazione del platter. L’operazione che la band compie con questo disco è quella di riprendere le fila pre-industrializzazione del sound ma senza rinnegare l’entrata in fabbrica, i bulloni e le chiavi inglesi ci sono ancora tutti ma si torna ad intravedere pure qualche vecchio paesaggio più familiare. Un ibrido che tiene il piede in due staffe, orgogliosamente, alla maniera di Danzig che non può chiedere mai scusa, come Fonzie.

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IV – Long way back to hell

“Danzig 777: I Luciferi” (2002) è l’effettivo album nel quale si compie il ritorno allo stile “classico” dei Danzig, piuttosto vicino a quello di “Lucifuge”, sin dal packaging del disco e dall’assonanza del titolo. Ora basso e chitarra sono rispettivamente appannaggio di Howie Pyro e Todd Youth, la label è la Spitfire, sempre accompagnata da Evilive. Dopo lo stordimento del periodo degli album 5 e 6, ovvero la seconda metà dei ’90, che lascia un grande segno di smarrimento e confusione anche tra i fan più devoti ed accorati, “I Luciferi” si riappropria con una certa ruffianeria di sonorità che qualcuno temeva oramai rimosse o dimenticate. Tuttavia, nonostante la familiarità ed il tepore derivanti da un’impostazione assai più riconoscibile, da questo momento in poi Danzig non sembra più in grado di registrare album buoni dall’inizio alla fine, di snocciolare track-list interamente riuscite. Album dopo album, inanella due/tre brani per album tra il buono ed il discreto, non di più, annegandoli in mezzo a filler o a vere e proprie brutture. “I Luciferi” è indubbiamente gradevole, si ascolta volentieri, in buona parte magari è l’effetto nostalgia ma pur essendo distante parecchie galassie dalla qualità della prima era Danzig ci si potrebbe persino accontentare. “Kiss The Skull”, che forse è il pezzo che mi è sempre piaciuto di più, ha il riff clamorosamente strappato a “The Beautiful People” di Marilyn Manson, per dire. Nel 2004 la situazione non migliora granché, anzi. “Circle Of Snakes” (pubblicato direttamente da Danzig su Evilive) offre la clamorosa “1000 Devils Reign”, “Skin Carver” non è affatto male anche se si perde in un ritornello molle, “When We Were Dead” è apprezzabile; nel complesso però l’intensità dell’album si abbassa vistosamente. E’ il primo lavoro fuori dalla regola della numerazione, c’è il titolo e basta, senza numero, una piccola svolta. La line-up è stravolta, ora Danzig si accompagna a Tommy Victor dei Prong (già turnista live per la band in passato). Mr. Anzalone ha placato gli istinti avanguardisti e sperimentatori, si è assestato su una ricetta oramai consolidata pur aggiungendo qua e là qualche coloritura e sfumatura per non servire ogni volta esattamente la stessa minestra. Quello dei Danzig è un rock/metal gotico e dark, che si abbevera ora a radici ’50s e ’60s dal taglio bluesy, altrove prova qualche fuga in avanti in territori più contaminati, acidi e industriali, ma di base la formula è canonizzata e non c’è intenzione di snaturarla più di tanto.

Attorno ai Danzig riprendono a muoversi convulsamente le fila di Misfits e Samhain, in un andirivieni di proposte di reunion, comeback, live set e quant’altro. Siamo in pieno reflusso. Dopo la pubblicazione dell’interlocutorio “The Lost Track Of Danzig” (2007), una compilation di tracce inedite che Glenn si affretta a dichiarare di non considerare scarti ma solo pezzi che per qualche ragione a tempo debito non hanno trovato spazio sugli album, magari per incompatibilità tematica o altro, nel 2010 arriva il nono capitolo della serie, “Deth Red Saboath”, che sorprendentemente si dimostra migliore del suo predecessore. Rimane la sensazione che una intera track-list di qualità non sia più nelle possibilità di Danzig, tuttavia brani come “On A Wicked Night” e “Ju Ju Bone” si rivelano davvero killer, portatori di una scintilla che sa di antico e di prezioso. A Danzig e Victor si affianca John Kelly, primo batterista dei Type 0 Negative (e poi in parecchie altre formazioni, dai A Pale Horse Named Death ai Quiet Riot). 

L’aspetto forse più deprimente risiede nell’evidente ed inesorabile peggioramento delle corde vocali di Danzig, provate da anni e anni di tour e stakanovismo, la sua timbrica non è più grave, baritonale e profonda come un tempo, e si avverte chiaramente lo “sforzo” di cantare (si era cominciato ad avvertire sin dalla fine dello scorso decennio, per la verità). Il combinato disposto del crollo della voce e della mancanza di ispirazione avrebbe dovuto far propendere Glenn per un onorevole ritiro ma, esattamente come il 99% dei suoi colleghi, il buon Danzig non ha mai ritenuto quella una accettabile uscita di scena. Peccato, perché ci saremmo risparmiati un inutile album di cover come “Skeletons” (2015), un pressoché inutile tributo a Elvis come “Danzig Sings Elvis” (2020) – pur comprendendo il grande amore di Glenn per “the pelvis from Memphis” – e l’ultimo studio album di inediti ad oggi, “Black “Laden Crown” (2017), il punto più basso della discografia dei Danzig. Nonostante il dispiego di musicisti, soprattutto alla batteria, dal ritorno di Randy Castillo a Dirk Verbeuren dei Megadeth, da Karl Rosqvist a John Kelly, oltre al solito Victor alla chitarra, il decimo disco della band raggiunge a tratti punte di imbarazzo ed autoreferenzialità delle quali avrei francamente voluto fare a meno. Non so quante volte in vita mia avrò ascoltato “Lucifuge” ed ora, sentire quell’uomo, quel creatore divino, quel sinistro narratore di mondi plumbei e lugubri, ridotto ad una specie di parodia di se stesso (un fumetto, come forse a lui piacerebbe sentirsi definire, ancorché macabro), come accaduto al Bela Lugosi degli ultimi anni, ha un che di mesto, un tramonto amaro e dimesso.

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V – Bela lugosi is dead

Tra mille collaborazioni, progetti multidisciplinari, produzioni discografiche, libri, fumetti e film (fu persino opzionato per l’audizione per interpretare Wolverine nel film Marvel X-Men del 2000, ma declinò la proposta ritenendola irricevibile e definendo, con la consueta diplomazia che il mondo gli riconosce, “gay” la relativa interpretazione di Hugh Jackman), Danzig sembra l’uomo più impegnato del mondo, senza contare i suoi vecchi amori di sempre, il jeet-kune-do, il body building, lo studio dell’esoterismo, il cinema horror. Nonostante la sua propensione nietzschiana all’onnipotenza, gli oramai prossimi 70 anni non potranno che piegarlo a più miti consigli, perlomeno per quanto riguarda le sue prestazioni canore, davvero un lontano spettro dei bei tempi andati. Già da qualche anno Glenn ha ridotto al lumicino le esibizioni dal vivo, ambito nel quale l’omaccione non si è mai risparmiato, più vicino in questo alla generazione degli Iggy Pop, dei David Bowie, dei Lou Reed, dei Mick Jagger e del selvaggio punk a cavallo tra i ’70 e gli ’80, autentiche bestie da palcoscenico a metà strada tra performance ed autodistruzione messianica, piuttosto che alla scena strettamente metal dentro i cui confini è stato spesso recintato un po’ a forza. Rimane da vedere se e quanto si inabisserà ulteriormente la sua voce, già sufficientemente ammaccata e depotenziata. Naturalmente il suo portato, la sua eredità, la “legacy” – come direbbero oltreoceano – rimangono intoccabili, con aspetti di autentica sacralità (ancorché blasfema). Molti dei suoi album hanno segnato un’epoca, hanno influenzato la contemporaneità e parecchi musicisti nelle decadi susseguenti. Danzig il suo posto nella storia se l’è già preso… evitiamo di peggiorare la situazione.

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Discografia Relativa

  • 1988 – Danzig
  • 1990 – Danzig II: Lucifuge
  • 1992 – Danzig III: How The Gods Kill
  • 1994 – Danzig 4
  • 1996 – Danzig 5: Blackacidevil
  • 1999 – 6:66 Satan’s Child
  • 2002 – Danzig 777: I Luciferi
  • 2004 – Circle Of Snakes
  • 2007 – The Lost Tracks Of Danzig (compilation)
  • 2010 – Deth Red Sabaoth
  • 2015 – Skeletons (cover album)
  • 2017 – Black Laden Crown
  • 2020 – Danzig Sings Elvis (tribute album)

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