Questa non è la storia dei Death SS, l’ennesima. Non solo esiste già un libro con quel nome, scritto dal più titolato a raccontarla, ma da decenni oramai è stato detto, narrato, dipinto e fotografato di tutto a tema Death SS, ricominciare da capo sarebbe noioso e presuntuoso, e decisamente meno ricco di aneddoti, retroscena e prelibatezze rispetto a chi ne sa più di me. Allora di cosa si tratta? Della mia storia dei Death SS, anzi con i Death SS, una fetta importante, fondamentale, imprescindibile della mia formazione musicale, che mi accompagna suppergiù dal 1989 e che ancora procede al mio fianco.
Contenuti:
1. Violet Overture
2. La messa di Natale del 1989
3. Demons on the highway to hell
4. Don’t Panic!
5. Heretics
6. Song of adoration
1 – Violet Overture
Io sono cresciuto con i Death SS ed è stato meraviglioso farlo in un’epoca nella quale internet non c’era, e anche quando poi è arrivato la velocità di connessione è rimasta a lungo inchiodata ai 56k, quindi davvero un altro mondo rispetto ad oggi. Non c’era Youtube per correre a vedere i video ed i concerti filmati con le camere ultra performanti di smartphone ultra performanti, non c’erano le webzine ma solo le riviste cartacee, poche e mal distribuite nelle edicole, e di certo alla radio non passavano il metal, men che mai gli oltraggiosi e blasfemi Death SS. Scoprirli in un contesto del genere, praticamente alla cieca, al buio, è stato impagabile ed ha certamente aggiunto valore al rapporto viscerale che ho instaurato con la band. Vi suona terribilmente boomer tutto ciò? Beh è scritto in premessa, questa è la mia storia dei Death SS, quindi nessuna pretesa universalistica o di stringente attualità, questa non è avanguardia semmai retroguardia, e quando un giorno racconterete ai vostri nipoti di come siete cresciuti con i Vattelappesca Of Steel (scegliete voi il nome della band che più vi aggrada) vi ritroverete suppergiù nella mia stessa identica situazione. Tutto ebbe inizio in un qualunque pomeriggio dopo la scuola, a casa del mio migliore amico Francesco. Intenti a giocare come spesso accadeva a Subbuteo, ci deliziavamo mettendo in sottofondo dischi e cassette, e passando ore a commentarli e a scambiarci pareri, o semplicemente a ricantare a squarciagola le canzoni. Francesco mi faceva ascoltare gruppi nuovi o che a lui piacevano particolarmente. Essendo ancora dei ragazzini, come tutti i novellini avevamo dei conoscenti più grandi e scafati che ci passavano buona musica da imparare per ampliare la nostra libreria di conoscenze.
Quel pomeriggio fu la volta di una TDK dei Death SS, il loro primo album, “In Death Of Steve Sylvester”. Che quello non fosse il loro “primo” album l’ho scoprii tempo dopo. Tenete conto che trattandosi di una cassetta registrata non c’era nessuna immagine correlata, quindi niente copertina dell’album o foto della band, che di per sé avrebbero fatto la loro porca figura. L’impatto con la musica fu diretto e senza mediazioni, e tuttavia affatto semplice per almeno un paio di fattori. La produzione era ruvida ed essendo un “metallaro” da appena un paio d’anni circa, sin lì avevo familiarizzato perlopiù con album ben prodotti ed intellegibili per le mie acerbe orecchie borchiate; c’era inoltre un qualcosa di minaccioso, sinistro ed insondabile che andava chiaramente oltre il suono ed oltre le canzoni in sé (i cui titoli comunque erano decisamente poco rassicuranti). Al di là del piano strettamente musicale veniva evocato dell’altro e anche se non sapevo mettere a fuoco dove il viaggio mi stava portando, l’orizzonte era indubbiamente fosco e nero come nei cimiteri dei film della Hammer. Francesco accompagnava l’ascolto con i racconti ricevuti a sua volta dal suo pusher borchiato, dunque nell’arco di qualche ora prese forma nella mia testa un quadro che si faceva estremamente appetitoso, assai cinematografico e già leggendario, a tal punto che non potetti esimermi perlomeno dal duplicare quella cassetta seduta stante e acquisirla tra i miei dischi da ascoltare a nastro (letteralmente). Impadronitomi dei 52 minuti di “In Death Of Steve Sylvester” dovetti acquistare il vinile originale e lì si aprì un mondo, con quella copertina, quei testi (quelle sgrammaticature anglofone….), quelle fotografie. Il concept dei 5 personaggi horror a coprire l’intero lato A del disco, “Terror” che iniziava la facciata B e che era la canzone più sensazionale di tutti i tempi, praticamente un film dell’orrore messo in musica, la cover necrofila di Alice Cooper (“I Love The Dead”) che pareva scritta apposta per Steve Sylvester, la straniante ed acida litania di “The Hanged Ballad” e poi quella rasoiata affilatissima di “Murder Angels” che chiudeva l’album, e che ad ogni ascolto mi pareva sempre più veloce di quanto ricordassi.
II – La Messa Di Natale Del 1989
Un anno prima era uscita la raccolta “The Story Of Death SS 1977-1984” che era già ammantata di un’aurea di mitologia fiabesca, si percepiva chiaramente che sarebbe diventato un oggetto di culto, un vinile che sarebbe entrato di diritto nel folclore del sottobosco metal italiano. Lo acquistai ed anche lì, ore ed ore a compulsare copertina e retrocopertina, con tutti gli attributi dei personaggi, i simboli, i colori del Vampiro, della morte, della Mummia, dello Zombie e del Lupo Mannaro. E poi il doppio vocalist con le tracce risalenti al periodo del Violet Theatre di Paul Chain con Sanctis Ghoram (alias Piero Gori), completamente diverso da Steve Sylvester come voce ed impostazione ma comunque affascinante. La versione di “Schizophrenic” metteva davvero paura, un’inquietudine ansiogena che ti si appiccicava addosso e non andava via dopo l’ascolto, soprattutto a causa delle concitate vocals di Paul Chain. E che dire delle meravigliose “Chains Of Death” e “Black And Violet”, due vere e proprie opere d’arte nera fatte di pece, tenebra e marmi cimiteriali. Si arriva al 1989 e alla viglia di Natale (il 23 dicembre per l’esattezza) esce nei negozi “Black Mass”. Facevo la seconda liceo e proprio accanto alla scuola c’era un negozio di dischi (il piccolo mondo antico di una volta….). Un giorno che mio padre mi venne a prendere mi feci accompagnare al tempio per scegliere il regalo di Natale. Immaginatevi cosa deve aver pensato il pover’uomo quando riemersi dagli scaffali con quella copertina orgogliosamente stretta tra le mani. Vinile gatefold, Steve Sylvester crocifisso e ritratto a mo’ di Cristo satanico con occhi da rettile, pentacoli ovunque. Dentro – cosa che scoprì solo in un secondo momento – un bel rituale sabbatico rappresentato plasticamente, con donnine nude e feti pronti ad essere sacrificati a zio Lucifero. Perfetto per un quindicenne che doveva santificare la nascita di Gesù. Beh che ci crediate o no, mio padre, cattolico credente convinto, non batté ciglio e alla cassa versò le sue 15.000 lire per Satana, mettendomi amorevolmente una mano sulla spalla come a sancire il beneplacito per il mio regalo. I miei genitori non hanno mai fatto una grinza sul metal, certo non posso dire che apprezzassero, per loro era rumore molesto e a lungo mia madre è stata convinta che sarebbe stata solo una “fase”; cionondimeno non hanno mai ostacolato quella passione ed anzi ricordo pasti conviviali nei quali ero intento a spiegare a mia madre il significato di qualche copertina o l’importanza sociale di qualche appassionato testo thrash metal ambientalista.
“Black Mass” ha una scaletta da urlo, mescola nuovo materiale inedito col riciclo di quello deluxe del periodo con Paul Chain e, a completamento di una track-list impeccabile, un esperimento davvero azzardato e mai sperimentato prima, la registrazione di una vera e propria messa nera. O meglio, i Death SS ne riproducono teatralmente una, con grande attenzione filologica, grazie all’indubbia esperienza occultistica del gran cerimoniere nero Steve Sylvester. Una suite di circa 8 minuti che non si può definire una vera e propria canzone (anche se, in modo abbastanza elementare, nella parte finale lo diventa), ma indubbiamente qualcosa di molto suggestivo. Col tempo “Black Mass” è probabilmente diventato il mio disco preferito dei Death SS, se la gioca con “In Death Of SS”, uno sta sul 9,5 l’altro sul 10 tondo, quindi potete immaginare lo scarto, ma a conti fatti credo sia così; vuoi per la miglior produzione, vuoi per assoli chitarristici splendidi, vuoi per una oggettiva potenza delle canzoni, per altro molto eterogenee e variegate tra di loro. Si passa dal vigore di “Horrible Eyes” e “Cursed Mama” al mellifluo ed obliquo languore di “Welcome To My Hell” – un vero e proprio gioiellino, correttamente accreditato come cover del Violet Theatre, con tanto di sassofono (chiaro tributo ai Black Widow), che poi ritroviamo anche nella suddetta messa nera finale – e “In The Darkness”, strappata con le unghie e con i denti al songbook di Paul Chain e tuttavia resa magistralmente anche dal team Sylvester. Dalla bellezza magnetica del riffing molto classico di “Buried Alive al trucidissimo thrash sguaiato di “Devil’s Rage”, un pezzo che ho faticato a digerire, all’inizio non mi piaceva, mi sembrava troppo rozzo e un po’ buttato lì, quasi al solo scopo estemporaneo di alzare la tensione tra due momenti molto atmosferici come “Welcome To My Hell” e “In the Darkness”. E poi c’è l’inno di reclutamento satanico che apre l’album, quel (bellissimo) “Kings Of Evil” che ha sempre fatto un po’ a cazzotti con le dichiarazioni pubbliche (riparatrici) di Steve Sylvester riguardo al fatto che i Death SS non hanno mai inteso fare proselitismo ma solo inscenare e rappresentare (“Come with us! We are the Kings of Evil! We wanna fight for a new creation! Come with us! In the Satanic Service! We wanna destroy to reconstruct!“). Ehm…. excusatio non petita, accusatio manifesta.
III – Demons On The Highway To Hell
A quel punto io ero già bello e cotto dei Death SS, tant’è che senza indugio mi iscrissi al loro fanclub, primo ed unico fanclub a cui mi sia mai iscritto in vita mia. Questo comportò il ricevimento saltuario di materiale della band come una maglietta, fanzine cartacee assemblate alla bene e meglio, il diploma di afferenza alla sacrilega loggia e parafernalia varie. Le fanzine erano molto divertenti, c’erano fumetti disegnati da Steve, interviste, foto e soprattutto ricordo un decalogo redatto dal vampiro sui suoi dischi preferiti di sempre, equanimemente suddiviso in 5 del passato e 5 contemporanei. Inutile dire che mi gettai alla ricerca di quei dieci titoli come fossero i 10 comandamenti da rispettare nell’ortodossia più assoluta e devo ringraziare Steve per avermi fatto conoscere band meravigliose come Black Widow, High Tide, Monument, Atomic Rooster ed Amon Düül, affatto scontate per un adolescente. Da lì iniziò un altro film della mia discografia, retrodatato agli anni ’70 e tardi ’60, che ancora va avanti con immense soddisfazioni. In quel periodo presi a lavorare alla Contempo Records di Firenze… oddio “lavorare”, andavo di tanto in tanto ad aiutare in magazzino, spostando caterve di dischi e scatoloni da una parte all’altra, e come compenso ricevevo vinili. Il lavoro dei miei sogni, essere pagato in dischi! In quel frangente i Death SS strinsero un accordo contrattuale con Contempo per la pubblicazione del nuovo album, che si rivelò essere “Heavy Demons”. Dunque ne seguì il divenire dall’interno, diciamo così. Presi il singolo “Where Have You Gone?”, il full-length e poi il live album che ne scaturì, il famigerato “The Cursed Concert”, facente riferimento al tour dei primi mesi del 1992 che passò anche da Firenze e alla cui data partecipai da spettatore. E come tutti i paganti assistetti alla deflorazione della burrosa Alessandra Simeone, in arte Lilith, vestita da suora e posseduta sul palco da Steve, la scena ritratta sulla copertina del live.
“Heavy Demons” mi piacque subito ma capì altrettanto velocemente che le cose stavano cambiando. Il sound della band era già diverso, decisamente più metal, più rigoroso nella sua ortodossia, con accenti evidentemente power metal. Era quadrato, era sparita magari qualche sbavatura ed acerbità ma allo stesso tempo era tutto troppo ordinato, troppo perfettino. Canzoni di per sé ottime, anche se mancava la scintilla malvagia degli album precedenti, sembrava un prodotto meno artigianale e decisamente più industriale, meno spontaneo e decisamente più ragionato. Si prefiggeva un proposito, raggiungere programmaticamente un certo pubblico, per tipologia e quantità, alle mie orecchie non suonava più come una libera espressione artistica, anarchica e totalmente priva di recinti, steccati e obbiettivi precostituiti, come si respirava invece in “In Death Of SS” e “Black Mass”, dischi che semplicemente ti esplodevano in faccia, per non parlare del precedente periodo underground risalente fino al 1977. Ripeto, l’album era e rimane un ottimo esempio di heavy metal, ma segnava un cambio di passo. Me lo gustai comunque enormemente, e però si esaurì decisamente prima degli altri, proprio per i motivi su menzionati. La title-track, oltre ad essere una versione edulcorata di “Kings Of Evil”, sembrava tanto una rivisitazione in chiave Death SS dei Kiss, il make-up subisce una decisa evoluzione hollywoodiana, guadagnando in budget ma perdendo qualcosa in genuino e primitivo terrore. Quelle maschere diventano assai più appariscenti e dettagliate ma meno inquietanti, in qualche misura i Death SS si cartoonizzano, il confine che separa la realtà dalla messa in scena si fa più spesso, più netto.
“Heavy Demons” è come pagare il prezzo del biglietto d’ingresso al cinema, arrivati ai titoli di coda il film finisce e le luci si accendono, si torna alla vita di tutti i giorni. Quello dei Death SS era dunque intrattenimento, mentre fino al 1989 pareva trattarsi di un flusso indistinguibile (e per questo sottilmente terrorizzante) di immaginazione e verità sovrapposte in modo inestricabile, indistinguibile. I Death SS erano, ora ci facevano. La band va in tv, sui miseri canali dell’epoca come Videomusic (quello passava il convento), se ne parla sulle riviste e pare che stia per arrivare un po’ di successo internazionale, anche se con esso scatta pure tutta la questione delle “SS” pseudo naziste che in Germania non vengono granché apprezzate. Steve ha sempre sottolineato come si trattasse banalmente delle sue iniziali (l’orizzonte della band era tarato sulla vita e conseguentemente sulla “morte di Steve Sylvester”), mentre credo che da parte di Paul Chain ci fosse qualche velleità provocatoria e reazionaria in tal senso, derivante da uno scomposto ribellismo adolescenziale, un po’ come per le svastiche di Sid Vicious e dei Sex Pistols; fatto sta che la band deve passare al monicker Sylvester’s Death per un (infelice ed infame) periodo della propria esistenza. Inutilmente per altro, visto che il tanto agognato successo all’estero, perlomeno a livello mainstream, non arriverà mai.
IV – Don’t Panic!
Al netto dell’attività live e delle mille pubblicazioni interlocutorie come singoli, demo, compilation e box set, il quarto album istituzionale dei Death SS arriva addirittura nel 1997. “Do What Thou Wilt” è una rivoluzione ancora più marchiana di quella che era stata “Heavy Demons” rispetto a “Black Mass”. Siamo lontani anni luce da quelle sonorità, e più in generale da qualsiasi sonorità mai affrontata dai Death SS. “Do What Thou Wilt” (evidentemente ispirato e dedicato al patron Aleister Crowley) è tutt’altra roba. Anche i muri sanno che ad ogni nuovo album la formazione è cambiata, il che ovviamente non può non aver inciso sulle diverse identità della band. Nel 1997 digerire il disco mi rimase osticissimo, faticavo a capirlo, non mi piaceva granché, qua e là apprezzavo qualcosa ma nel complesso mi pareva una forma di introversione respingente, mi sentivo lasciato ai margini del sound Death SS. La faccio breve, questa diffidenza prosegue fino ai primi 2000, coinvolgendo anche “Panic” e “Humanomalies”, tant’è che neanche comprai gli album in tempo reale ma li recupererò molti anni dopo. Col senno di poi devo ammettere le mie mancanze, ovvero una certa superficialità nell’ascolto. Sarà stato il momento sbagliato, sarà stato il periodo storico che mi portava verso altre sonorità, sarà stato che proprio non ne avevo più voglia, ma il mio approccio a quei dischi fu decisamente sofferto e problematico. Col tempo ho rimediato, soprattutto con “Panic” che è davvero un album notevole ed al cui tour per altro risale l’ultima volta che ho visto i Death SS live. “Do What Thou Wilt” sta un gradino sotto, sicuramente non è il mio disco preferito dei Death SS ma ha un suo fascino che sarebbe un errore negare. Per altro secondo me è l’unico album post 1989 che recupera un autentico sentore luciferino di malvagità latente. Con “Humanomalies” invece non ho mai fatto pace, ho provato ad ascoltarlo e riascoltarlo, gli riconosco un’idea di fondo, una visione, una sua identità precisa, ma semplicemente it’s not my cup of tea. Sono due in totale i lavori nella discografia della band che proprio non sono mai riuscito ad apprezzare, “Humanomalies” come detto e “Rock ‘N’ Roll Armageddon”, a breve dirò perché. Due album su dieci significa che con otto invece è andata bene, pur con differenti gradazioni di “bene”; quindi mi pare non ci si possa lamentare.
Nel 2006 con “The Seventh Seal” riscoppia l’amore per i Death SS, l’album è un parziale ritorno alle origini, anche se Steve non si è mai piegato a queste logiche. Gli va riconosciuto di essersi sempre camaleonticamente prestato allo zeitgeist, di aver vissuto e sperimentato la contemporaneità, di aver voluto sempre indagare, esplorare, innovare e cambiar pelle, anche rischiando in termini di numero di copie vendute. I Death SS non hanno (quasi) mai fatto lo stesso disco due volte, e questo è il coraggio dei grandi, sono sempre stati un’entità in movimento perenne. Dunque anche con un po’ di furbizia “The Seventh Seal” mescola i Death SS classici con il loro sentire del nuovo secolo e millennio, dando forma ad un album molto elegante, valido ed ammaliante, perlomeno alle mie orecchie. Pare di vedere il film Il Presagio, un vecchio classico ma sempre attuale. La scaletta fa sempre centro ma per quanto mi riguarda la sorniona “S.I.A.G.F.O.M.” (Satan is a good friend of mine) e la profonda ed esistenzialista “Another Life” (che tocca le mie corde in modo davvero personale) hanno una marcia in più. E’ grazie a questo disco che mi torna voglia di recuperare quelli più recenti che avevo trascurato, dunque vado a comprarli uno dopo l’altro e mi rimetto in pari, con gli esiti che vi ho già descritto.
“Resurrection” esce nel 2013 e per quell’album partecipo anche all’evento di presentazione alla stampa del disco tenutosi a casa di Federico Pedichini, alias Freddy Delirio, nel lucchese. Un bel ricordo immortalato anche in un selfie assieme a Steve che custodisco nel mio hard disk. Il disco, nel quale ricompare il logo classico della band che ci eravamo persi dai tempi di “Panic”, è molto apprezzabile. D’accordo, sono frattaglie derivanti da diverse occasioni (comprese colonne sonore di film la cui distribuzione poi è saltata) ma assemblate con criterio, tanto che la scaletta sta in piedi, convince ed è piena di ottimi momenti, non si avverte la minima disomogeneità; evidentemente è stato svolto un buon lavoro anche in sede di produzione dell’album. Il videoclip di “The Darkest Night” viene girato dalla Scuola Nazionale di Cinema Indipendente (con base a Firenze) presso la quale nei miei anni universitari avevo frequentato qualche corso come sceneggiatore e operatore audio-video. Una coincidenza curiosa che serve a rinsaldare ulteriormente il mio legame con la band. Ma non è l’unica. Una volta ad esempio partecipando ad un concorso di Metal Shock (per chi se lo ricorda), vinsi 4 cd dei Death SS, ovvero le ristampe Lucifer Rising Records di “In Death Of SS”, “Black Mass”, “Heavy Demons” e “The Cursed Concert”, che pure avevo già in vinile, ma guadagno una manciata di bonus track. La riappacificazione con i Death SS è completa a tal punto che nel 2014 compro anche il singolo “Jingle Hells” nel quale Steve fa coppia con A.C. Wild dei Bulldozer (un altro pezzo del mio cuore), per dissacrare per l’ennesima volta il Natale. Una canzoncina carina, divertente, assolutamente niente di che, ma l’idea di rivedere assieme Steve e Contini come in una vecchia e storica copertina di H/M era irresistibile. Così come è anche assai simpatico che le due band decidano di coverizzarsi a vicenda, con i Death SS che fanno “Fallen Angel” e i Bulldozer che si prendono in carico (ovviamente) “Murder Angels”.
V – Heretics
Dopo il live “Beyond Resurrection” del 2017, l’anno successivo la band dà alle stampe “Rock ‘N’ Roll Armageddon”. Sin da “The Seventh Seal” Steve Sylvester aveva giocato un po’ con l’annuncio della fine del gruppo. Pareva che quell’album dovesse chiudere la storia per sempre, secondo un percorso esoterico autoreferenziale tutto interno alla band quel sigillo sarebbe dovuto essere l’ultimo, come insegna anche Ingmar Bergman. Magari stimolato pure dal buon riscontro di pubblico Steve passerà poi a dire che quel sigillo chiudeva una fase della band, non… la band. Ed ecco che infatti “Resurrection” certifica il ritorno, addirittura in termini di resurrezione, ovvero l’apertura di un nuovo ciclo. Tuttavia i Death SS da qui in poi diradano le proprie apparizioni live, non si può più parlare di veri e propri tour ma di eventi specifici e speciali, favoriti da location adeguate agli spettacoli che la band intende offrire al suo pubblico. Un po’ a sorpresa dunque proprio durante un concerto viene annunciato l’imminente nono album “Rock ‘N’ Roll Armageddon”, che il 7 settembre 2018 diventa ufficialmente disponibile nei negozi. A fronte di una bella e trascinante title-track, e di testi con accenti anche molto prosaici e contemporanei (più maturi?) – come ad esempio in “Slaughterhouse” dove Steve, notoriamente vegano, dà voce alla sua sensibilità per gli animali e pone l’attenzione sulle atroci sofferenze derivanti dalla catena alimentare carnivora – l’album non è mai riuscito a trascinarmi con sé. L’impressione che ne ho ricavato è di una coerente (ma anche un po’ comoda) prosecuzione di quanto già sentito su “Resurrection”, senza però la stessa spumeggiante vitalità. Pure l’artwork è una sorta di variazione sul tema, un’altra tavola del medesimo fumetto, come fossimo semplicemente andati alla pagina successiva. Per la prima volta i Death SS non progrediscono, l’album è assai omogeneo al suo predecessore e tuttavia non ha affatto lo stesso mordente. Alle mie orecchie suona più fiacco, a tratti persino noioso, sembrano canzoni uscite dalle sessioni di registrazioni di “Resurrection” ma che alla fine sono state scartate da quella scaletta. Il mio è ovviamente un parere del tutto personale, anche perché invece ovunque le recensioni all’album sono state stellari, entusiastiche, sperticate, ma mentirei se dicessi di aver provato entusiasmo ogni qual volta ho tentato di cogliere il buono di “Rock ‘N’ Roll Armageddon” rimettendolo nello stereo per cambiare opinione.
Presagendo dunque un sopraggiunto inaridimento della vena creativa dei Death SS, il mio approccio a “X” (anno diaboli 2021) è stato molto cauto e sospettoso. “Zora”, il primo singolo estratto, non mi piacque. Con il secondo, “Temple Of The Rain”, andò decisamente meglio. Letteralmente impossibilitato a non comprare un nuovo album dei Death SS, come spinto da un’entità misteriosa in grado di soggiogarmi, possedermi ed obbligarmi al suo arcano volere, prendo il decimo capitolo di quella sensazionale discografia e lo ascolto tutto d’un fiato, come fosse una messa (nera). Giunto al cinquantesimo minuto, sulle note conclusive di “Lucifer” la gioia è stata incontenibile, “X” è un graditissimo ritorno dei Death SS (o sono io che sono tornato a loro?), un album a mio parere nettamente superiore a “Rock ‘N’ Roll Armageddon”, adorabile ad esempio per le sue nuances synth pop anni ’80 o per i suoi ammiccamenti ad Alice Cooper (come in “Heretics” o la stessa “Lucifer”). Ha un paio di pezzi che non mi fanno strappare i capelli, ovvero “Zora” e “Suspiria”, evocativi quanto ai personaggi tirati in ballo ma non all’altezza dei rispettivi titoli e degli altri brani in scaletta, ma per il resto siamo davvero ad alti livelli. “Ride The Dragon” riallaccia il discorso con “Peace Of Mind” (e infatti c’è sempre lo zampino di Andy Panigada), “The World Is Doomed” è davvero apocalittica, “Under Satan’s Sun”, “Rebel God”, “Temple Of The Rain” (che un po’ a dirla tutta riecheggia “The World Is Doomed”… ma lo hanno fatto anche gli Iron Maiden con “Losfer Words” e “The Duellists” nello stesso disco, o no?) lasciano davvero il segno. Forse “The Black Plague” non è la miglior traccia d’apertura mai concepita dai Death SS ma direi che nel complesso ci sia di che rallegrarsi, la band è ancora in forma, ad averne di altri album così dei Death SS. In effetti non so se avremo altri album, con un ennesimo colpo di scena a febbraio 2022 viene annunciata la dipartita di tre membri, ovvero sezione ritmica e chitarra; intendiamoci, i musicisti sono sempre frullati in casa Death SS, Steve è l’alfa e l’omega di tutto, ma con oltre quarant’anni di carriera alle spalle questi “terremoti” acquistano via via un peso specifico sempre maggiore. Ad aprile tuttavia la squadra è già stata integrata e ricompattata e i Death SS sono pronti per nuove date live e forse nuove battaglie in sala di registrazioni, quindi non rimane che aspettare per scoprire se dopo un “X” ci sarà un “XI” e di che pasta sarà.
VI – Song Of Adoration
In conclusione, un po’ di considerazioni in ordine sparso. “Heavy Demons” è un album adorato da tutti, in molti lo ritengono addirittura il miglior disco della band. A scanso di equivoci, come ho scritto a me piace, so praticamente tutte le canzoni a memoria, ma credo che tanto apprezzamento nei confronti del disco derivi dal fatto che è l’album più “facile” dei Death SS, il più immediato ed abbordabile, il che non ne scalfisce la qualità e tuttavia ne dà una connotazione precisa. Immediatamente dopo, quasi per sfida o per contrappasso, con “Do What Thou Wilt” i Death SS pubblicheranno un lavoro opposto, arcigno, complesso, sofisticato, esclusivo anziché inclusivo, “intellettuale” (mi si passi il termine) ed infatti il riscontro non è stato minimamente paragonabile a quello di “Heavy Demons”. Un album di cui non ho parlato e che invece merita almeno una citazione è la compilation “The Horned God Of The Witches” che Steve pubblica con la sua Lucifer Rising nel 2004, una gustosa ratatouille di pezzi registrati tra il 1977 ed il 1982, in qualche caso anche inediti o comunque di rara reperibilità, che merita assolutamente di far parte della vostra collezione minima di album necessari della band.
I primi lavori dei Death SS sono spesso stati oggetto di ironia da parte di qualcuno per via del budget risicato dei make-up o delle location fotografiche arrangiate, per via della pronuncia (ma anche della sintassi) non sempre oxfordiana dei testi di Steve, prim’ancora della lingua fonetica usata da Paul Chain (banalizzata come la scappatoia di chi non masticava minimamente l’inglese anziché come una forma d’arte); a questo si sono aggiunte le beghe di formazione, i litigi insanabili e le accuse reciproche tra Steve e Paul, le leggende metropolitane, i proclami dei parroci dei paesi dove la band intendeva esibirsi, le battaglie con Monsignor Balducci (al quale i Death SS dedicarono anche una maglietta: “you can’t stop our rock!“), i continui paragoni col coltello tra i denti con King Diamond o magari addirittura con i Venom, eccetera. Tutto ciò ha fatto completamente perdere di vista ai detrattori dei Death SS il focus di quel progetto, la verace, schietta, spontanea carica esoterica della musica dei Death SS, nonché la loro assoluta originalità se rapportata al livello di dedizione verso ciò che stavano facendo. E’ vero, alla fine dei ’70 Alice Cooper ed i Kiss imperversavano con i loro spettacoli eclatanti, ma si trattava di un circo dell’horror, un luna park dichiaratamente tale. Mentre degli Slade o degli Sweet che tanto piacciono a Steve nemmeno si deve parlare, perché il loro trucco ed i loro costumi appariscenti erano tutti volto al glamour. I Black Widow semmai erano un riferimento decisamente più prossimo ed affine a ciò che aveva in mente Steve Sylvester, con i loro sacrifici umani simulati on stage. A tal proposito, eccellenti le cover di “In Ancient Days” e “Come To The Sabbath” con le quali i Death SS hanno inteso omaggiarli.
La verità dei primi Death SS era sconvolgente se pensiamo agli anni di cui stiamo parlando e solo i natali italiani hanno in qualche maniera limitato e azzoppato il portato e la carica dissacrante, destabilizzante, profanatrice ed iconoclasta del progetto Death SS. Io penso che stiamo parlando del più grande e significativo gruppo heavy metal italiano di sempre ed ancora oggi non esiste nessuno che possa strappar loro tale alloro dalla testa. Ciò che hanno rappresentato è andato oltre la musica, oltre il metal, oltre la mera espressione artistica, sconfinando nella cultura, nella filosofia, nella speculazione. E’ anche vero che da un certo punto in poi questa carica spirituale e teoretica si è annacquata fino quasi a spegnersi, o meglio Steve l’ha introiettata, rendendola esclusivamente un proprio percorso intimo e personale, smettendo di applicarla alla band che in qualche maniera si è “normalizzata”, istituzionalizzata, mantenendo il suo peso specifico musicale e discografico ma lasciando che tutto il resto diventasse materia di indagine personale interiore dei membri coinvolti. Ancora oggi i Death SS rimangono una band divisiva, c’è chi li idolatra e li elogia senza se e senza ma, non ammettendo nemmeno mezzo passo falso, mai; e c’è chi li denigra ininterrottamente dal 1992, ovvero subito “Heavy Demons”, come se tutto ciò che è venuto dopo fosse solo spazzatura, una maldestra discografia di un comandante sbandato che ha perso la rotta. Quel che è certo è che i Death SS sono un unicum, una band diversa da tutte le altre e alla quale non si possono applicare le categorie che valgono per tutte le altre. Il discorso è davvero troppo soggettivo, a patto di mantenere di base sempre una certa onestà intellettuale al riguardo, facendo i conti con il sentimentalismo senza che questo oscuri completamente la ragione.
Adoro le interviste di Steve, soprattutto quelle più recenti, trovo che il buon vampiro sia invecchiato bene, le sue riflessioni sono sempre molto razionali, logiche, sobrie, il che pare un ossimoro rispetto ai suoi abiti di scena e probabilmente al furore giovanile costellato di mille imprese più o meno raccontabili (ma del resto non staremmo parlando di rock ‘n’ roll altrimenti). Mi sembra un uomo saggio ed avveduto, profondo culturalmente ed intellettualmente, e mediamente parecchio più intelligente del suo pubblico e di quello metal in generale. Ogni qual volta consiglia o segnala qualche album o disco del passato corro ad ascoltarlo, Steve è un grande collezionista e infatti una volta mi capitò anche di vederlo ad una mostra del disco toscana. Anziché spararla sempre più grossa, come fanno molte rockstar inguaiate dai radicali liberi che con la vecchiaia ossidano le cellule provocando danni, Steve ha mostrato segni di ravvedimento, ha fatto ammenda riguardo al rispetto dei diritti degli animali (qualcuno si ricorderà la copertina del picture disc di “Vampire”) e più in generale è un essere umano molto aperto e tollerante verso gli altri esseri umani, perlomeno questa è l’impressione per chi ha seguito la sua intera parabola sin dagli esordi. Trasmette un’empatia che tanti pii uomini religiosi spesso non sembrano affatto possedere. Un mentore meraviglioso che dopo avermi cresciuto musicalmente ha continuato a farlo su di un piano più squisitamente intellettuale.
P.S. a scopo puramente autopromozionale segnalo che sul blog, per chi fosse interessato, è presente anche un lungo ed approfondito articolo sulla carriera di Steve Sylvester fuori ed oltre i Death SS, lo trovate QUI.
Discografia Relativa
- 1987 – The Story Of Death SS (1977 – 1984)
- 1988 – In Death Of Steve Sylvester
- 1989 – Black Mass
- 1991 – Heavy Demons
- 1992 – The Cursed Concert (live)
- 1997 – Do What Thou Wilt
- 2000 – Panic
- 2002 – Humanomalies
- 1997 – Do What Thou Wilt
- 2004 – The Horned God Of The Witches (compilation)
- 2006 – The Seventh Seal
- 2013 – Resurrection
- 2018 – Rock ‘N’ Roll Armageddon
- 2021 – X