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In Life Of Steve Sylvester

BEYOND THE REALM OF DEATH (SS)

La vita artistica di Steve Sylvester fuori dai Death SS. Progetti paralleli, altre band, collaborazioni, una inesauribile voglia di esplorare a tempo pieno. Ma quante ore dura la giornata di Steve Sylvester? Semplice… 666 ore…

Contenuti:

1. Label traballanti, la guerra di Germania, stampa indemoniata e monsignori scacciademoni. È tempo di cambiare aria (1991 – 1993)
2. Il primo passo dell’uomo libero. Il secondo del messia pazzo (1993 – 1999)
3. L’oscurità splendente della santità (2010 – 2011)
4. L’Opera di Dio… va di moda (2010)
5. Quel che resta (2000 – 2020)

1 – label traballanti, la guerra di germania, stampa indemoniata e monsignori scacciademoni. È tempo di cambiare aria

All’indomani di “Heavy Demons” (1991) e del “Cursed Concert” (1992), la fiorentina Contempo Records stampa anche l’Ep “Straight To Hell”, secondo l’abitudine dei Death SS di far sempre seguire un loro full-length da un Ep contenente qualche chicca e per altro in versione picture disc (croce e delizia dei collezionisti). Siamo nel pieno della tribolata fase doppio monicker Death SS/Sylvester’s Death… che poi di fatto è uno solo, il secondo, perché altrimenti addio distribuzione all’estero. Contempo si adegua e stampa live ed Ep nell’unica versione vendibile (quella internazionale), anche se inizialmente pare fosse prevista anche la stampa con nome e logo originali. Non è un passaggio indolore per una band che già sul finire degli ’80 si ritrova a riprendere le fila di un discorso interrotto all’inizio della decade – facendo riferimento sostanzialmente a quando Sancits Gorham prende il posto di Steve Sylvester anche se, come è noto, Paul Chain e compagni portano avanti la band per un po’ per poi trasformarla nei Paul Chain Violet Theatre, più a misura del chitarrista pesarese – per poi dover fare i conti (nel momento forse di maggior riscontro commerciale) con un cambio di nome dovuto alla particolare sensibilità del mercato tedesco, il quale aveva decisamente mal accolto la comparsa negli scaffali dei negozi di una band che adottava con grande nonchalance la doppia esse. Dopo aver inizialmente battagliato per cercare di spiegare e mantenere il brand storico, Steve Sylvester è costretto a capitolare adottando la soluzione di sbrogliare il significato, ovvero Sylvester’s Death, la morte di (Steve) Sylvester, pur non avendo mai fatto alcun riferimento politico in nessuna delle proprie canzoni. Eppure, l’intero libro è stato giudicato dalla copertina. Il contraccolpo commerciale è notevole, anche considerando che una distribuzione tedesca di fatto poi neppure ci fu, e live ed Ep uscirono praticamente in Italia, “semplicemente” acquistati di importazione per l’estero in un numero limitato di copie. La formazione vacilla, Steve deve fare i conti con diverse defezioni, alcune dovute a motivazioni pratiche e logistiche, altre a scarse compatibilità relazionali tra membri.

A sventura si aggiunge sventura (altrimenti non staremmo parlando dei Death SS), la stampa in questo periodo è particolarmente attiva ed agguerrita. Naturalmente quella non squisitamente di settore, ovvero a digiuno dell’argomento di cui parla e per il quale si accanisce sulla band. Spesso e volentieri all’annuncio di un concerto dei Death SS segue (o precede) con puntualità svizzera l’articolo che paventa apocalissi luciferine al passaggio della band in città. Il colpo di grazia lo dà Monsignor Corrado Balducci col suo libro “Adoratori del Diavolo e Rock Satanico“. Il nemico pubblico numero uno del Monsignore sembrano essere proprio i Death SS, nei confronti dei quali mette in guardia il suo gregge di mamme, nonne e ragazzini indifesi. Satana è in agguato, vivacchia tra i solchi dei dischi dei fiorentini e va combattuto a colpi di preghiere, rosari e crocifissi (strano non si faccia menzione anche di aglio e paletti di frassino). Non che Balducci da solo potesse sconfiggere i Death SS ma la sua voce, pur sempre autorevole in determinati contesti, ingrossa il coro degli indignati 24h per professione. Steve Sylvester evidentemente sente il peso di una situazione troppo aggrovigliata dentro e fuori la band, preferendo prendersi una pausa e dedicare i propri sforzi ad altro, in attesa di momenti migliori e più propizi alla sua creatura.

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II – Il primo passo dell’uomo libero. Il secondo del Messia pazzo

E se si parla di stimoli, perché non riconsiderare quanto lasciato interrotto, recuperando buoni spunti dal passato? Steve nutre anima e spirito iniziando a frequentare la sede romana dell’Ordo Templi Orientis e tornando pure nella natìa Pesaro, dove riassapora certi ambienti di gioventù e ristabilisce contatti, a partire da quelli con Paul Chain. I due non sono fatto per amarsi e comprendersi vicendevolmente in tutto e per tutto, ma per collaborare (ancora) musicalmente si. La storia primigenia dei Death SS ne è una radiosa testimonianza e questa finestra negli anni ’90 riprende le fila interrotte del discorso. Un vecchio membro della band tira l’altro e al Vampiro e alla Morte si uniscono pure lo Zombie (Claud Galley) ed il Lupo Mannaro (Thomas “Hand” Chaste). L’idea è quella di camminare parallelamente ai Death SS, il frutto del lavoro di composizione e registrazione porterà quindi al primo album solista di Sylvester, il che gli concede una notevole libertà di manovra a tutti i livelli, dalla scrittura, alla formazione, alla logistica. Tra gli altri, rientrano nel progetto anche Alberto Simonini dei Crying Steel, Max Bronx degli Shabby Trick, Andy Panigada dei Bulldozer, Aldo Polverari ed una manciata di ex Death SS a vario titolo. Viene girato il videoclip promozionale di “Broken Soul” per poi programmare una serie di concerti il cui debutto avverrà in occasione della partecipazione come headliners all’Italian Monsters in programma il 20 novembre 1993 all’Auditorium Flog di Firenze, comprendente Broken Glazz, Electrocution, Strana Officina, Tossic, Extrema e pure il sottoscritto, disciplinatamente schierato sotto il palco, in attesa di prendere l’ostia sconsacrata dai monaci al servizio della band.

Per dissidi interni dell’etichetta Contempo Records l’album non riesce ad essere pubblicato prima dell’esibizione fiorentina, creando la disagevole situazione di promuovere dal vivo un album che di fatto ancora non si può acquistare nei negozi e dunque il pubblico non conosce (anche se parte della scaletta ovviamente verte sul materiale storico dei Death SS). Tra l’altro passerà un bel po’ prima che il disco veda davvero la luce; succede quando praticamente la parentesi solista della carriera di Steve si è chiusa ed il Vampiro è tornato assieme all’incarnazione più “modernista” dei Death SS per dar vita a quello che sarà il quarto capitolo discografico in studio, “Do What Thou Wilt” (1995), dal celebre motto di sua maestà Aleister Crowley. Sganciatisi dalla Contempo Records per consunzione naturale della label, i Death SS possono anche riappropriarsi del nome originale e buttare alle ortiche l’incarnazione gemella dei Sylvester’s Death. In tutto ciò, “Free Man” passerebbe in sordina se non fosse un gran bel disco, nel quale intelligentemente Steve varia di molto le partiture rispetto alla band madre, concedendosi incursioni negli anni ’70, alleggerendo o – al contrario – abbracciando il doom, optando ora per intermezzi acustici, ora omaggiando (sin dal titolo) gli Angel Witch di “Free Man”. Ad eccezione di “Deadly Sin”, che non mi ha mai detto granché, tutta la scaletta dell’album merita l’ascolto e possibilmente l’acquisto, e certamente mantiene intata l’aurea arcana, magica e sognante che si addice ad un negromante come Steve. la splendida “Broken Soul”, scelta come singolo, genera un Ep che vede in scaletta tre inediti (tra i quali la cover degli Uriah Heep “Time To Live”) ed un remix.

Bisogna aspettare la fine della decade perché Steve Sylvester torni ad essere di nuovo un artista solista, ovvero tra “Do What Thou Wilt” e “Panic”, nel 1999 (anche se, a ben vedere, le registrazioni avvengono addirittura tre anni prima, a Pesaro, presso lo studio di Paul Chain, seguite poi dal mixaggio). Il tempismo nell’uscita è completamente sballato, i Death SS sono alacremente impegnati sulla strada verso la realizzazione di “Panic”, il che sostanzialmente sacrifica la promozione live di “Mad Messiah”. Dopo essere stato un novello Lucifero, l’arwork vede stavolta Steve ritratto come il “messia pazzo” per eccellenza, sempre lui, Aleister Crowley ovviamente. La line-up varia di canzone in canzone come per “Free Man” e buona parte di quei musicisti rimane coinvolta (Paul Chain in primis), pur con l’aggiunta di ulteriori contributi. Le cover in scaletta sono tre, “Dying World”, un gustoso pezzo dei tedeschi Necronomicon che nel ’72 esordiscono con “Tips Zum Selbstomord” (ma opportunamente Steve riscrive il testo in inglese), “The Shape Of Things To Come”, proveniente dalla soundtrack di Quattordici O Guerra del ’68 (in originale Wild In The Streets) e suonata dai The 13th Power, e “Heaven On Their Minds”, proveniente da Jesus Christ Superstar (film a cui Steve è molto interessato evidentemente, trattandosi di un secondo recupero dopo “Gethsemane”, comparsa nel picture Ep “Kings Of Evil”). Il disco è un lavoro solidissimo, forse leggermente meno vario come sonorità ed atmosfere rispetto a “Free Man”, più robusto e centrato sul metal (anche se con la dovuta ariosità e delle venature hard rock), ma ugualmente di spessore e di grande qualità compositiva. La sua pubblicazione risente meno dell’aurea di “evento” che si era generata per “Free Man”, vuoi per il contesto già menzionato, vuoi perché è comunque il secondo lavoro solista di Steve, il ghiaccio è già stato rotto nel 1993. C’è un singolo, “Love Has Torn Me Apart”, stampato vecchia maniera, in vinile, dunque con lato A e lato B (“The Shape Of Things To Come”).

III – L’oscurità splendente della santità

Trascorre una intera decade nella quale i Death SS pubblicano una miriade di titoli, tre studio album effettivi (“Panic”, “Humanomalies” e “The Seventh Seal”) inframezzati da raccolte celebrative, live, singoli, edizioni limited del fan club, boxset, live più o meno apocrifi. Il 2010 è un anno importante perché Steve Sylvester sviluppa due progetti alternativi (ai Death SS), il Settimo Sigillo pareva aver messo una (provvisoria) parola “fine” al concept ideato nel lontano 1977, dunque quale occasione migliore per sviluppare nuove idee e lasciarsi trasportare da una ventata di freschezza fuori dalle calli infernali di diavoli e diavolacci? Steve lavora su un doppio binario, procede parallelamente, scrive musica, inventa nomi e loghi e li differenzia nettamente per “ambientazione” ed intenzioni. A livello di sonorità i Sancta Sanctorum sono quelli più grezzi e primordiali, motivo per il quale Steve si orienta su musicisti non troppo lontani dall’esperienza Death SS; ecco quindi il ritorno di Thomas “Hand” Chaste e Danny Hughes. Galley, pur contattato, declina l’invito. Chain, pur preso in considerazione in un primo momento, viene poi escluso, tanto più che nel frattempo ha cambiato nome (Paul Cat), abitudini ed è diventato pure testimone di Geova. Date le sonorità alquanto vintage di “Shining Darkness”, acchiappare il contratto con Black Widow si rivela relativamente semplice.

Sin dal suo aspetto il digipack apribile dell’album si presenta chiaramente debitore degli anni ’70, il cromatismo spiccatissimo non può non rimandare ai viaggi lisergici intinti di psichedelia di tante band dell’epoca, la cupezza che aleggia ovunque porta stampata l’etichetta dei Black Sabbath e pare quasi di trovarsi al cospetto di un nuovo dischetto dei Cathedral e compagnia stoner. In realtà “Shining Darkness”, per quanto certamente intriso di rock settantiano e spirito doom, si rivela un album affatto facile ed immediato; il tasso di acidità che scorre nei suoi solchi è alto, Steve non cerca approdi agevoli, le canzoni non sono affatto prevedibili, un senso entropico ed ostile aleggia lungo gli oltre 53 minuti di scaletta e del resto, a leggere i titoli dei brani in scaletta, il sole si fa nero (“The End Is Near”, “Nothing Left At All”, “Desperate Ways”, “When You Die”, etc). perfettamente centrata la scelta di “Black Sun” come singolo (originariamente Steve lo aveva scritto presumendo di realizzare un terzo lavoro solista), Mario “The Black” Di Donato viene coninvolto nella sua realizzazione (ma è presente anche in “When Hopes Are All Gone”), oltre a girarne il relativo videoclip promozionale. Tra gli ospiti pure Andrea Caminiti dei Doomraiser, col suo basso su “Desperate Ways”. Da notare l’estrema finezza della doppia SS nel nome, lo spirito dei Death SS in qualche maniera assiste e protegge anche questa incarnazione del suo figlio prediletto. Nel 2011 i Sancta Sanctorum pubblicano un Ep di quattro tracce contenente “Black Sun”, una nuova cover degli Uriah Heep (stavolta si tratta di “Rainbow Demon”), una dei King Crimson (“21st Century Schizoid Man”) e l’inedito “Crash” scritto da Chaste.

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IV – L’opera di dio… va di moda

Se Freddy Delirio (assieme ai Death SS a partire da “The Seventh Seal”) è stato il produttore di “Shining Darkness”, nel disco omonimo degli Opus Dei – l’altro progetto di Steve Sylvester – si occupa anche delle tastiere, il suo strumento. La line-up si completa con Gherardo Monti (fonico live dei Death SS) e Lorenzo Calonaci, batterista dei Susy Likes Nutella. Il progetto tuttavia è destinato a subire lo scotto di parecchi inciampi. Intanto il team produttivo si rivela poco affidabile, tant’è che Sylvester e Delirio devono rimboccarsi le maniche e fare in autonomia; viene inoltre richiesto in modo abbastanza pressante di coinvolgere una ragazza in formazione, dietro tale “esigenza” non c’è granché di artistico, si tratta perlopiù di assecondare un certo andazzo (modaiolo) del momento, dunque soddisfare un fattore meramente estetico e di marketing. Visto che Monti non può dedicarsi a tempo pieno alla band, si opta per la chitarrista lucchese Eleonora Matteucci. Di fatto la Matteucci arriva appena in tempo per partecipare alle session fotografiche ma non incide una sola nota dell’album, già cotto e cucinato prima che scenda dal treno. Ad un passo dalla pubblicazione la release si stoppa, il produttore non si trova, occupato com’è da beghe di altra natura (pare finanziarie). Transitando dalla sua Molten Metal Productions alla Lucifer Rising di Steve Sylvester e Vittorio Lombardoni, gli Opus Dei sembrano finalmente pronti a debuttare.

E invece no… suona un’altra campanella, anzi una campana bella grande, è quella dell’Opus Dei, quella vera, quella vaticana. I legali della prelatura cattolica vergano una diffida nei confronti della band per l’uso del nome, ritenuto una contraffazione lesiva dell’onore e della reputazione dell’associazione religiosa. “Opus Dei” è un marchio registrato con tanto di numero e categoria merceologica. Il gruppo ha il cd pronto ad invadere i negozi (anche in questo caso un elegante digipack apribile), grafiche, copertina, booklet, tutto è già stampato. C’è pure il sito web. “Opus” e “Dei” sono due parole latine che stanno per “Opera di Dio”, un concetto prima ancora che un marchio; in Vaticano però non gradiscono l’interpretazione platonica e, data la viva minaccia di adire in sede civile e penale contro la band, si decide di venire a più miti consigli, pur dovendo mettere in conto la perdita economica derivante dalla distribuzione della prima tiratura del disco, fatta circolare perlopiù tra la stampa specializzata per le anteprime legate alle recensioni. Lo scontro legale ha un ulteriore strascico, un po’ spaventata dal polverone la Matteucci lascia la band; male minore direte voi, la sua presenza dopotutto si era limitata alle foto. Si presenta comunque il problema di doverne effettuare di nuove (vista la formazione rimaneggiata col rientro nei ranghi di Monti), oltre alla ristampa del cd con il nuovo monicker adottato: W.O.G.U.E., acronimo di “Work Of God United Entertainment”. Siamo sempre nei territori dell’Opera Divina e tra l’altro Steve dimostra un certo coraggio poiché, al suo posto, avrei comunque temuto che con “Wogue” i legali di Madonna o della quasi omonima rivista di moda si sarebbero prima o poi fatti avanti con un’altra diffida. A proposito delle foto, buffo il fatto che quella più “hot”, che vedeva Steve a petto nudo e la Matteucci in négligé appoggiata sulla sua spalla, venga rieditata con Gherardo Monti al posto della bella mora (naturalmente non più in vestaglia), magie di Photoshop.

Al netto delle traversie che la pubblicazione dell’album comporta, il sound si rivela decisamente interessante. Si tratta di un rock sintetico sofisticato e oscuro, ammiccante alla new wave (più come idea che come suoni veri e propri), intriso di elettronica, civettuolo ma mai smaccatamente glamour, cerebrale ma non cervellotico, con evidenti lasciti degli anni ’80. “Bleeding”, “Where Love Has Gone”, “Liar”, “Shock Me” sono ottimi brani ma un po’ tutta la scaletta convince a mani basse, anche se necessita più di un ascolto per essere metabolizzata fino in fondo; un po’ come i “false friends” della grammatica inglese, l’album pare facilotto ma cela tra le sue trame appigli meno banali (e conseguentemente più longevi) di quanto appaia in superficie. Per altro, riascoltandolo a distanza di tempo è possibile scoprire anche come certe soluzioni dell’ultimo lavoro dei Death SS, “X” (mi riferisco ad esempio a “Temple Of The Rain” o “The World Is Doomed”) echeggino quelle sonorità del 2010. Il cambio di monicker da Opus Dei a W.O.G.U.E. ( soprattutto delle foto a corredo) vede ridimensionato anche l’allure alla Depeche Mode che circondava la band.

V – quel che resta

Se, nonostante tutto, sia i Sancta Sanctorum che i W.O.G.U.E. rimangono confinati all’anno di pubblicazione dei rispettivi dischi e poco più, evidentemente vanno archiviati alla voce progetti estemporanei, per quanto l’impegno profuso da Steve, che ci lavora in modo serio, convinto e professionale, non sia affatto “estemporaneo”; tuttavia il pubblico non li accoglie come realtà intese per durare nel tempo. Il nome di Steve è troppo legato ai Death SS e qualsiasi sua deriva alternativa sembra inesorabilmente “condannata” ad essere fisiologicamente recepita come momentanea e transeunte, così vuole l’Entità, la quale per decenni ha lavorato sodo perché gli accoliti di Steve percepissero i Death SS come la sua vera e “unica” band. Immagino inoltre che se i Sancta Sanctorum o i W.O.G.U.E. in qualche maniera avessero ingranato, producendo secondi, terzi o quarti dischi con relativi tour, sarebbe stata davvero dura per Steve tenere il piede in due staffe e mantenere un ritmo costante e continuativo per più progetti. Credo che una macchina come i Death SS sia sufficientemente ingombrante da cannibalizzare la vita di qualsiasi essere umano, pur ammettendo che Steve va oltre tale dimensione. Nel 2012 arriva l’Ep “Darkest Night” anticipazione di quello che sarà “Resurrection”, l’ottavo capitolo della storia Death SS, addirittura una resurrezione. Ogni volta pare trattarsi dell’ultimo e definitivo disco della band, ma ad oggi “Resurrection” è stato seguito da “Rock ‘n’ Roll Armageddon” (2015) e “X” (2021). La produzione dei Death SS sembra non conoscere fine, complice una ritrovata stabilita della line-up che dura per tre album (complessivamente una decina d’anni circa), rotta proprio nel febbraio 2022 con l’abbandono post covid di Glenn Strange, Aldo Lonobile e Mark Lazarus (ovviamente rimpiazzati a tempo di record per le esibizioni live già programmate).

Nel maggio del 2020 un po’ tutti i Media di settore annunciano la formazione di una band comprendente Steve Sylvester (voce), il sodale Glenn Strange (basso), ed i fratelli Rolando (batteria) e Dario “Kappa” Cappanera (chitarra) della Strana Officina, si tratta dei B.O.B., ovvero Bunch Of Bastards. C’è già un videoclip pronto per essere servito in tavola (dal rassicurante titolo di “Calm The Fuck Down”), tuttavia a distanza di tempo non sono pervenute altre notizie dal Branco, il progetto pare essersi arenato o quantomeno finito in stand-by, compatibilmente con le esigenze individuali dei vari musicisti coinvolti. Se si scorre la lista delle partecipazioni, dei contributi e delle ospitate da parte di Steve Sylvester nei dischi di altre band, si scopre che l’elenco è lungo e corposo, e va da semplici performance canore o recitative, alla produzione ed al songwriting (ad esempio per i doomsters francesi Northwinds o per i thrashers capitolini X-Hells di Aldo Luigi Mancusi, l’ex direttore editoriale più discusso della storia di Metal Shock). Se poi si fa un passaggio anche su IMDB (International Movie Database), la bibbia di ogni cinefilo digitale, è possibile appurare pure la parallela carriera di attore di Steve, decisamente meno pingue di quella musicale, ma già costellata di piccole gemme “cult”, come il lavoro con i Manetti Bros (Coliandro e Il Commissario Rex) ed alcuni titoli sfortunati (ovviamente…) che al dunque non hanno avuto un’adeguata distribuzione ma per i quali Steve si era occupato della colonna sonora, tanto da recuperarne i brani e spalmarli negli album dei Death SS (in particolar modo “Resurrection”, disco patchwork approntato in larga parte mediante composizioni provenienti da esperienze diverse e pensate per il cinema).

Ho sempre subito il fascino del personaggio di Steve Sylvester, non solo per quanto è riuscito a costruire con i Death SS, un concept impensabile se si pensa ai primissimi anni di esercizio, i lontani ’70. All’eopca negli States sarà stato magari facilmente metabolizzato un universo popolato di Alice Cooper e Kiss, band che prestavano il proprio volto a ceroni colorati come fosse una tavolozza, pronti ad impressionare il pubblico con trovate sceniche, azzardate e teatrali (e prim’ancora andrebbero considerato i precurosi del cosiddetto “shock rock”, come Screamin’ Jay Hawkins che già negli anni ’60 si faceva portare sul palco dentro ad una bara, o spariva in mezzo a coltri di fumo come un grande mago d’altri tempi), ma nella provincia italiana democristiana un drappello di mostri capitanati da un vampiro che si esibivano come sciamannati in mezzo a teschi e croci, e dipingevano scenari da vecchi film della Hammer e della Universal, deve essere stato tutto un altro paio di maniche. Non pago, Steve ha attraversato mille vite e mille destini, ha lottato contro la Sfiga incarnata ed ha traghettato la sua musica lungo cinque decadi, arrivando fino ad oggi, vivo e vegeto. Tanto basterebbe ad averne stima e rispetto, ma quello che mi ha sempre incuriosito dell’uomo (più che del personaggio) è la sua poliedricità, la sua curiosità, la sua naturale propensione ad esplorare, progredire, rinnovarsi, in totale idiosincrasia con il concetto di stasi. Si sarebbe potuto far bastare una vita da Cronos o da Lizzy Borden, ripetendo a nastro canzoni, argomenti e punti di vista, ben attento a non deragliare dal cliché per una intera carriera artistica; invece ha sempre mostrato coraggio e una sfuggente anguillosità nel non farsi costringere in un genere o in uno stereotipo (prova ne siano i malumori di una fetta del suo pubblico all’altezza di album come “Panic” ma soprattutto “Humanomalies”). Certo, horror, esoterismo, magia sono da sempre elementi cardini del suo percorso artistico, ma Steve è anche quello del rock britannico degli Atomic Rooster e dei Black Widow, del kraut rock psichedelico degli Amon Düül II, dei culti scozzesi dei misteriosi Monument (autori di un solo magnifico album, “The First Monument”), degli ancestrali segreti degli atlantidei High Tide, del glam rock appiccicoso degli Sweet, di quello degli Slade, del rock stravagante ed appariscente degli Sparks, e si potrebbe continuare per ore ed ore. Steve è notoriamente un collezionista, c’è chi pagherebbe (per esempio il sottoscritto) per poter accedere alla sua discografia e scartabellare il suo zibaldone di vinili, frutto di una vita di ricerche accurate e quasi scientifiche.

In fin dei conti, il suo girovagare tra un abbozzo di carriera solista negli anni ’90, le sperimentazioni con i Sancta Sanctorum e i W.OG.U.E., l’evasione anche oltre i confini della musica in ambito librario (le sue biografie) e cinematografico, le sue scelte animaliste e vegane, il suo profondo anelito di libertà individuale (e conseguentemente rispetto di quelle altrui), facilmente riscontrabile nelle sue interviste e dichiarazioni, sono l’ulteriore sottolineatura della dimensione generosa ed abbondante dell’uomo, del tutto irriducibile alle semplici copertine “orrorifiche” degli album dei Death SS. Ho sempre subito il suo fascino, come detto in apertura di paragrafo, e con questo mio piccolo contributo spero di avergli reso giustizia ed omaggio, se non altro in contraccambio di quanto ricevuto in tutti questi anni.

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Discografia Relativa

  • 1993 – Free Man
  • 1999 – Mad Messiah
  • 1994 – Broken Soul (EP)
  • 2010 – The Shining Darkness (Sancta Sanctorum)
  • 2010 – Work Of God United Entertainment (W.O.G.U.E.)
  • 2011 – Black Sun (Ep) (Sancta Sanctorum)

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