A metà anni ’90 gli Entombed, padri del death svedese, idoli di platee di fedeli cuori borchiati, hanno perso la testa ed hanno cominciato a pubblicare album sempre più lontani dall’ortodossia e sempre più incomprensibili. E’ andata esattamente così o la lettura può essere diversa? Ancorché incompresi e rifiutati con sdegno, quei lavori sono stati l’espressione sincera, autentica e genuina di una band che stava cercando una nuova strada, stava esplorando e sperimentando, e che quasi a forza è stata poi ricacciata sulla via vecchia perché quella nuova non poteva e non doveva essere. Non era tutto giusto e meraviglioso, in musica per fortuna esistono le sfumature, tuttavia sembra alquanto plausibile che la sensazione di libertà respirata a cavallo di quella decade sia stata strozzata in gola agli svedesi, avviatisi poi disciplinatamente su un binario che non avrebbe previsto più deviazioni.
Contenuti:
1. To ride… (1990 – 1992)
2. …Shoot straight… (1993)
3. …And speak the truth! (1994)
4. But life goes on (‘997)
5. Lights out
1 – To ride…
Troverete online e su carta stampata dotte e approfondite biografie sugli Entombed, la loro nascita, la loro formazione musicale, il loro ruolo all’interno della scena death svedese dapprima, e mondiale poi, la loro discografia non priva di capolavori, scossoni, cambi di direzione e purtroppo anche seppellimenti di propri membri storici (il pensiero va al buon Lars-Göran Petrov, che riposi in pace), esito beffardamente coerente per una band di “intombati”. Il punto qui semmai è un altro, preciso e focalizzato, gli Entombed di “DCLXVI: To Ride, Shoot Straight And Speak The Truth!”, anno di grazia 1997, quello nel quale escono album “sbandati” come “Jugulator” dei Judas Priest, “Carnival Of Souls” dei Kiss, “Kill Fuck Die” degli Wasp, “Hear In The Now Frontier” dei Queensrÿche, “Generation Swine” dei Mötley Crüe, “Shadowlife” dei Dokken, “Cryptic Writings” dei Megadeth, “ReLoad” dei Metallica. Ma anche quello nel quale determinate band riaffermano con determinazione ortodossia e tradizione a colpi di “Unleash The Beast” (Saxon), “Absolutely No Alternative” (Anvil), “Back From The Dead” (Obituary), “The Wake of Magellan” (Savatage), “Glory To The Brave” (Hammerfall), “Death Metal” (Dismember), “Somewhere Out In Space” (Gamma Ray), mentre tutto intorno realtà come Body Count, Clawfinger, Sevendust, Deftones, Coal Chamber, Hatebreed, Creed, Godsmack, Rollins Band, Limp Bizkit e Rammstein contribuivano con i loro album a creare un panorama completamente diverso, cangiante e mutevole.
Oltre ad aver creato un meraviglioso album death metal come “Left Hand Path”, averlo bissato con un secondo lavoro assolutamente all’altezza come “Clandestine” (per alcuni addirittura superiore all’esordio, sicuramente ancora più ricco e maturo sebbene io continui a preferirgli “il sentiero della mano sinistra”), gli Entombed si portavano dietro anche il carico da novanta di aver originato un vero e proprio filone musicale, quello del suono “buzz saw” delle chitarre, una scelta produttiva che vede protagonista Tomas Skogsberg in consolle e che ha finito con il marchiare ed identificare indelebilmente la band di Stoccolma e in larga parte il cosiddetto death svedese. Essere i detentori di un canone è un gran merito, una responsabilità e persino un onere, perché se per qualche motivo non sei nato con l’indole di Angus Young o dei (finti) fratelli Ramone e ad un certo punto decidi di guardarti intorno per esplorare nuove strade, il mondo ti si potrebbe ritorcere contro. Le prime avvisaglie arrivano con “Wolverine Blues” (1993) un disco che sta al death come il Black Album dei frisconi sta al thrash, ed è innegabile che l’eco della scelta dei Metallica, del loro azzardo, del loro pionierismo, si siano riverberati più o meno consapevolmente sugli Entombed così come su decine e decine di altre band che in quel fazzoletto di anni decidono di prendersi lo stesso rischio, alcuni assecondando un sentimento di vero e genuino anelito di cambiamento, altri odorando una nuova possibile via per mantenere stabile e possibilmente persino ingrossare il proprio conto corrente.
II – …Shoot straight…
Io sono tra quelli che corse ad acquistare il vinile di “Wolverine Blues” al momento della sua uscita, con le orecchie ancora impastate da quel monito sinistro che scivolava lungo “Sinners Bleed” e generava autentica inquietudine (“death…the final frontier“). Ricevetti una bella sberla non appena la puntina iniziò a mangiarsi i solchi. Erano loro, le chitarre erano sempre quelle, era tornata pure la voce di Petrov (su “Clandestine” cantava Nicke Andersson perché Petrov era in pausa “coatta”). Gli Entombed però non c’erano o meglio, risultavano alquanto trasfigurati. Si poteva ancora parlare di death metal? No, anche se lì per lì, contestualizzata nel flusso del tempo, la percezione non era così chiara. “Wolverine” era semplicemente un altro passo nell’evoluzione degli Entombed, come accade a qualsiasi band; la portata di quanto quel cambiamento fosse epocale non poteva essere compresa a pieno sul momento, sebbene la percezione ci fosse. Più avanzava il minutaggio più quegli afflati rock ‘n’ roll, gli assoli con lo wah wah, la voglia di svaccare, risultavano evidenti spie di un cambio di pelle. Agli Entombed il coraggio non è mai mancato, perché la consapevolezza che un album del genere avrebbe spaccato a metà l’audience c’era sicuramente, la devono aver respirata ogni singolo giorno in studio di registrazione, ciò nonostante non sono arretrati, non si sono fatti intimorire.
E’ vero, le basi death nel songwriting ancora permangono, siamo ad appena due anni di distanza da “Clandestine”, anche se musicalmente due anni nei ’90 equivalgono ad almeno venti in un’altra decade, un po’ come la differenza tra chi attraversa un buco nero o compie un viaggio nello spazio alla velocità della luce e chi invece nello stesso lasso di tempo rimane ad aspettare sulla Terra. Tuttavia tra indole hardcore punk, un tuffo con rincorsa nell’hard rock ed una certa suggestione per le sonorità groove e crossover che stavano emergendo soprattutto grazie a Pantera e Corrosion Of Conformity, gli svedesi confezionano la rivoluzione in 35 minuti. La Earache ci mette del proprio, stringendo un accordo con la Marvel senza informare la band e pubblicando una versione alternativa dell’album con Wolferine in copertina, un fumetto all’interno ed espungendo incomprensibilmente dalla track-list “Out Of Hand”. Pure nel videoclip promozionale della title-track c’è Wolverine. Pare che gli Entombed non fossero contenti dell’artwork in combutta con la Marvel, tuttavia dopo aver intitolato il disco così stupirsi dell’associazione col lupo in calzamaglia appare persino ingenuo. Marvel o non Marvel era ovvio che chiunque avrebbe fatto due più due e quell’ombra avrebbe inevitabilmente ammantato di sé il disco. Quali erano le intenzioni della Earache? Rendere “Wolverine Blues” più appetibile per il mainstream? Quali erano le intenzioni degli Entombed? Anche da parte loro c’era l’obiettivo di scalare il mainstream? Difficile dirlo, l’album nasce senz’altro da una sincera esigenza di sperimentare quelle sonorità, di esplorare; basta ascoltarlo e quella verità, quell’urgenza, sono autentiche e palpabili. D’altra parte si può nutrire pure un ragionevole dubbio che oltre a questo bisogno gli Entombed volessero allargare la base del proprio pubblico, desiderio legittimo e fisiologico; è più che comprensibile che un qualsiasi artista aspiri a raggiungere il più alto numero di persone possibili.
III – …And Speak the Truth!
“Wolverine Blues” almeno in parte ottiene lo scopo che (forse) la band si era prefissa, è un album di cui tutti parlano, molti lo comprano e molti lo apprezzano, nonostante sia divisivo e per qualcuno risulti indigeribile a prescindere. Personalmente ho sempre avuto un rapporto di amore/odio con quelle dieci fatidiche tracce. Per quanto mi riguarda, la differenza sostanziale tra un “Wolverine Blues” e il Black Album dei Metallica (l’alfa e l’omega di tutte le fregole di cambiamento) è che il primo ha comunque smantellato una band che adoravo e ha contribuito d’autorità alla scorticatura di un intero genere (che pure amavo), tuttavia non posso non dire che non sia un disco molto buono. Tre negazioni che tradiscono la complessità di emozioni e sensazioni verso “Wolverine Blues”, tre negazioni che alla fine riescono miracolosamente a generare un segno “+”. In aggiunta a ciò, gli svedesi hanno ulteriormente pubblicato altri album che, sebbene “diversi”, “scapestrati”, cocciutamente lontani dalle origini, si sono distinti per personalità e diverse buone intuizioni, non sempre, non tutti, ma un po’ si. E per quanto il cuore mi sanguini ogni volta che riprendo in mano il vinile di “Wolverine”, di tanto in tanto ho voglia di riascoltarlo, cosa che non accade affatto con l’altro compare nero, men che mai con i suoi (persino imbarazzanti) successori.
Giustamente gli Entombed del mio stato d’animo se ne sono fregati e, fatti passare tre anni e messa assieme nuova ispirazione e nuove canzoni, tornano con un lavoro altrettanto provocatorio e sfacciato, “DCLXVI: To Ride, Shoot Straight And Speak The Truth!”. Un titolo che è un guanto di sfida, un manifesto d’intenti con tanto di punto esclamativo. Un anno prima i Morgoth avevano pubblicato “Feel Sorry For The Fanatic” nel quale si intravede suppergiù la stessa attitudine, al netto di un sound non necessariamente sovrapponibile tra le due band. “You won’t believe your ears – but you’ll never forget what you hear!” recita la frase stampigliata in copertina, un artwork molto cinematografico con uno scheletro mascotte accovacciato in bella mostra, è quello di Mictlantecuhtli, dio azteco dei morti e re di Mictlan, la parte più profonda degli inferi. Quell’asserzione è un attacco senza quartiere alle convinzioni e alle speranze dei fans di “Left Hand Path” e “Clandestine”. Pareva la pubblicità dei televisori Telefunken (i più vecchietti se la ricorderanno): “potevamo stupirvi con effetti speciali e colori ultravivaci, ma noi siamo scienza, non fantascienza“. Gli Entombed nel 1997 si mostrano per quello che sono in quel momento, una band proveniente dal metal estremo, che lo ha ancora nelle vene e nel dna, ma che si è spinta altrove, parecchio spinta, parecchio altrove. Se “Wolverine Blues” ancora manteneva tracce e scorie death, “To Ride” le ha completamente riassorbite e diluite in un nuovo sound che guarda prevalentemente a stoner e hardcore ma con un timbro di chitarre talmente sporco da rischiare di essere smaltibile unicamente in un inceneritore, data l’alta concentrazione di tossine ed agenti inquinanti. Il livello di acidità delle chitarre di Hellid e Cederlund è urticante, dai solchi gronda rancido liquame giallo, Petrov si sgola fino a disintegrare le proprie corde vocali e la sezione ritmica di Sandström e Andersson sembra uscita fuori da quei vicoli malfamati dei ghetti dove percussori metropolitani prendono ossessivamente a mazzate dei bidoni vuoti.
Siamo già un passo oltre il death ‘n’ roll, siamo in un territorio vergine, inesplorato e che farà incazzare molte persone. Se qualcuno ancora considerava “Wolverine Blues” un mezzo passo falso dal quale si poteva retrocedere, “To Ride” è la certificazione che i ponti sono stati bruciati e che il punto di non ritorno è stato oltrepassato. Fatto il salto, gli Entombed hanno smesso di avere paura e di cercare di rimanere col piede in due staffe. “To Ride” è il caos, anarchico, hardcore punk, vada come vada, facciamo casino e che le vedove piangano. Gli Entombed gridano il loro “…e ora qualcosa di completamente diverso!“. Un album massimamente libero, decisamente poco preoccupato dal dover mantenere salde e visibili le radici di provenienza. Se proprio bisognava svaccare tanto valeva farlo alla grande, questo sembra il pensiero degli Entombed all’altezza del 1997.
IV – But life goes on
Asserragliati nel loro garage, con parecchie pernacchie ricevute per gli ultimi due dischi, gli svedesi perdono Andersson (che vola verso gli Hellacopters), il suo posto viene assegnato a Peter Stjärnvind. Non ci stanno a leccarsi le ferite e recitare la parte delle vittime, la miglior difesa è l’attacco e stavolta in appena un anno la band confeziona il successore di “To Ride”. Miracolosamente Music For Nations continua a dar loro credito e oplà, il 16 novembre 1998 esce “Same Difference”. Sin dall’artwork l’impatto non è felicissimo, il concept ricorda parecchio il terzo omonimo album degli Alice In Chains, uscito per altro nel ’95, quindi è assolutamente possibile che l’ispirazione derivi da lì. Molti organi di stampa ci mettono poco a fare l’associazione e a liquidare sbrigativamente il disco come “il passo nel grunge” degli Entombed. Per la verità l’argomento non è neanche del tutto campato per aria, perché volendo dei rimandi per esempio agli Helmet ci sono pure, vedi “High Waters” (ma anche agli stessi Alice In Chains). E del resto, per paradosso, è assai più probabile che un fan dei Sonic Youth potesse gradire “Same Difference” anziché uno dei Dismember o degli Unleashed, per dire. Il quinto capitolo discografico degli Entombed è irricevibile per chi li ha scoperti ed amati con “Left Hand Path” e poi “Clandestine”, ed è incredibile che Cederlund (il principale compositore) e soci ritenessero che “Same Difference” sarebbe potuto passare indenne attraverso le forche caudine di un pubblico e di una critica che aspettava la band al varco con i fucili spianati e le cassettate di uova e pomodori marci comprati per l’occasione. I 43 minuti di una scaletta declinata in ben 13 tracce sono completamente fuori portata per un deathster, gli Entombed si dimostrano totalmente scollati dalla realtà, calati in tutt’altra ottica e non sembrano minimamente porsi il problema come tale, ovvero: un problema. Lo avevano a Houston ma non a Stoccolma. Non esiste più un idem sentire tra la band e la propria fan-base, sono due entità distinte ed inconciliabili, e tutto ciò è avvenuto nel giro di pochissimi anni. Molti faticano ad assegnare quella musica agli stessi Entombed, un po’ come accaduto ai Destruction di “The Least Successful Human Cannonball” o ai Celtic Frost di “Cold Lake”.
“Same Difference” è l’opposto di ciò che gli Entombed avrebbero dovuto fare, un suicidio artistico prima ancora che commerciale e questo li rende meravigliosi. Non l’album ma la band, adorabili nel loro totale disinteresse per le conseguenze di una simile scelta, quella di fare esattamente ciò che sentivano di dover e voler fare, dar corso alla propria volontà senza la minima zavorra ad ancorarla al suolo della real politik. Se invece parliamo strettamente di “Same Difference”, il discorso si fa complesso. Se vi aspettate un disastro totalmente fallimentare, si rivelerà decisamente meno peggio di come vi è stato descritto; di contro, se pensate che sia un piccolo gioiello da riscoprire che ha sempre e solo goduto di pessima pubblicità…. beh, non lo è, ha diverse pecche, alti e bassi piuttosto marchiani, un orientamento incerto sulla direzione da prendere (cosa che non si avvertiva affatto su “Wolferine” e “To Ride”), ma ospita anche una manciata di buone idee in “Addiction King”, “Kick In The Head”, “High Waters”, “Jack Worm” e la title-track. “Same Difference” è come l’uovo sulla pizza bismarck, un ingrediente avulso da tutto il resto, piazzato nel bel mezzo di una pizza che non c’entra assolutamente niente con quell’uovo. Allo stesso modo “Same Difference” non c’entra granché con la discografia (prima e dopo) della band e non c’entra assolutamente niente col death e con la Svezia; ciononostante l’anima degli Entombed lì dentro aleggia, si respira, pulsa. C’è il dito medio alzato al mondo, c’è la voglia di sperimentare, ci sono le loro chitarre garage, c’è Petrov che urla in continuazione, incessantemente. In un mondo “what if” se ad esempio l’album avesse avuto un altro cantante, più accorto a modulare la propria interpretazione e a calarsi dentro l’atmosfera delle canzoni invece che sventrarle sempre e comunque, “Same Difference” sarebbe risultato decisamente più tridimensionale, pur con tutte le sue pecche ed incertezze strutturali. Mi vengono in mente i Prong, autori di splendidi album ed altrettanto splendide canzoni, ma non di rado fiaccati dall’ostinato e persistente cantato monotono di Tommy Victor, che non canta, urla incazzato 24h come fosse alla testa di un corteo di ultras. Alla lunga stanca e soprattutto appiattisce suo malgrado un tappeto sonoro ricco invece di sfumature e contrasti, che lui stesso come songwriter ha brillantemente contribuito a creare.
V – Lights Out
Col senno di poi Petrov si rimangerà l’anelito di libertà espresso su “Same Difference”, inquadrandolo come il passo falso della band, il disco più debole degli Entombed. Il ritorno all’ovile sarà palese con “Uprising” (2000), rassicurante sin dall’artwork scarno ed essenziale, stavolta mutuato dai Danzig. Una decade dopo “Left Hand Path” non si poteva certo recuperare quelle sonorità talis qualis, ma perlomeno il passo di riavvicinamento a “Wolverine Blues” è significativo, il death riaffiora sullo sfondo e una fetta di audience può tornare a far pace con gli Entombed. Per la verità da quel momento in poi non saranno tutte rose e fiori, le scalette dei dischi che verranno non saranno esenti da cali di tensione, passaggi a vuoto e scarsa ispirazione, ma porteranno sempre in dote la cenere sulle teste penitenti della band, intenzionata a mantenersi nel solco dell’ortodossia senza (più) giravolte. Non dico che “Same Difference” fosse necessariamente migliore degli album venuti dopo, anzi ritengo che certamente non sia così, ma buttare via il bambino con l’acqua sporca sarebbe un errore. C’è del buono in quel disco e soprattutto c’è qualcosa che poi è andato progressivamente affievolendosi nella produzione degli Entombed – con e senza A.D. – una sincera e genuina voglia di rischiare. Ovviamente è anche una questione di gusti ma l’encefalogramma dava qualche sussulto in più nel ’98 rispetto ai 2000. Album dopo album il mestiere ha preso il sopravvento e se “Uprising” o “Morning Star” erano ancora mediamente molto pregevoli, col progredire della discografia il songwriting ha finito con l’avvitarsi sempre più se stesso. Se invece che con gli ultimi tre lustri il paragone si pone con “To Ride” beh, allora è tutto un altro paio di maniche, per il sottoscritto non c’è partita. Posto che i primi due album sono “la storia” della band e del death metal, nonché due capolavori, “To Ride” è il disco degli Entombed post 1991 che ho più ascoltato e posso affermare senza tema di smentita che gli assegnerei il bronzo in un ipotetico podio entombediano. “To Ride” si è rivelato più longevo di “Wolverine Blues”, forse proprio perché più spoglio e diretto. Riff, batteria e ammuina, non c’è complessità, solo l’urgenza di arrivarti dritto in faccia e spaccare tutto in nome della catarsi. E “Wreckage” è il manifesto perfetto di un tale stato d’animo punk. I Venom jammano con i MC5, i Blue Cheer prendono a cazzotti i Black Sabbath in quei solchi, ed il risultato è un album attaccabrighe e selvaggio, anche se lo è in modo diverso rispetto ai primi passi degli svedesi. Coraggio, incoscienza e verità, ecco cosa significava quella frase sibillina stampata in copertina: “You won’t believe your ears – but you’ll never forget what you hear!“. Io cari Entombed non me lo sono affatto dimenticato, semmai ve lo siete scordato voi!
1 Comments
Carmine
bellissimo Marco! ho anche acquistato di recente To Ride e sono tra quelli che apprezza Wolverine.