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Ace Frehley – The New York Groove

UNA CARRIERA AL BACIO

Cosa succede se spediamo un cherokee nello spazio? Semplice, si trasforma nel più grande chitarrista della storia dell’entertainment rock. A 70 anni suonati l’Asso non ne vuole sapere di attaccare gli stivaloni da allunaggio al chiodo, macina album (di inediti) e omaggia i suoi idoli di gioventù (con le cover). Una carriera al Bacio!

Contenuti:

1. Dal Bronx allo spazio (1972 – 1973)
2. La cometa salvifica (1974 – 1987)
3. Niente baci, ce la faccio da solo (1988 – 1989)
4. In pensione su Marte (1990 – 2018)

1 – Dal Bronx allo spazio

Può un alieno venire dal Bronx? Beh, intorno agli anni ’70 tra l’inospitalità della Luna e quella del quartiere newyorkese non correva poi una differenza così abissale. Era dura essere un ragazzo nel Bronx. Paul Daniel Frehley (detto “Asso” per la sua dimestichezza con il gentil sesso) ha 19 anni quando quel decennio prende avvio tra le periferie proletarie della Grande Mela. L’ambiente gli è congeniale perché per diverso tempo si affilia ad una gang della zona e commette scorribande, con la convinzione che quella sia la cosa più “cool” e divertente da fare, anche se l’idea del malavitoso di per sé non lo conquista mai fino in fondo. Alla chitarra e quindi, per proprietà transitiva, alla musica arriva relativamente tardi, a 13 anni, quando i suoi genitori gli regalano una chitarra, proprio come antidoto alla vita da strada. Progressivamente Paul Daniel si disinteressa sempre più delle imprese dei compagni, il suo delinquere va in direzione indirettamente proporzionale al fascino che la musica esercita sulle sue dita e sulle sue sinapsi. Paul non è più uno della gang, è un musicista, qualsiasi sia il traguardo, alto o basso, al quale questa nuova dimensione potrà portarlo. Nomi come Eric Clapton, Pete Townshend, Jeff Beck, Jimmy Page sono quelli ai quali guarda con più stima ed apprezzamento. Come tutti i giovani strimpellatori, assomma giovani formazioni con cui farsi le ossa, spesso e volentieri neppure così vicine ai suoi gusti musicali, ma da subito Paul si dimostra volenteroso e disponibile ad apprendere stili e generi diversi, a 360 gradi.

Il 17 dicembre 1972 legge sul Village Voice il provvidenziale annuncio messo da Stanley Harvey Eisen e Chaim Weitz, due quasi coetanei in cerca di una “chitarra solista abile e veloce”. Chi scrive dichiara di avere un “album in uscita a breve”. Paul è straconvinto di possedere entrambe le doti richieste e telefona a Stanley per fissare un provino. Tra le prime domande che riceve dall’altro capo del telefono c’è quale sia il suo aspetto esteriore, se insomma il suo sia un physique du role sul quale poter scommettere. Stanley chiarisce da subito che il progetto intende suonare rock al massimo volume e giocare fortissimamente su un approccio teatrale e scenograficamente appagante. Due settimane dopo Frehley è in sala prove con i ragazzi, assieme ad un piccolo plotoncino di altri candidati (tra i quali anche Bob Kulick). Ci arriva accompagnato dalla madre e indossando due scarpe di diverso colore ai piedi. Scopre subito che non esiste nessun contratto e nemmeno un album in uscita (cosa che aveva ampiamente prefigurato) e viene cazziato praticamente all’istante da Chaim Weitz perché, anziché attendere il suo turno in silenzio, suona di continuo la chitarra, disturbando gli altri. Al momento del provino vero e proprio i suoi potenziali futuri datori di lavoro gli chiedono di improvvisare su una loro composizione, si chiama “Deuce”, e dovrà anche fare l’assolo. Finita la canzone, le mani si stringono ma nessuno si sbilancia.

A metà gennaio Stanley si manifesta nuovamente, invitando ancora Paul Daniel a suonare con loro. E’ fatta, Frehley è dentro. Fraternizza rapidamente con Peter Criss, il batterista, con cui hai in comune un’indole mite e votata al disimpegno, e con il quale alle feste condividerà droghe e alcol (le donne saranno tutte per Chaim Weitz… che avrete capito essere il futuro Gene Simmons). Who, Hendrix, The Move, Alice Cooper e New York Dolls sono le sfide a cui tendono i quattro ragazzi, i maestri con i quali confrontarsi. Il primo nome assegnato a questa incarnazione rock n roll è Fuck!, con tanto di punto esclamativo. Non ci vuole molto a capire che non avrebbe portato la band granché lontano. Però l’idea di fondo deve rimanere, una sola parola, esplosiva, boom e il nome ti inchioda. Criss ha suonato in un gruppo chiamato Lips e, associazione di idee dopo associazione di idee, Stanley tira fuori Kiss. Del logo si incarica Frehley. Le famose SS accusate di filonazismo in realtà vogliono simulare molto più prosaicamente due saette (“Cazzo è ridicolo. Non ero mica così nichilista. Credevo semplicemente che le saette ci sarebbero state bene, e avevo già deciso che il mio personaggio nella band sarebbe stato The Spaceman e che avrei avuto delle saette sul costume di scena. Quindi tutto filava“). Il 30 gennaio 1973 al Popcorn del Queens avviene al prima esibizione della storia dei Kiss, davanti ad un pubblico numericamente più risicato della stessa crew della band.

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II – La cometa salvifica

Sei studio album e due doppi live in tre anni e mezzo, oltre a tour in crescita esponenziale per importanza e dimensioni. Quando nel ’78 arriva dal management l’idea di produrre quattro lavori solisti, uno per ogni membro dei Kiss, è anche un modo per far tirare il fiato ai quattro supereroi, oltre che l’ennesima avveduta mossa commerciale. Ciascuno ha la libertà di fare quello che vuole, suonando cosa vuole con chi vuole, senza il veto dei compagni. Ace, già esausto dai pochi anni di esistenza della band, afferma di tornare finalmente a sentirsi vivo e motivato. Gene si vanta di scrivere almeno una canzone al giorno, una sboroneria incomprensibile per Frehley che invece vuole la qualità, non la quantità. Il 18 settembre escono contemporaneamente tutti e quattro gli album. Quello di Ace sbaraglia gli altri per accoglienza, critica, vendite e valore oggettivo. Il singolo trainante diventa “New York Groove”, cover degli Hello People (ma il pezzo lo scrive Russ Ballard) che inizialmente Ace non apprezza neppure particolarmente, tanto da dubitare di inserirlo in scaletta.

Dopo questa esperienza, il ritorno in studio con Gene, Paul e Peter non è dei migliori. Ace ha tastato con mano che da solo può farcela e per di più la direzione che intende prendere la band non è chiarissima, l’aria che tira non lo convince. L’interazione dei quattro è sempre più approssimativa, ognuno sostanzialmente procede per conto proprio. Due sono i pezzi a firma Frehley, “Hard Times” e “Save Your Love”. Durante la lavorazione dell’album Peter Criss rimane vittima di un incidente d’auto che ne ridimensiona la resa, soprattutto a causa della dipendenza da antidolorifici che sviluppa. L’orizzonte ultimo di questo travaglio sarà l’allontanamento del batterista per volere di Simmons e Stanley tra “Dynasty” e “Unmasked”. Un altro tassello che gioca a sfavore di Frehley, assai più legato a Criss che agli altri due band mates. “Talk To Me”, “Two Sides Of The Coin” e “Torped Girl” costituiscono il tris di brani che fa sfavillare un album di per sé già notevole come “Unmasked”. La frattura tra lo Spaceman e la band è però solo rimandata. “Music From The Elder” segna il totale disaccordo del chitarrista sulle scelte operate dal produttore Bob Ezrin in accordo con gli altri membri del gruppo. Ace non sente di appartenere a quell’album e forse neppure più alla band.
In realtà Music From The Elder non è un disco così tremendo. E’ tremendo per essere un album dei Kiss“. All’altezza di “Creatures Of The Night” – anche se furbescamente ancora accreditato – Ace rinuncia consapevolmente ad un contratto di 15 milioni di dollari pur di garantirsi una via d’uscita per la sua libertà creativa e prim’ancora per la sua sanità mentale. E’ fuori dai Kiss. Il tour che scaturisce dall’album vedrà Vinnie Vincent indossare i suoi panni sgargianti ed argentati.

Il primo Frehley’s Comet è del 1987, prodotto da Eddie Kramer – già produttore di numerosi titoli dei Kiss – disco d’oro negli States (43esima posizione nella chart Billboard 200), tanto da spedire la band di supporto ad Alice Cooper in tour. E’ un mezzo miracolo considerando quello che poteva scaturirne (di negativo). L’ultimo vero lavoro con i Kiss è “The Elder”, sei anni di iato separano il sempre più alcolico Space Ace da quello, anche se nel frattempo aveva fatto ospitate per Wendy O. Williams e i Loudness. Vero è che il disco solista del ’78 ha sprigionato un potenziale che forse neppure lo stesso chitarrista cherokee pensava di avere, ma adesso si tratta di farcela solo e soltanto con le proprie traballanti ginocchia, sempre più piegate dall’abuso della bottiglia, degli antidolorifici e ulteriormente provate da tutto il corredo di beghe da rockstar viziata e infantile (vedi alle voci: incidenti d’auto, noie con la Polizia, terapie di disintossicazione, travagli sentimentali, etc). Alla batteria Ace chiama il sodale Anton Fig, già sostituto di Criss in alcuni album come “Dynasty” e “Unmasked”, e divide il microfono con il cromatissimo Tod Howarth. La scaletta contiene alcune perle assolute come l’opener “Rock Soldiers”, “Into The Night”(proprietà del solito Ballard), “Dolls”; la strumentale “Fractured Too”, evidente prosecuzione di “Fractured Mirror” con cui si chiudeva “Ace Frehley” nel 1978. “Breakout” la scrive assieme a Eric Carr al tempo di “The Elder”, viene scartata dai Kiss che poi la recuperano con “Revenge” (quando gli avanzi andavano più che bene). Altra curiosità riguarda “We Got You Rock”, brano originariamente composto da Jay And The Americans come risposta a “I Love Rock & Roll” di Joan Jett. L’album è una prosecuzione piuttosto naturale del sound kissiano, anche se Frehley ci mette del proprio, personalizzandolo liberamente e infondendo alle tracce una vitalità ed un entusiasmo che donano indubbia brillantezza al disco.

III – Niente baci, ce la faccio da solo

Per tenere i fans in caldo nel maggio dell’88 pubblica l’EP “Live+1”, 4 tracce live più “Words Are Not Enough”. A luglio fa bella mostra di sé nei negozi “Second Sightning”, l’avvento della seconda Cometa, ad un anno esatto dalla prima (decisamente più rapida di quella di Halley). Fig viene sostituito da Jamie Older (Bob Seger, Eric Clapton). Complessivamente la scaletta si rivela forse meno incisiva di “Frehley’s Comet”, beh quello dopotutto è un album empireo. Ace ha ancora l’ispirazione dalla sua, tuttavia il responso del pubblico è meno caloroso, anche perché lo stile vira un po’ troppo verso sonorità ruffiane, patinate, a tratti hair metal e AOR (“Time Ain’t Runnin’ Out”, “It’s Over Now”, “Loser In A Fight”). Non che ai Kiss vada meglio, da “Crazy Nights” in poi (uno dei miei album preferiti del Bacio, nonché uno dei più sottovalutati) gli anni ’80 riversati nei loro solchi stanno prendendo una piega diversa, ed è indubbio che i vari “Hot In The Shade”, “Revenge” e compagnia seguente abbiano assai meno da offrire rispetto alla discografia classica del gruppo. “Dancin’ With Danger” è accreditata a Frehley e Dana Strum, tuttavia è identica, titolo compreso, all’omonima canzone degli Streetheart, di cui è palesemente una cover, salvo il testo diverso. “The Acorn Is Spinning” è la strumentale, piuttosto vigorosa, che chiude l’album, come per le varie “Fractured”.

Nell’89 esce un nuovo album di Ace, “Trouble Walkin’”, ma anziché essere il terzo della Frehley’s Comet diventa il primo ad essere pubblicato come Ace Frehley (dopo quello all’interno dell’esperienza Kiss, s’intende). Al basso c’è il solito John Regan della Cometa, Anton Fig è sempre nelle retrovie a dare una mano, anzi una bacchetta, mentre come drummer istituzionale alle pelli troviamo Sandy Slavin dei Riot. Gli ospiti non mancano, ad esempio c’è mezza formazione degli Skid Row ad occuparsi delle back vocals. E, ciliegina sulla torta, si riaffaccia in sala di registrazione pure il vecchio amico fraterno Peter Criss. Anche stavolta Frehley e i Kiss si disputano una canzone, “Hide Your Heart”, che compare qui e nella scaletta di “Hot In The Shade” (che esce in contemporanea nei negozi), in effetti co-scritta da Paul Stanley e Russ Ballard e che dà pure il titolo ad un album di Bonnie Tyler. “Do Ya” è una cover dei britannici The Move, mentre “Five Card Stud” è frutto della collaborazione di Ace con Marc Ferrari dei Keel. A livello di charts l’album si attesta persino 20 posizioni sotto il secondo Frehley’s Comet (dalla 81esima alla 102esima). Si tratta di un ritorno più filologico al tocco di Frehley sentito nei Kiss, tuttavia l’incantesimo riesce solo parzialmente al chitarrista neworkese, il pubblico sembra inconsapevolmente già rivolto al nuovo decennio imminente ed al suo rifiuto snobistico del classic rock, in favore di nuove contaminazioni. L’amicizia tra Criss e Frehley non è mai venuta meno, nonostante la separazione forzata in casa Kiss a partire da “Dynasty”. I due si ritrovano in un caloroso abbraccio e per qualche tempo girano sui palchi canadesi ed americani assieme a Richie Scarlet (chitarrista di “Trouble Walkin'”) con il progetto Bad Boys Tour, riproponendo ovviamente i brani dei Kiss.

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IV – In pensione su Marte

I primi anni ’90 Ace li trascorre così, mentre i Kiss pubblicano album minori, se non proprio trascurabili, nonostante il solito clamore mediatico (sempre più indotto e sempre meno spontaneo). Le due famiglie tornano a riunirsi nel ’95 quando i quattro membri originali vanno in tour assieme e dichiarano al mondo che nuovo materiale verrà scritto e pubblicato. Si tratta di “Psycho Circus”, uscito il 22 settembre 1988. Strombazzato come l’album della reunion, vede in realtà un risicatissimo coinvolgimento di Frehley e Criss (strano eh?). “Into the Void” è l’unico brano scritto da Frehley ed è ritenuto l’unico sul quale probabilmente l’intera line-up suona assieme per davvero. Il vizietto di vecchia data di far suonare gli strumenti a musicisti che poi non vengono menzionati nei credits non abbandona Stanley e Simmons. In realtà Frehley di pezzi ne scrive diversi ma deve scontrarsi sempre e comunque con i dinieghi dei due detentori del marchio, o comunque con le loro continue richieste di variazioni e modifiche. Non è il miglior album dei Kiss ma contiene due o tre zampate che lasciano il segno (la titletrack, “You Wanted The Best” e “Raise Your Glasses”).

E cosa può succedere dopo un tour della reunion? Ovvio, si va in tour per l’addio. Nel biennio 2000/’01 i Kiss suonano ovunque per il Farewell Tour, dopodiché Ace lascia nuovamente i Kiss (e ancor prima lo fa Criss, insoddisfatto del suo contratto e sostituito per le ultime date da Eric Singer truccato al suo posto da gatto). L’alchimia (ri)venutasi a creare è artefatta e posticcia; semmai fosse realmente esistita, è durata lo spazio dei primi tre album (praticamente un biennio), e “nonostante” il successo commerciale di “Destroyer”, il lavoro che consacra definitivamente la band (ma già “Alive!” era stato un successo commerciale), Ace ha visto quella svolta più come un merito di Bob Ezrin che della band. Faticava a riconoscere i Kiss in quel sound improvvisamente così barocco, stratificato, “orchestrato”, decisamente diverso dalla ruvidità degli esordi (con “Rock And Roll Over” si tornò parzialmente a sonorità a lui più affini). “Non lo sentivo come il mio disco. In effetti, di tutti gli album che avevamo registrato fino a quel momento, Destroyer era quello che sentivo meno mio. Era una creatura di Gene, Paul e Bob“. Ace è sempre stata la faccia più umana dei Kiss, magari un fanfarone non del tutto affidabile, ma anche uno con un cuore ed un’anima anziché un registratore di cassa programmato per fare soldi con qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, fosse un 33 giri, un pupazzo, un hamburger o un dentifricio.

Lo perdiamo di vista per nove lunghi anni, perlomeno discograficamente parlando (raccolte e greatest hits escluse), fino a che inaspettatamente risorge a nuova vita artistica con quello che a tutti gli effetti è appena il suo secondo disco solista intestato a se stesso (il quinto considerando anche quelli dei Frehley’s Comet), “Anomaly”. Caratterizzato da una delle più orrende copertine che la storia del rock ricordi, autoprodotto da Ace (tranne che per la cover degli Sweet “Fox On The Run”, prodotta da Marti Frederiksen), è dedicato alla memoria di Eric Carr (nel frattempo defunto), Dimebag Darrell e Les Paul, e si chiude con la strumentale “Fractured Quantum” (dopo che “Trouble Walkin’” aveva ospitato in scaletta, naturalmente nell’ultima posizione, “Fractured III”). Francamente che nel 2009, a 58 anni, Ace Frehley tornasse con un album del genere non era esattamente ovvio e scontato. “Anomaly” è una gran bella prova; un lotto di pezzi tra rock e metal con la retromarcia innestata (in senso temporale), che ha il sapore della classicità e dell’Olimpo del Rock, quello dove i grandi suonano dall’alba dei tempi e continueranno incuranti a farlo fino al giorno ultimo. Niente svolazzi, nessuna invenzione plateale o trovata da show biz, solo dodici tracce robuste, energiche, composte e suonate da uno che ha ancora da dire e da dare, nonostante una biografia fatta di eccessi, stranezze e abusi chimici. Che fanno nel 2009 i Kiss? Boom… anzi “Sonic Boom”, l’ennesimo ritorno, a undici anni da “Psycho Circus”, ovvero a undici anni dalla precedente release, esattamente come Ace, che in quell’album suonava (almeno un po’). “Sonic Boom” non è un capolavoro, ma regge discretamente. “Anomaly” sta una spanna sopra. Alla soglia dell’appuntamento con l’INPS, Ace batte di misura i Kiss 12 tracce a 11.

E il bello è che non si tratta di un fuoco di paglia. Certo, i tempi non sono più quelli funambolici e nevrotici degli esordi, i ragazzi non rilasciano più due album all’anno. Ce ne vogliono cinque di primavere prima che Frehley dia un seguito ad “Anomaly”, (nel frattempo nel 2012 Gene e Paul hanno pubblicato “Monster”), ma accade. “Space Invader” è ancora una volta un’autoproduzione e si guadagna un primato, ovvero è l’unico album solista di un Kiss (di sempre) ad entrare nella top ten di Billboard. Stavolta l’artwork è meraviglioso (oltre che fortemente nostalgico), lo disegna Ken Kelly, quello di “Destroyer” e “Love Gun”. “Anomaly” gli rimane superiore ma si tratta di un disco solido, elegante, il savoir-faire del rock n roll che solo l’aristocrazia sa sfoggiare. Ace è tra quegli artisti che sono immanenti, sovrastano lo scorrere del tempo, suonano una musica che non ha età, va bene per tutte le stagioni. Insieme ai 40 anni trascorsi dai primi riff dispiegati su Kiss, sono passati anche un secolo ed un millennio, eppure le sei corde dello Spaceman sembrano come appena forgiate ed elettrificate, e destinate ad accompagnarci per un altro millennio a venire, magari proprio mentre a bordo della USS Enterprise faremo rotta verso “l’ultima frontiera, diretti all’esplorazione di strani, nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima“. C’è ancora spazio per un ulteriore album, è “Spaceman” del 2018 dove tra i musicisti coinvolti compare niente meno che sua Maestà Million Dollar Man, Gene Simmons, a ribadire un rapporto di amore/odio complesso che per decenni ha legato Ace ai Kiss e viceversa. Il disco suona bene, egregiamente direi, comincia a scarseggiare la fantasia tematica, non ci si schioda dai riferimenti spaziali oramai masticati e rimasticati fino allo sfinimento, ma quando Ace fa vibrare le corde della chitarra tutto passa in secondo piano.

Discografia Relativa

  • 1978 – Ace Frehley
  • 1987 – Frehley’s Comet
  • 1988 – Live+1
  • 1988 – Second Sighting
  • 1989 – Trouble Walkin’
  • 1997 – 12 Picks (best of)
  • 1998 – Loaded Deck (best of)
  • 2006 – Greatest Hits Live (best of / live)
  • 2009 – Anomaly
  • 2014 – Space Invader
  • 2016 – Origins, Vol. 1
  • 2018 – Spaceman
  • 2020 – Origins, Vol. 2

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