Una delle unità di misura possibili per esaminare la carriera solista di Ozzy Osbourne è quella dei chitarristi che lo hanno accompagnato lungo quattro decadi, per un totale di 12 album. Il primo periodo con il compianto Rhandy Roads (1980 – 1982); il cosiddetto “periodo medio” nonché “patinato” con Jake E. Lee (1983 – 1987); la fase con Zakk Wylde, la più lunga e duratura con lo stesso uomo al proprio fianco (1988 – 2007); one shot one kill con Gus G. (2010); la fine del mono-chitarrismo e l’avvento degli special guests a girandola (2020 – 2022). Premesso che dei dischi di Ozzy non si butta via niente o quasi, ognuno ha la sua stagione preferita all’interno della discografia del Mad Man, che spesso si concilia con la simpatia accordata al chitarrista/songwriter di turno. Nel mio caso, non ci giro intorno, è quella con Jake E. Lee, forse il più sottovalutato di tutti (in proporzione al suo potenziale), schiacciato tra Rhoads e Wylde, entrambi particolarmente amati dal pubblico e da Ozzy stesso. Eppure gli album scritti e suonati da Lee sono incredibilmente belli, sebbene la loro consonanza con il glam/hair metal li abbia fatti andare un po’ di traverso sia ai fan ortodossi della prima ora, che a quelli della distilleria redneck gestita poi da Wylde.
Contenuti:
1. Destroy, erase, improve 1970 – 1979)
2. Si chiude una porta, si apre un portone (1980 – 1982)
3. Il Peccato supremo: l’America (1983 – 1986)
4. Lee-cenziato (1987)
5. Polvere di stelle (1988 – 2022)
1 – Destroy, Erase, Improve
All’altezza del 1983 se John Michael Osbourne avesse fatto un bilancio della sua vita sarebbe potuto essere più che soddisfatto di quanto realizzato sin lì, milioni di album venduti mettendo assieme gli otto con i Black Sabbath e i due solisti, gli status di “Princpe delle Tenebre” e “Mad Man” guadagnati sul campo per avere tenuto il fronte di una delle band più innovative della storia della musica ed aver compiuto le stupidaggini più clamorose ed imbarazzanti dello show biz, la soddisfazione personale di aver dimostrato che c’era vita anche oltre i Black Sabbath, plasmando una carriera che nei primi ’80 era appena all’inizio ma già solidissima e platinatissima considerando i feedback ricevuti per “Blizzard Of Ozz” e “Diary Of A Madman”. Certo, lo scotto da pagare per tanto successo (e tanto denaro) era l’obbedienza alla santà trinità delle rock, sesso, droga e rock ‘n’ roll, con la droga (e l’alcol) in particolar modo e minare quanto di buono Ozzy stava costruendo. Ma capire se le dipendenze di ogni rockstar siano state benzina o veleno per la sua carriera è impresa ardua, il confine è sottile e perlopiù si è quasi sempre trattato di entrambe le cose. Tant’è che c’è chi si spinge a dire provocatoriamente che in qualche caso “era meglio quando si drogavano” – ogni riferimento a Dave Mustaine (non) è del tutto casuale… Del resto nel 1979 Ozzy viene licenziato dai Sabbath esattamente per quello, abuso di droga e alcol.
Guardandosi indietro, il 35enne Ozzy avrebbe rivisto una modesta famiglia operaia di Birmingham, un piccolo appartamento con due camere da letto per otto persone (genitori e sei fratelli), gli anni scolastici scanditi dalla dislessia, la balbuzie, i deficit di attenzione, il bullismo dei compagni, persino i tentativi di suicidio (a suo dire), l’abbandono dello studio intorno ai 15 per diventare ora muratore, ora idraulico, ora operaio, ora macellaio in un mattatoio, il periodo in gattabuia (sei settimane) per furto. La vita apparecchiata per il piccolo Ozzy (soprannome che gli viene affibbiato sin dalle Elementari e che riproduceva la complicata pronuncia del suo stesso cognome, per lui quasi impossibile: “Os-os-os-bourne“) pare quella della stragrande maggioranza degli inglesi del dopoguerra, fabbrica, febbri e fatica. L’epifania arriva nel 1963 con “She Loves You” dei Beatles, la canzone a cui Ozzy attribuisce il merito di aver spostato la sua attenzione (definitivamente) sulla musica. L’entrata nei Black Sabbath arriva a 19 anni, anche se non è la prima band di Ozzy; in realtà l’iter prevede l’iniziale arruolamento nei Rare Breed di Terence Michael Joseph Butler detto Geezer, ragazzo piuttosto influenzato da John Lennon e Aleister Crowley, anche se andava tutte le domeniche a messa ma solo per vedere le belle ragazze che la frequentavano. Appena due concerti, poi i due si separano per poi ritrovarsi nei Polka Tulk, un quartetto blues che coinvolge anche il batterista Bill Ward e un certo Tony Iommi, che Butler aveva conosciuto poiché abitava vicino alla ragazza che frequentava in quel periodo. A forza di fare la stessa strada tutti i giorni si erano adocchiati ed il fatto che entrambi suonassero musica li aveva fatti incrociare anche in qualche club. Ma pure Ozzy lo conosceva, a scuola si erano picchiati di santa ragione visto che Anthony Frank Iommi era uno dei bulletti che lo prendeva in giro (e gli sganassoni torneranno a volare copiosi anche tra il 1970 e il 1978, Ozzy te li levava di mano).
Il nomignolo Polka Tulk dura poco e si passa a Earth, ma ce ne sono due di Earth in giro. Giunge in soccorso allora Boris Karloff, il cui film Black Sabbath diventa il nuovo nome del gruppo (stiamo parlando di I Tre Volti Della Paura di Mario Bava del 1969). Il blues viene appesantito il più possibile, coerentemente con il monicker, e pure i testi vanno di conseguenza, circumnavigando tenebre e oscurità. E’ nota la storiella secondo la quale la canzone “Black Sabbath” sarebbe stata scritta dopo un incubo di Butler dovuto alla lettura di un libro di occultismo; nottetempo Butler si sveglia (o perlomeno crede di essere sveglio) e scorge una tetra figura ai piedi del letto. Ozzy non se lo fa ripetere due volte e lo aiuta a scrivere il testo di una delle più famose ed importanti canzoni dell’heavy metal di tutti i tempi. La Warner Bros pubblica il debutto dei Sabbath, investe pochissimo ma quel che accade un minuto dopo finisce sui libri di storia. La band capisce al volo quanto al pubblico piaccia essere spaventato, l’uovo di Colombo per tutti coloro i quali campano di horror nel cinema, nella letteratura e anche nella musica. Certo, Ozzy si lamenta che quel filone porta pochissime donne, a Plant, Page, Jones e Bonham va decisamente meglio da questo punto di vista. Mal di poco, quella casella viene occupata da Sharon Arden, la figlia di Don Arden, il nuovo manager dei Sabbath nonché futura seconda moglie di Ozzy (a partire dal 1982, appena una settimana prima che l’Italia di Bearzot si laurei Campione del Mondo a Madrid).
Nel 1978 Vertigo Records pubblica “Never Say Die!”, da molti considerato il lavoro peggiore partorito della line-up classica dei Sabbath (1.300.000 copie vendute in tutto il mondo), ma personalmente uno dei miei preferiti. Due anni prima Ozzy si era già allontanato dai compagni di cimitero, temporaneamente sostituito da Dave Walker dei Fleetwood Mac. Quando ritorna sui propri passi parte del materiale è scritto, compresi i testi di Walker che Ozzy getta nel cestino pretendendo che vengano riadattati. Il padre di Ozzy è appena morto, la sua situazione emotiva non è delle migliori, il rientro in studio avviene come una fusione a freddo, nessuno dice nulla, nessun commento, si torna a lavoro ma nulla è più come prima. “Never Say Die!” è in realtà una sorta di assemblaggio di pezzi e frattaglie, un lavoro patchwork che il gruppo cerca di portare a compimento alla bene e meglio, come può (anche se stiamo parlando sempre dei Black Sabbath e non della Pino Auricchio Big Band). Il disco suona distante dal sound lugubre e solforoso dei primi anni, lì per lì non è un tracollo commerciale anche perché i Sabbath erano già in curva discendente, “Technical Ecstasy” era andato pure peggio, ma certo non testimonia il momento di feeling più alto tra la band ed il proprio pubblico. Posizioni di classifica (americana e britannica) modeste e bocca storta della critica. Quattro musicisti nello stesso studio fatto a compartimenti stagni, idealmente ognuno persegue scopi e strade che non sembrano affatto collimare con quelli altrui, un disastro annunciato, umano più che musicale, visto che tutto sommato l’album sta dignitosamente in piedi. Per altro è surreale che ad Ozzy vengano imputate dipendenze chimiche ed alcoliche così gravi da licenziarlo quando pure il resto della band affogava nello stesso mare. Ma le dabbenaggini che Ozzy combinava a seguito dello sballo non avevano (purtroppo) eguali in termini di danno alla reputazione della band. Dopo il tour con i Van Halen del 1979 Ozzy non è più un membro dei Black Sabbath.
II – Si Chiude Una Porta, Si Apre Un Portone
Nel periodo fuori dai Sabbath, Ozzy ha già in testa di provare una carriera solista e contatta dei musicisti, i Necromandus (Barry Dunnery/chitarra, Dennis McCarten/basso, Frank Hall/batteria). Non approda a nulla e ci riprova con un altro trio, John Fraser-Binnie dei Dirty Tricks (poi nei Rogue Male), Terry Horbury (basso), Andy Bierne (batteria) che di lì a poco farà parte dei Praying Mantis. Anche stavolta la cosa abortisce, anche perché Ozzy rientra nei Sabbath. All’indomani del definivo licenziamento deve per forza accadere qualcosa, ma intanto quel che succede è che “colto da psicosi maniaco-depressiva, Ozzy si rinchiude in una stanza d’albergo a Los Angeles e rimane lì per poco meno di un anno a bere e drogarsi, disperato, riducendosi così all’ombra di se stesso“. Questo narra la leggenda e molto probabilmente non differisce troppo dalla realtà, anche se più realisticamente ho letto che il periodo di lutto dura all’incirca 3 mesi anziché 12. Grazie all’aiuto di Sharon, esaurita ogni lacrima, ogni goccia d’alcol e di sangue nelle vene, Ozzy riprova per la terza volta la strada del progetto solista. C’è l’amico e futuro Slaughter Dana Strum (basso) a supportarlo; è grazie a lui che arriva Randy Rhoads (dai Quiet Riot, altra band in disfacimento all’epoca), il quale se la gioca sul filo di lana con George Lynch, pure audizionato per la nuova band di Ozzy.
Randy lega subito moltissimo con Osbourne, l’intesa trascende il piano strettamente artistico e musicale. Piano piano la line-up prende forma, Lee Kerslake (ex Uriah Heep) alla batteria e Bob Daisley (ex Rainbow) al basso si siedono accanto a Ozzy e Randy, e le tastiere di Don Airey si aggiungono all’amalgama di quelli che saranno i Blizzard Of Ozz (inizialmente album e band avrebbero dovuto avere lo stesso nome). I singoli “Crazy Train” e “Mr. Crowley” riscuotono un consenso enorme, trascinano il disco ai piani alti delle chart e certificano il platino per il debutto di Ozzy che scorrazza per un biennio in testa agli ascolti americani e inglesi, i mercati di riferimento. Stessa formazione ed appena 14 mesi di separazione tra “Blizzard Of Ozz” e il successore “Diary Of A Madman”, ma anche identico successo. Pare fatta, Ozzy ha risalito la china, i tempi della piagnucolosa stanza d’albergo impestata del tanfo di alcol, droga, autocommiserazione e fallimento sembrano lontani una vita, adesso è tutto oro ciò che Ozzy tocca, complice forse l’aiuto occulto di Aleister Crowley, omaggiato nel primo album e ancora in questo, visto che il titolo ne riprende l’autobiografia. In realtà siamo ad un attimo dal disastro, l’esatto fotogramma prima della detonazione. Daisley e Kerslake traslocano negli Uriah Heep e vengono sostituiti per il tour da Tommy Aldridge (ex Gary Moore) e Rudy Sarzo (ex Quiet Riot). Il tour va alla grande ma… è in agguato il “ma” più tragico dell’intera carriera di Ozzy, il 19 marzo del 1982 Randy Rhoads muore in un incidente aereo. Ozzy perde un chitarrista favoloso ed un amico insostituibile. Il tour per altro deve arrivare a compimento per ragioni contrattuali e le date senza Randy vedono Bernie Torme (ex Gillan) alla chitarra.
Per il terzo album la ricerca del chitarrista si fa estenuante. Da Brad Gillis (Night Ranger) a George Lynch (Dokken), da Michael Schenker (già solista) e Dave Meniketti (Y&T), da Robert Sarzo (fratello di Rudy che poi fonderà gli Hurricane) a Bill Tsamis (Warlord) e Marq Torien (King Kobra, Bullet Boys), fino a Jake Lou Williams, in arte Jake E. Lee, transitato nei Ratt e nei Rough Cutt, due band americane la cui impronta era decisamente più rotonda e manierata rispetto al sound fortemente debitore degli anni’ 70 del britannico Ozzy (intessuto da un chitarrista californiano). Lee ha sangue scozzese e giapponese, pur essendo nato in Virginia e cresciuto a San Diego, il padre è un jazzista, la madre una grande appassionata di musica classica, la sorella di pop ed è proprio lei ad instradarlo sulla via di Jimi Hendrix, Black Sabbath e Led Zeppelin, dopo una fanciullezza trascorsa ad imparare a suonare il pianoforte. Al netto dei dischi ascoltati, l’incontro con Ozzy non è il primo assaggio di Black Sabbath per Lee, era già stato chiamato da Ronnie James Dio nell’82 quando – fuoriuscito pure lui dalla band di Iommi – aveva avviato un nuovo progetto che portava il suo nome. La convivenza in sala prove dei due però dura poco, secondo Lee Dio voleva che la chitarra non oscurasse troppo i suoi vocalizzi e ben presto il chitarrista si sente di troppo in quel pollaio. E’ di nuovo Dana Strum, prezioso braccio destro di Osbourne, a raccomandargli il nome di Jake E. Lee, così come aveva fatto per Randy Rhoads. Alla fine della fiera, è ancora il povero George Lynch a battagliare per il posto di chitarrista con Jake E. Lee, ed anche stavolta non è Lynch a strappare un contratto.
Lee si unisce formalmente ad Ozzy durante il tour di “Speak Of The Devil” (che Osbourne corre a registrare in risposta a “Live Evil” dei Sabbath), poi la band rientra in studio ed ha inizio la composizione del nuovo disco. Nel frattempo Ozzy si seppellisce in clinica per disintossicarsi e alla riesumazione ha la bella sorpresa di trovare un bel po’ di materiale cotto e cucinato da Lee. A ben vedere, il disco viene interamente accreditato al solo Ozzy; Lee ha sempre sostenuto di aver dovuto firmare un contratto (sottopostogli da Sharon, moglie ma soprattutto manager di Ozzy) con il quale cedeva ogni paternità scrittura al leader maximo di Birmingham, né avrebbe potuto dire in pubblico ciò che si sapeva in privato, cioè che i pezzi li aveva scritti lui. L’alternativa a mangiare quella minestra è saltare dalla finestra e Lee accetta. Bisognerà aspettare le liner notes di “The Ozzman Cometh” nel 1997 per strappare una mezza ammissione a Ozzy sull’effettivo “coinvolgimento” di Lee nella scrittura dell’album (come del successivo “The Ultimate Sin”). Bob Daisley ha sempre confermato la versione del chitarrista, pur essendo stato messo pure lui a libro paga da Sharon per la creazione del terzo disco di Ozzy. Il primo singolo di “Bark At The Moon” è proprio la title-track, la canzone, il relativo videoclip e la copertina dell’album sono il biglietto da visita di Ozzy Osbourne anno domini 1983. L’artwork è agghiacciante come i due precedenti, il perfetto cocktail di cattivo gusto, divertimento e cialtroneria britannica, ai livelli che solo gli inglesi sanno arrivare quando si tratta di imbarazzo tronfio e senza vergogna. Ozzy ora è un licantropo, il che va benissimo con la canzone che dà il titolo all’album, forse stordisce un po’ i fans in occasione del secondo singolo, la (bellissima) ballad “So Tired”. Questo non impedisce al disco di diventare un successo commerciale conclamato, raggiungendo la 19esima posizione della Billboard album chart e diventando disco d’oro in poche settimane negli States (per attestarsi poi a circa 3 milioni di copie complessive) e d’argento in patria.
III – Il Peccato Supremo: L’America
“Bark At The Moon” cambia abbastanza le carte in tavola in casa Osbourne, l’asse si sposta sensibilmente verso l’America, questo scontenta qualcuno (i puristi) ed accontenta i fautori dello zeitgeist, lo spirito del tempo, visto che nello stesso anno arrivano “You Can’t Stop Rock ‘n’ Roll” dei Twister Sister, “Metal Health” dei Quiet Riot, “Shout At The Devil” dei Motley Crue, “Lick It Up” dei Kiss, “Pyromania” dei Def Leppard, “Breaking The Chains” dei Dokken, “Out For Blood” di Lita Ford, “Mean Streak” degli Y&T. “Bark At The Moon” è un disco eccellente (come i suoi predecessori del resto) ma si sente la mano diversa, un tocco differente, la “synth-esi” di Don Airey alle keyboards (vero trademark di metà anni ’80), sebbene il collante tra passato prossimo e presente rimanga comunque la voce di Ozzy, inquietante, sinistra, ambigua e “soprannaturale” come sempre. Ozzy il mago plana sul vinile da chissà quale mondo alternativo e parallelo, nel quale dimora e pasteggia in compagnia di Crowley, immerso in boschi sacri e magioni esoteriche; si concretizza tra i solchi sostenuto dalle note della sua band (ora un po’ più prosaiche e sornione) per portare il soffio del vento di Dioniso ed Epicuro sul proprio pubblico. I Sabbath intanto veleggiano verso mari opposti e contrari, pubblicando il nerissimo “Born Again”. La versione americana e quella europea si differenziano per una diversa dislocazione dei pezzi in scaletta ma anche per alcune canzoni che presenziano alternativamente solo in una delle due (“Centre Of Eternity” e “Slow Down” in quella USA, “Spiders” e “Forever” in quella europea). Daisley scrive il testo di “Now You See It (Now You Don’t)” pensando esplicitamente a Sharon e a tutto il sangue sputato all’epoca del suo primo licenziamento nel ’81 proprio a causa sua. Si è sempre detto sorpreso che i suoi datori di lavoro dell’epoca non abbiano colto o abbiano tollerato che quel pezzo finisse sull’album.
Nel 1983 il canadese James Jollimore accoltella a morte una madre ed i suoi due figli ad Halifax, alla vigilia di Capodanno, sotto l’influenza di “Bark At The Moon”, o almeno questo sostiene parte della stampa e le molte associazioni e gruppi cattolici alla notizia dell’efferato omicidio. La musica di Ozzy viene immediatamente bollata come satanica, né aiuta granché il suicidio del californiano John McCollum attribuito dai parenti all’ascolto della canzone “Suicide Solution”. Fioccano le testimonianze di sedicenti amici che descrivono Jollimore particolarmente instabile e allucinato ogni qual volta ascoltava “Bark At The Moon”. Ozzy va sotto processo per la vicenda McCollum (e anche per un caso analogo legato a un tizio di nome Michael Waller), per fortuna senza che alcun giudice gli riconosca il minimo addebito. Come prevedibile, questo tipo di fuffa attorno all’album non fa che raddoppiarne e triplicarne le vendite, anche perché diciamocela tutta, “Bark At The Moon” è una bomba, Ozzy è un performer imperdibile, Sharon è una macchina da guerra (e da soldi), la band che lo accompagna è un meccanismo ad orologeria. Per altro il “satanista” Osbourne è un anglicano praticante con l’abitudine di pregare ogni volta prima di salire sul palco. In questo contesto si inserisce Jake E. Lee, guitar hero dal gusto sopraffino e dal tocco elegante e vellutato, di miele pastoso e caramelloso ma mai stucchevole, anzi denso e robusto, capace di aggiungere davvero qualcosa alla qualità artistica del progetto Ozzy, non dico in più – perché certo Rhoads non era uno sprovveduto – ma di diverso, di ulteriore, arricchendo di nuove ed interessanti livree un songbook già generoso. E’ indubitabilmente sua la mano dietro gli album più glamour e lussuosi pubblicati da Ozzy, checché ne dicano gli Osbournes.
Più soldi portano più rogne a Ozzy, che entra ed esce dalle cliniche nelle quali lo confina Sharon, la quale lo obbliga pure a cambiare etichetta discografica (dalla Epic alla CBS/Columbia). Il tour di “Bark At The Moon” barcolla come Ozzy con l’alcol, la formazione viene rimaneggiata più volte e nel frattempo il Mad Man trova pure il tempo di riunirsi episodicamente con i vecchi band mates dei Sabbath per il Live Aid a Wembley (13.7.1985). A febbraio del 1986 esce nei negozi “The Ultimate Sin” (che originariamente si sarebbe dovuto chiamare “Killer Of Giants”, ma Ozzy cambia idea letteralmente all’ultimo minuto utile prima di andare in stampa). Album numero quattro della band di Ozzy, album numero due con Lee alla chitarra. Alla batteria c’è Randy Castillo (già con Lita Ford su “Dancin’ On The Edge”), al basso Phil Soussan, dopo che uno sfiancato Daisley alza bandiera bianca in aperto contrasto soprattutto con Sharon (benché avesse già scritto i testi del disco). In buona sostanza sono proprio Lee e Daisley gli artefici dell’album.
“The Ultimate Sin” incrementa l’aspetto edonistico del profilo osbourniano, oramai confinante con l’hair metal, ma sempre solido e ruggente. Quasi 41 minuti in cui si sente odore di lacca per capelli, tessuto spandex e cappellacci da cowboy (e a guardare le foto della line-up non si sbaglia). “The Ultimate Sin” è un disco divertente e divertito, fracassone, roboante, eppure al contempo affatto superficiale o inconsistente anzi, ogni nota è al suo posto, merito del bouquet zuccheroso ed abbondante ordito da Jake E. Lee, chitarrista troppo poco considerato nella biografia di Ozzy. Randy Rhoads e Zakk Wylde sono stati assai più appariscenti e viscerali come impostazione e questo ha finito con l’oscurare l’enorme classe di Jake E. Lee, più “mestierante” come ruolo ma non per questo privo di sostanza, anzi decisamente concreto e poco incline a voli pindarici. A titolo di mero gusto personale è in verità il chitarrista che preferisco tra tutti quelli transitati dalla corte di Ozzy, tant’è che i dischi che ha firmato sono quelli a cui rimango più affezionato, senza nulla togliere al valore dei restanti, indiscutibilmente belli e magari in qualche caso pure superiori in senso assoluto ma, come è risaputo, la musica è il regno del relativo, una questione prevalentemente di pancia. Neppure al cuore si comanda, mentirei se dicessi che non è quella di Lee l’ascia a cui va la mia simpatia più sincera e genuina. Il suo interregno viene definito il “periodo intermedio”, come fosse un mero passaggio tra il prima (di Rhoads) e il dopo (di Wylde); la fase più light e glam oriented del sound di Ozzy viene etichettata praticamente in automatico come quella con minor qualità, Dio solo sa il perché (anzi, forse converrebbe chiedere direttamente Aleister Crowley…).
IV – Lee-cenziato
“Shot In The Dark”, primo singolo, vola in testa alle classifiche USA, anche il videoclip della title-track viene accolto molto bene, flirtando con sarcasmo con il mondo dei telepredicatori, un’autentica piaga americana negli anni ’80; tuttavia il disco non riceve lo stesso plauso dei precedenti, se parliamo di critica. Ad Ozzy viene imputata un eccessivo alleggerimento ed involgarimento (per non dire instupidimento), il che di contro lo mantiene abbastanza in vetta alle chart, complice l’ottimo riscontro dell’hair metal in quegli anni in quella latitutdne del pianeta. La civiltà occidentale è prossima al declino, anzi è già iniziato e eyeliner, phard, lacca e rossetto ne sono i prodromi, i quattro cavalieri dell’apocalisse che suonano la tromba della fine dei tempi. “The Ultimate Sin” riceve il platino già nell’anno di uscita (il doppio platino arriverà nel ’94). Tre milioni le copie vendute nei soli Stati Uniti, ancora disco d’argento nel più morigerato United Kingdom (quarto ed ultimo album di Ozzy ad ottenere tale status in madrepatria). Col senno di poi, lo stesso Ozzy relega in fondo alle proprie preferenze “The Ultimate Sin”, avrebbe voluto remixarlo, sentendolo troppo inzuppato degli anni che lo hanno generato, per colpa del producer Ron Nevison. D’altra parte il giochino di Ozzy e Sharon è sempre stato trovare qualcuno a cui dare la colpa. Quando nel 2002 si è trattato di rimasterizzare e rieditare tutto il catalogo di Ozzy, “The Ultimate Sin” (quello che doveva assolutamente essere remixato) è l’unico a rimanere fuori, pare per guerriglia legale da parte di Phil Soussan. L’unica versione esistente in formato Cd rimane quella del 1995 (anch’essa rimasterizzata), alla quale però manca un pezzetto tra il primo ritornello e la seconda strofa di “Shot In The Dark” (presente invece su vinili e cassette). Il tour dell’album stavolta arruola i Metallica come supporting band… davvero un’altra epoca. Il 1986 è anche l’anno del famigerato Morte A 33 Giri, Trick Or Treat in originale, come l’omonimo album dei Fastway che infatti ne è la colonna sonora. Un horror pacchianissimo nel quale Ozzy interpreta beffardamente la parte di un reverendo intento a combattere la demoniaca musica metal (e c’è pure Gene Simmons).
All’indomani di “The Ultimate Sin” la collaborazione di Jake E. Lee e Ozzy Osbourne si interrompe. Lee è certamente molto provato dalle dipendenze tossiche di Ozzy (dentro le quali il Principe delle Tenebre è ancora mani e piedi), dai contratti capestro e dalla sbruffoneria di Sharon, nonché dalle critiche ricevute dai detrattori di Ozzy che non hanno amato l’avvicinamento ad un sound più yankee rockarolla e meno aristocratico e cerebrale. Un po’ come i Metallica con Cliff Burton, Ozzy non ha mai del tutto superato la perdita di Rhoads; nel 1987 esce “Tribute”, proprio in omaggio a Rhoads, un album contenente sue registrazioni dell’81, e Lee non può che aver sentito acuirsi la percezione di essere considerato un mero stipendiato dalla Osbourne & co., nulla di più. Sta di fatto che, dopo il tour, Sharon lo licenzia con una telefonata. Lee ha raccontato più volte come il fatto ebbe tinte a dir poco grottesche, visto che i due avevano appena cenato assieme e Sharon non aveva minimamente fatto alcun cenno ad una simile eventualità tant’è che, pur con tutti i malumori su menzionati, Lee si sentiva pienamente integrato e coinvolto nel team Osbourne. E infatti…
V – Polvere Di Stelle
Nell’88 Ozzy appare in The Decline Of Western Civilization Part II: The Metal Years al motto di “la sobrietà fa schifo“. Fuori Jake E. Lee, dentro Zakk Wylde. Il chitarrista del New Jersey entra abbastanza in sintonia con Ozzy poiché proprio Rhoads costituisce una delle sue principali influenze quando imbraccia la chitarra, naturale che a Ozzy brillino gli occhi e risuonino le campane nelle orecchie. Nuovamente sembra anche instaurarsi un reciproco rapporto di forte stima e amicizia, come con Rhoads; Lee pare l’unico che non ha legato, o comunque che non è andato oltre un vincolo di stampo esclusivamente professionale con Ozzy (e la moglie). Tuttavia l’amicizia di Ozzy è sempre da prendere con le pinze perché pure Wylde dopo “Black Rain”, nel 2007, viene congedato senza tanti convenevoli. Il chitarrista dura cinque album, per un totale di quasi 20 anni, certamente il più longevo tra quelli che hanno accompagnato il Mad Man, ma al momento di scrivere nuovo materiale nel 2009 Ozzy dichiara a mezzo stampa che non vuole che il suo prossimo disco suoni come uno dei Black Label Society (e magari se ne poteva accorgere pure un po’ prima, visto che Wylde non ha mai fatto granché per nascondere la sua impronta). Il successore prescelto è Gus G. dei Firewind, con il quale viene inciso “Scream”, ultimo album (sin qui) ad avere un unico guitar hero protagonista. “Ordinary Man” (2020) e “Patient Number 9” (2022) si caratterizzano per avere una pletora sterminata di special guests, tra cui anche svariati chitarristi; l’ultimo album in particolare torna ad ospitare Wylde (che ha sempre mantenuto un profilo umile e riconoscente verso Ozzy, digerendo l’indigeribile e rispondendo come un soldato ad ogni chiamata), e vede persino la partecipazione tra gli altri di Tony Iommi, Jeff Beck e Eric Clapton.
Subito dopo l’abbandono di Ozzy, Lee fonda i Badlands con Ray Gillen (la voce del progetto Phenomena, 1987). Con loro due ci sono il batterista Eric Singer e il bassista Greg Chaisson. I Badlands sono ossigeno per Lee, finalmente padrone di se stesso e della sua musica, libero dall’oppressione di un ingombrante marchio “industriale” oltre che musicale come quello di Ozzy. Dopo un primo omonimo album (1989), arriva “Voodoo Highway” nel 1991 ed infine molto più in là “Dusk”, raccolta di versioni demo risalenti al biennio ’92/’93. A seguire Lee graviterà dentro e attorno diverse band, senza per la verità concretizzare nient’altro di così importante come è stato il periodo con Ozzy. Nel 1996 pubblicherà il suo primo lavoro solista “A Fine Pink Mist” (per il quale spese parole di elogio l’alieno delle sei corde Joe Satriani), a cui faranno seguito due album sostanzialmente di cover reinterpretate, “Retraced” nel 2005 e “Runnin’ With The Devil” nel 2008; quindi la partecipazione come guest su parecchi album altrui e su “Dissonance” degli Enuff Z’Nuff nel 2009. Infine la sua nuova e più recente (super) band, i Red Dragon Cartel, che sin qui ha registrato due lavori, l’omonimo esordio del 2014 e “Patina” nel 2018, coinvolgendo molti musicisti e tornando ad inzuppare il biscotto nel blues rock hardizzato di “vecchia scuola”, dopo che Lee ha esplorato parecchi stili e territori musicali con i suoi precedenti lavori, soprattutto solisti, all’insegna di una versatilità e di una curiosità non comuni.
Discografia Relativa
- 1980 – Blizzard Of Ozz
- 1981 – Diary Of A Madman
- 1982 – Speak Of The Devil (live)
- 1983 – Bark At The Moon
- 1986 – The Ultimate Sin
- 1987 – Tribute (live)
- 1988 – No Rest For The Wicked