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Quiet Riot 1983 – 1987

LOSERS TAKE ALL

Sin dall’inizio con The Elder’s Orient mi è stata chiara una cosa: le pagine di questo blog sono lo strumento per rendere omaggio alle band che ho sempre ascoltato, seguito, ammirato. Non essendo un professionista, un critico musicale, non avendo alcuna seria velleità di squadernare e sezionare il “music biz”, per me scrivere di musica significa sostanzialmente avere l’opportunità di dare spazio ai miei grandi amori, non con miopia acritica, ma certamente colmo di affetto e gratitudine. Questi sono gli articoli che io stesso vorrei leggere, magari sognando ad occhi aperti mentre la musica dei miei eroi personali riecheggia in loop nella mia testa. E l’Olimpo dei migliori non si potrebbe definire tale senza i Quiet Riot, immortalati nel lustro più importante della loro (altalenante e disgraziata) carriera.

Contenuti:

1. “Abbiamo il miglior chitarrista della storia, niente ci potrà fermare!” (1973 – 1980)
2. La profferta di Proffer (1981 – 1983)
3. Condition Terminal (1984 – 1985)
4. La seconda morte dei Quiet Riot (1986 – 1987) 

1 – “Abbiamo il miglior chitarrista della storia, niente ci potrà fermare!”

Nel 1973 Randy Rhoads e Kelly Garni uniscono le forze a Los Angeles in una band comune. Dapprima si tratta dei Mach 1, poi diventano i Little Women. Il batterista Drew Forsyth, che aveva già suonato con entrambi nei Mildred Pierce, viene chiamato nuovamente dietro le pelli. Manca il vocalist. Tra i tanti, viene provinato anche un fotografo di nome Kevin DuBrow, a pelle rimane abbastanza antipatico a tutti e Rhoads in particolare è poco convinto, avendo in mente un profilo decisamente diverso, qualcosa alla Alice Cooper o David Bowie, appariscente, glamorous, anche eccessivo magari ma di classe. DuBrow pare più uno scaricatore di porto che si dà una rassettata alla bene e meglio, è sovraeccitato e fa venire l’orticaria più che emanare magnetismo animale. Anzi, è proprio un animale. Il suo temperamento però va di pari passo con l’indisponibilità ad accettare un no come risposta – la qualità dei grandi – è invadente e la sua tenacia fa il paio col fatto che la band non ha granché di meglio per le mani. In breve, DuBrow si assume da solo e diventa il cantante che i tre stavano cercando (senza saperlo). C’è il suo zampino anche nella scelta del nome definitivo, o almeno così si narra. Forse fu lui a suggerire (nel ’75) ci considerare quanto affermato da Rick Parfitt degli Status Quo, ovvero che “Quite Right” sarebbe suonato bene come nome. Lo storpiarono in Quiet Riot trovando la quadratura del cerchio. Gli avversari numero uno on stage erano i Van Halen. Lo scontro era tra i due assi della chitarra, Eddy e Randy, si era sparsa la voce di tutto quel talento e la gente accorreva per assistere alle loro performance. Per non parlare del circo messo in piedi rispettivamente da David Lee Roth e Kevin DuBrow, due frontmen per certi versi anche abbastanza affini. I club di Los Angeles venivano incendiati ora dai Queit Riot ora dai Van Halen, e nessuna delle due band sembrava riuscire a prevalere sull’altra, anche quando entrambe firmarono un contratto con una major, la WB i Van Halen, la Sony i Quiet Riot. Ma mentre il debutto dei Van Halen veniva immantinente certificato disco d’oro, i primi due album dei Quiet Riot venivano pubblicati solo in Giappone. Il destino, a suo modo, stava dando delle indicazioni sull’orizzonte delle rispettive carriere.

Durante la registrazione del secondo Quiet Riot i rapporti tra Garni e DuBrow peggiorarono ulteriormente, tanto che il bassista, completamente ubriaco dopo una notte brava comprensiva di rapina ad un bar, cerca disperatamente di convincere Rhoads a buttare fuori il buzzurro DuBrow. I due vengono alle mani e Garni esplode pure un colpo di arma da fuoco. Aveva raggiunto il suo (alcolico) punto di rottura e si mette in macchina pianificando di andare ad uccidere con le proprie mani DuBrow mentre questi stava registrando in studio le sue parti vocali per l’album. Strada facendo la polizia fa accostare Garni e lo arresta per guida in stato di ebbrezza. Garni rimanda il piano pensando semplicemente di dover aspettare essere tornato libero per finire ciò che aveva cominciato. In realtà, l’effetto concreto di quanto accaduto è che Garni perde il posto nei Quiet Riot ed evidentemente – smaltito il liquore e tornato sobrio – se ne fa una qualche ragione. DuBrow è vivo grazie al dipartimento di polizia di Los Angeles, un bel paradosso per un brutto ceffo come lui. La beffa ulteriore è che sulla copertina di “QR II” viene accreditato e ritratto Rudy Sarzo, ma il basso è suonato proprio da Garni che il suo lavoro in fondo l’aveva fatto. Stanco del clima all’interno della formazione (dovuto perlopiù a DuBrow, parafulmine di ogni negatività) e sicuramente insoddisfatto del riscontro commerciale (non) ricevuto dai due album dei Quiet Riot, Rhoads vuole a tutti i costi un contratto per la distribuzione in America e quel contratto non arriva. Arriva invece l’offerta di unirsi al team di Ozzy e Sharon Osbourne dopo la fiammeggiante audizione di Rhoads che tanto ha impressionato i suoi futuri datori di lavoro. Il trasloco di band coinvolge anche Rudy Sarzo, che segue Rhoads dagli Osbourne e – last but not least – Rhoads porta in dote ad Ozzy i suoi migliori riff che avrebbero dovuto costituire il prossimo lavoro dei Quiet Riot ed invece diventano una solida base su cui lavorare per l’esordio solista dell’ex frontman dei Black Sabbath. I Queit Riot sono fermi al palo, morti apparenti in coma vegetativo.

 

II – la profferta di Proffer

DuBrow in realtà lavora sotto traccia ed assembla una nuova line-up composta da Frankie Banali, Chuck Wright e Carlos Cavazo. Contatta anche Rhoads chiedendo se il chitarrista abbia qualche obiezione sull’opportunità di mantenere il monicker Quiet Riot, Rhoads generosamente acconsente (idem Sarzo, che però conta come il due di picche). Poche settimane dopo – il 19 marzo 1982 – un aereo si porta giù Randy Rhoads, strappandolo alla musica ed a tutti coloro che lo amavano. Il contraccolpo arriva pure in casa Quiet Riot. Sarà una canzone, “Thunderbird”, ad elaborare il lutto ed a rendere omaggio a Randy. Era già stata perlopiù scritta quando Rhoads era ancora in vita ma DuBrow aggiunge l’ultimo verso pensando specificatamente al compagno e consacra per sempre il pezzo a Randy. Sarzo viene invitato a partecipare e lo fa. L’entusiasmo, il calore, la gioia di registrare quel pezzo fa ripensare alla band di proseguire. Di nuovo ci si pone il problema sull’eventualità di farlo sotto le insegne dei Quiet Riot. Mentre il gruppo si esibisce come DuBrow sui palchi losangelini, il produttore Spencer Proffer si sta scervellando su come farsi notare dalla CBS procurandole una band su cui investire (e conseguentemente rimpinguando il proprio conto in banca). In macchina da qualche parte sulla highway alla radio sente “Cum On Feel the Noize” degli Slade (1973) e trasecola. Se fosse riuscito a convincere una rock band di quelle anthemiche a riregistrare il pezzo avrebbe avuto l’uovo di Colombo per le mani. Quella band diventano i DuBrow che Proffer vede suonare dal vivo. Parla subito con Kevin e gli propone il patto di registrare quattro canzoni a sue spese, presso i suoi studi. Una delle quattro sarà “Cum In Feel The Noize”. DuBrow accetta senza accettare, non vuole fare una cover, lui è un songwriter di razza e sprecare uno slot per una vecchia canzone degli Slade intacca il suo orgoglio (i Kiss, nel tentativo di emularla, si erano inventati “Rock and Roll All Nite” nel ’75, per dire). Insieme a Frankie Banali studia scientemente come sabotare quel pezzo, non la proveranno mai fino al giorno dell’incisione e quindi quella sarà la prima (e unica) performance di “Cum On Feel The Noize”. Farà così schifo che Proffer lascerà perdere e si concentrerà sugli altri tre pezzi. Beh… il risultato è sui libri di storia.

I Quiet Riot diventano la prima metal band in assoluto a piazzare un singolo (quel singolo) nella Billboard Hot 100, addirittura al 5° posto, e “Metal Health” – trainato da “Cum ON Feel The Noize” – scalzerà “Synchronicity” dei Police dal vertice delle classifica degli album, un fatto di portata storica (certificato platino per 6 volte nei soli States). Tornando un passo indietro, Proffer va alla CBS con il demo di quattro tracce, sorprendentemente la CBS si rivela freddina, quello dei DuBrow è bollato come dinosaur rock, ma Proffer ha una buona parlantina dalla sua e alla fine, sebbene obtorto collo, convince i colletti bianchi. La CBS sgancia i soldi per finire l’album a patto che la band cambi nome. La madre di Randy Rhoads, Dolores, supporta DuBrow perché i Quiet Riot di suo figlio continuino ad esistere e ad incarnarne lo spirito primigenio. Nel marzo dell’83 “Metal Health” arriva nei negozi. Il primo singolo è la title-track ma fa fatica ad ottenere un buon air playing; come spesso succede ai Quiet Riot, tutto cambia di colpo, nel giro di pochi giorni se non addirittura di poche ore. Proffer riesce a piazzare la programmazione del pezzo in qualche radio e in qualche mega market; “Metal Health” arriva così all’orecchio di MTV che però esige un videoclip per metterla in rotazione, e quando lo ottiene lo piazza alle 03:00 del mattino, venendo immediatamente bombardata di richieste. L’uscita di “Cum On Feel The Noize” come secondo singolo fa definitivamente esplodere il nome dei Quiet Riot sulla bocca di tutti. Per tutta la sua vita DuBrow ha sempre sostenuto di non aver amato quella canzone ma di esserle stato riconoscente per ciò che aveva portato ai Quiet Riot. “Metal Health” viene ovviamente dedicato alla memoria di Randy. Come accade per eventi spartiacque che segnano un prima e dopo nel corso della storia e si ergono al di sopra del resto guadagnando convenzionalmente un’etichetta simbolica (la scoperta dell’America nel 1492 che segna l’inizio dell’era Moderna, o il Congresso di Vienna nel 1815 che segna l’inizio di quella Contemporanea), “Metal Health” segna l’inizio dell’era del cosiddetto Hair Metal, vende oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo e regala un tour (americano) di supporto ai Black Sabbath di “Born Again”. I Queit Riot salgono sul tetto del mondo e realizzano il sogno di ogni adolescente che imbraccia per la prima volta una racchetta da tennis come una chitarra davanti allo specchio. Quando sali sulla vetta puoi rimirare lo splendido panorama…. poi, a una certa, devi pur scendere.

III – Condition Terminal

Il 7 luglio del 1984 esce “Condition Critical”, pensato, sofferto, concepito, scritto per essere un altro “Metal Health”. In tutti i modi, con tutte le forze, i neuroni, i pori della pelle, “Condition Critical” doveva far provare alla gente la sensazione di stare ascoltando il secondo tempo di quel fantastico disco comprato l’anno prima. Copertina quasi identica, Proffer sempre in sella, cover degli Slade nuova di pacca (“Mama Weer All Crazee Now”), rock anthems a profusione (“Party All Night”, “Stomp Your Hands, Clap Your Feet”, “Scream And Shout”, “We Were Born To Rock”), stesso identico approccio di “Metal Health” ai livelli del mega-direttore-clamoroso-duca-conte-Pier-Carlo-Ing.-Semenzara quando va a giocare al Casinò municipale di Saint-Vincent, tutto deve essere uguale, allo stesso posto del 1983, anche la mano sotto il sedere dell’ingegnere del suono. Risultato, un (solo) milione di copie vendute, tante… ma pochissime rispetto a “Metal Health”, e appena un 15° posto nella chart. Il Rolling Stone recensisce crudelmente: “Condition Critical: Condition Terminal“. DuBrow dà di matto, insulta i giornalisti (paragona il magazine Hit Parader alla carta igienica), accusa le band losangeline di grandi debiti (morali) nei confronti dei Quiet Riot (che paragona ai Beatles) e manca poco chiama in causa pure Gesù Cristo sulla croce. La band è in imbarazzo per quei continui sfoghi che ottengono il maldestro risultato di far schierare compatto un nutrito esercito di addetti ai lavori, musicisti e fan contro i Quiet Riot.

E’ vero “Condition Critical” non è un disco spontaneo, nasce con un proposito preciso, che ho appena menzionato. Non può vantare in scaletta un manifesto “culturale” epocale come “Bang Your Head” (una canzone stratosferica che in 5 minuti e 17 secondi ha codificato un genere, uno stato d’animo, gli ha dato cornice e cittadinanza). Ed è vero anche che si tratta di un disco inferiore al suo platinato predecessore, ma non così drammaticamente inferiore, a mio parere. Contiene due perle assolute che sono la title-track e “Stomp Your Hands, Clap Your Feet”, trasferibili in qualsiasi scaletta di un grande album senza minimamente sfigurare; ha dei momenti assolutamente discreti come “Sign Of The Times”, “Scream And Shout”, “(We Were) Born To Rock”; dignitosi come “Bad Boy”; modesti come “Red Alert”; sconta la scelta del singolo sbagliato, con tanto di videoclip (“Party All Night”); sbatte il muso sulla seconda cover consecutiva dello stesso gruppo; così come con “Winners Take All” prova a rinverdire le atmosfere di “Thunderbird” (ma quella canzone aveva una scintilla speciale, un valore aggiunto). E troppo facile criticare “Condition Critical”, troppo facile metterlo a paragone con “Metal Health” e coglierne in controluce tutti i segni meno. La vera anima dei Quiet Riot forse emerge molto più in questo disco che in quello, DuBrow e soci sono sempre stati degli eccellenti perdenti, adorabili, amabili, ma perdenti.

Del resto la storia complessiva della band conta un tentato omicidio, tre morti (incidente aereo, overdose, cancro), un suicidio, una rapina, la rivalità con una delle più grandi rock band di sempre (i Van Halen), scazzottate da ubriachi, scazzottate da sobri, arresti e detenzione, riff portati in dote ad Ozzy Osbourne che li usa su “Blizzard Of Ozz”, denunce di fan picchiati ai concerti (dalla band), ripetuti fallimenti commerciali, ripetuti dischi sbagliatissimi, ripetuti cambi di line-up, dichiarazioni di fine carriera, reunion post dichiarazioni di fine carriera, dichiarazioni irremovibili di fine carriera, reunion post dichiarazioni irremovibili di fine carriera, liste d’attesa per operazioni al cervello, licenziamento via internet di membro in attesa di operarsi al cervello, assunzione di un cantante di un talent televisivo, cantante del talent che si licenzia dicendo che facevano dischi “usa e getta” (cioè… è andato via lui dai Quiet Riot, non lo hanno cacciato loro), band che nonostante tutto prosegue in versione tribute band di se stessa; non c’è davvero nient’altro come i Quiet Riot nel grande libro mastro del Rock. Una band così si specchia in “Condition Critical”, e a latere “Metal Health” diventa il colpo fortunato in mezzo a mille sportellate prese dalla vita. Ho un debole particolare per questo disco, non ho alcun problema ad ammettere che non sia il loro migliore ma c’è stato troppo accanimento e – senza assumermi alcuna velleità di giornalista/critico musicale razionale ed obbiettivo – sentivo di dover spendere una parola a suo sostegno.

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IV – La seconda morte dei quiet riot

La prima defezione post “Condition Critical” è quella di Rudy Sarzo, rimpiazzato da Chuck Wright, al quale si affianca anche un tastierista, John Purdell. DuBrow sempre più dittatore solo al comando si gioca la carta estrema della rincorsa sfacciata al trend, prova ad accalappiare qualche potenziale fan curioso di sentire il sound di band come Europe, Bon Jovi, Def Leppard applicato ad un album dei Quiet Riot. Suggestioni AOR laccate, tastierone, ritornelli ariosi, una pomposità meno rozza e più pacchiana, angoli smussati ed ecco “QR III” nel luglio del 1986. Dalla 15° posizione in classifica si scivola addirittura alla 31° e il volume di vendite si affloscia ulteriormente. Proffer e la CBS rimangono attaccati ai Quiet Riot, succederà anche dopo questo album (che vedrà i Quiet Riot uscire definitivamente dal perimetro delle grandi band, non raggiungendo più nemmeno posti utili nelle chart). La scaletta si apre alla grande, con uno dei più bei marchi dei Quiet Riot, “Main Attraction”, seguito dal singolo “The Wild And The Young”, per il quale viene realizzato un videoclip fantascientifico-distopico degno dei post atomici del nostro cinema di genere degli anni ’80 di Martino, Fulci, Castellari e D’Amato. “The Wild And The Young” comunque è uno dei migliori pezzi di sempre della band, un inno clamoroso, epico e sborone come solo ai Quiet Riot sarebbe potuto venir fuori. Lo dico subito, dopo questi 8 minuti l’album ha già dato il meglio di sé; il che non significa affatto che ciò che viene dopo sia da buttare, anzi, alterna alti (perlopiù confinati nella seconda metà della scaletta) e bassi, ma merita in ogni caso attenzione. Tuttavia non tutti i 42 minuti di “QR III” sono al livello dei primi 8, altrimenti saremmo stati davanti al “Master Of Puppets” dell’hard rock ottantiano.

L’operazione concepita da DuBrow non riesce, “QR III” è un fallimento commerciale, le quotazioni della band non riprendono ossigeno. La frustrazione generale fa scatutire quella che sembra l’unica soluzione possibile (anche un po’ vendicativa), il licenziamento di DuBrow (con grande entusiasmo da parte del management e della CBS), il quale si porta dietro la colpa atavica di aver messo a ferro e fuoco il music business all’indomani di “Condition Critical”, incidendo pesantemente sulla reputazione dei Quiet Riot, o almeno così valutano la situazione i suoi compagni. Al suo posto arriva Paul Shortino dai Rough Cutt, creando la curiosa situazione di non avere più alcun membro originale in formazione. I Quiet Riot di fatto sono già finiti qui, nel 1987. Se ne va pure Chuck Wright, sostituito da Sean McNabb. Il nuovo album si chiama “Queit Riot”, come il primo del 1978, ma in realtà è il quinto in ordine cronologico, e però arrivando dopo “QR III” (che sarebbe il quarto), ma viene anche definito “QR IV”. Una gran confusione! Cavazo e Banali sono gli unici sopravvissuti di ciò che c’era prima e da qui ha avvio un altro capitolo della storia dei Quiet Riot, che vedrà persino il reintegro in formazione di Kevin DuBrow per altri quattro titoli più un live album tra il 1993 ed il 2006, senza mai riuscire a rivivere nemmeno in minima quota percentuale i fasti di “Bang Your Head” e di quel periodo irripetibile per i Quiet Riot e per il rock.

Discografia Relativa

  • 1983 – Metal Health
  • 1984 – Condition Critical
  • 1986 – QR III

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