Nelle tormentate tombe di Svezia a metà anni ’90 c’era molta irrequietezza, un periodo dimenticato o addirittura misconosciuto che invece portò novità e sperimentazione, come al solito poi accantonate in favore di un più rassicurante (e proficuo) “ritorno alle origini”.
Contenuti:
1. Dei Sepolcri (1990 – 1993)
2. To ride, shoot straight and speak the Grave! (‘994 – 2002)
3. Alle origini delle origini (‘2004 – 2024)
1 – Dei Sepolcri
Spesso scrivo articoli riepilogativi delle carriere di qualche band che trovo interessante, a cui sono particolarmente legato o semplicemente che apprezzo. Approfondisco e squaderno, mi soffermo su qualche punto, un momento saliente, una parentesi, un determinato lasso temporale che secondo me merita di essere raccontato e messo in evidenza. In questo caso mi preme molto accendere una luce sui Grave di metà anni ’90, esattamente la metà, quel triennio che va dal 1994 al 1996, tutto fuorché un periodo facile per chi suonava heavy metal, figuriamoci death metal. Non che il genere fosse in stagnazione, anzi tante band cercavano di proporre la propria musica, anche andando a cercare e sperimentare soluzioni diverse dal passato, inevitabilmente influenzate dai grandi cambiamenti all’interno del panorama borchiato e oltre. La scena svedese, il cosiddetto swedish death metal, è già in fermento alla fine degli ’80 grazie ai vari Morbid e Nihilist, ma è con l’uscita del debut degli Entombed (cioè i Nihilist) – “Left Hand Path” – che si può convenzionalmente battezzare la nascita del movimento, perlomeno discograficamente parlando. Da quel momento in poi di band con la chitarra a zanzara in friggitoria ne arrivano parecchie dalle varie città e province della Svezia, Carnage, Dismember, Unleashed, Grave, i Tiamat di “Sumerian Cry”, i primissimi Dissection, solo per citare le più quotate
I primi due capitoli discografici degli Entombed rimangono probabilmente ineguagliati per bellezza ed importanza capitale, ognuno ha i suoi gusti e ci sarà sicuramente chi preferirà altri titoli di altre band, magari per poche incollature di distanza, ma fatto sta che credo sia giusto dare a Cesare quel che è di Cesare. Sempre a mio parere s’intende, segue un’altra doppietta, quella dei Grave di Visby. “Into The Grave” e “You’ll Never See…” valgono il prezzo del biglietto, sono certamente due album “derivativi” se si vuole attribuire perlopiù agli Entombed tutta la paternità dello swedish sound, ma nel loro riproporre quelle sonorità compiono un lavoro egregio attraverso due album che sono eccellenti e offrono alcune soluzioni davvero interessanti, come ad esempio il peculiare uso delle tastiere in diversi brani. Non credo occorra soffermarmi troppo a tesserne le lodi, quali che siano le vostre preferenze mi pare indubbio che si tratti di due album fondamentali e necessari nella discografia di qualunque amante del death, dentro e fuori dai confini svedesi.
Intanto però siamo abbondantemente entrati nella decade dei ’90 ed i cambiamenti perforano le armature delle band come proiettili d’acciaio. I Grave in via interlocutoria nel 1993 pubblicano l’EP “…And Here I Die… Satisfied”, che con i suoi puntini di sospensione sembra una risposta a “You’ll Never See…” pure quello lasciato in sospeso dai puntini. Si tratta di una riproposizione di vari brani, compresi tre che risalivano addirittura all’epoca Corpse, quella pre Grave. Il nuovo studio album si rivela essere “Soulless” nel 1994, cosa è successo nel frattempo? Beh, non solo i Metallica hanno pubblicato il famigerato black album, cosa che in fin dei conti ai Grave poteva tangere relativamente, un po’ come quando alla tv annunciano un disastro naturale che si è verificato dalla parte opposta del pianeta, ok dispiace ma siamo fuori pericolo. Il punto è che nel 1993 gli Entombed si inventano “Wolverine Blues” ed anche il mondo dello swedish death metal non sarà più lo stesso. Tanto “Soulless” quanto “Hating Life” due anni dopo sono figli diretti di Wolverine. In questo senso i Grave stanno un po’ agli Entombed come gli Xentrix stavano ai Metallica, con una sostanziale differenza però, che alla lunga gli Xentrix sono diventati preferibili ai loro padri putativi, infognati in dischi orrendi uno dietro l’altro, e a dirla tutta persino il black album degli Xentrix (“Kin”) mi è sempre piaciuto di più di quello originale americano.
I Grave non arrivano a superare gli Entombed ma comunque pubblicano due lavori che purtroppo critica e pubblica non hanno mai dimostrato di amare granché. Con gli Entombed andò diversamente, le vedove di “Left Hand Path” e “Clandestine” furono numerose e veementi, ma ciò nonostante in qualche modo il corso 2.0 degli Entombed trovò dei sostenitori, anche grazie al valore concreto degli album successivi. Intendiamoci, a me “Wolverine Blues” non ha mai fatto impazzire, ho sempre avuto un rapporto di amore-odio con quel disco e l’ho già raccontato nell’articolo sugli Entombed di “To Ride, Shoot Straight And Speak The Truth” (che addirittura gli preferisco), tuttavia riconosco che non si può parlare di un lavoro maldestro o di scarso valore, tutt’altro, bensì di un capitolo che semplicemente sgombrò il campo (e per sempre) dai vecchi Entombed per offrire una visione nuova della band. In questo seguendo lo stesso excursus dei Metallica.

II – To Ride, Shoot Straight And Speak The Grave!
Accade qualcosa di molto simile anche in casa Grave. Jonas Torndal se n’è andato tra “Into The Grave” e “You’ll Never See”, per il resto il terzetto Lindgren, Sandström, Paulsson sembra rimanere solido, coadiuvato al solito dal produttore Tomas Skogsberg, da sempre in sala prove con la band, nonché artefice del sound di Entombed, Carnage e Dismember. Cosa cambia concretamente? Che anche per i Grave la stretta aderenza al death viene contaminata dalla contemporaneità. C’è meno asfissia nel sound, meno riff a spirale, meno tenebrosità; spunta un po’ di groove, il sound si fa più scarno, sempre veemente ma in maniera diversa, con un taglio quasi più acido e hardcore, sempre massiccio ma meno rotondo e più spigoloso. E’ tutto assai più diretto, essenziale, conciso, c’è del malessere ma non è dato da diavoli, tombe e retaggi lovecraftiani, bensì da una società del tutto insoddisfacente, avvelenata di tossine e disumanità. L’odio prende il posto dell’orrore. “Soulless” e “Hating Life” sono due album compatti, ascoltabili in sequenza come fossero il primo ed il secondo tempo di un film intitolato “Out of the Grave: i Grave di metà anni ’90 “, anche se contestualmente va messa agli atti la perdita di Sandström nel passaggio tra i due, segno che qualche discussione in seno alla band presumibilmente sulla direzione da intraprendere ci deve essere stata. Ridottisi ad un duo i Grave compattano e il timone rimane saldamente nelle mani soprattutto di Lindgren.
Non si capisce bene a chi possano essere rivolti questi due dischi perché i Grave perdono mordente sul proprio pubblico e più in generale su quello metal largamente inteso. Ciò che viene in parte condonato agli Entombed a loro non viene abbuonato, i Grave sono andati nei campi a cogliere le cipolle e si sono persi da qualche parte all’orizzonte. Tempi più lenti, atmosfere sempre cupe ma cariche di frustrazione, sperimentazione (basti vedere la foto psichedelica della band di “Hating Life”, echeggiante le pose di altri “estremisti” sui generis come Disharmonic Orchestra e Afflicted, ex Afflicted Consulsion). Una contaminazione che mescola uno slancio più rock ‘n’ roll a sentori industrial, e tuttavia sarebbe ingiusto dire che c’è una frattura netta tra i primi Grave e questi, poiché le track-list di “Soulless” e “Hating Life” sono all’insegna di uno sviluppo coerente (e per me convincente) del Grave sound, oltre a mantenere anche una coerenza interna tra di loro. Interessante come in “Hating Life” in particolare si ritrovino alcune reminiscenze di “Blut” (1994) degli Atrocity e come la somiglianza con “Willenskraft”, uscito lo stesso anno, sia ancora più accentuata, segno che le band stavano individualmente compiendo un percorso davvero parallelo. Per entrambe in sede di recensione venne evocato lo spettro dei Pantera, soprattutto a causa dei riff carichi, grassi, stoppati e boriosi. “Hating Life” venne accolto ancora peggio di “Soulless” (ritenuto paradigmaticamente un disco “senz’anima”), perché se sul primo ancora si nutrivano speranze che si potesse trattare di una fase momentanea, “Hating Life” giunse a confermare lo stato dell’arte, anzi spingendo ancora più in là (ovvero lontano dal death metal) la voglia di sperimentare dei Grave.
Non a caso passano sei lunghissimi anni prima che la band si riaffacci sul mercato discografico. A sorpresa rientrano Torndal e Sandström, c’è anche il fidato Skogsberg in consolle, ma pure un quarto membro, Fredrik Isaksson al basso, già con Therion e Excruciate. Come si chiama il nuovo album? “Back From The Grave”. Non occorre aggiungere altro, vostro Onore. Il disegno è da subito chiaro, i sofferti ’90 sono finiti, si sono chiusi, già tra la fine di quella decade e l’immediato inizio dei 2000 il metal più tradizionale pare risollevare la testa e tornare a respirare ossigeno senza bombole di supporto. Le band hanno fatto esperienza, sperimentato e metabolizzato errori e orrori, sempre che tali li si voglia identificare. C’è un bisogno epidermico di tornare alle origini ma forti della maturazione intrapresa in anni complicati. Gli Entombed con “Uprising” e “Morning Star” non hanno affatto rinnegato il loro death ‘n’ roll ma hanno smesso di inventarsi cose troppo astruse, “Same Difference” era un album che aveva gettato nello sconforto un po’ tutti (benché a mio parere abbia i suoi momenti). Dunque era in corso un processo di riavvicinamento e riappacificazione con i vecchi fans. I Grave stavolta doppiano gli Entombed e fanno un passo che supera, “Back From The Grave” più che farli tornare dalla tomba li fa tornare nella tomba, esattamente da dove erano venuti. Il loro quinto titolo diventa la cosa più prossima ai Grave 1991-’92. Il lavoro svolto da Lindgren e compagni è filologico, calligrafico, viene ricreata la scena del crimine in maniera che ognuno possa sentirsi a casa, in famiglia, corroborato dal calore di una nostalgica “comfort zone” abbandonata proprio malgrado.
III – Alle Origini Delle Origini
“Back From The Grave” non è affatto un brutto album, anzi è piacevole. Una volta condonata la totale mancanza di novità a favore della determinata e cocciuta volontà di ricreare una fotografia vecchia di un decennio, ci si può serenamente lasciar andare alla messe di riff e filo spinato tessuti dalla band, decisamente in palla ed entusiasta di ripresentarsi al proprio pubblico con il vestitino della prima comunione. Manco a dirlo, l’album viene salutato urbi et orbi come la rinascita dei Grave, il ritorno, un nuovo inizio, “Soulless” e “Hating Life” vengono rapidamente e volentieri consegnati agli archivi, chiusi a chiave in un cassetto e se possibile dimenticati come una sorta di errore giovanile da non ripetersi. Cosa succede dopo “Back From The Grave”? Che gli svedesi iniziano a girare in tondo. Album dopo album la band sta molto attenta a non deragliare dal binario dell’ortodossia, concedendosi solo qualche capriccio qua e là, ma sempre accettabile, vedasi un album come “As Raptures Comes” dove i Grave a tratti sembrano i Morbid Angel. E’ lì che ho smesso di comprare i Grave e da quel momento mi sono limitato ad ascoltare online ogni nuova uscita prima di aprire il portafoglio.
Tendenzialmente il pubblico ha premiato il ritorno alle origini cimiteriali della band, gli album dei 2000 sono stati molto più elogiati di quelli di metà anni ’90, che tuttavia io continuo a preferire a questa bulimia di canzoni spesso molto simili tra loro e inchiodate alla paura di deludere qualcuno (e quindi di non vendere cd, magliette e biglietti dei concerti). Senza la minima esitazione direi che “Soulless” e “Hating Life”, pur con tutti i loro difetti e le loro incertezze, rimangono due dischi più sinceri e genuini di quanto partorito dopo da Lindgren e della sua congrega di becchini. Ammetto per stanchezza di aver perso un po’ di vista i Grave più recenti, quelli di “Out Of Respect For The Dead”, pure quello oramai vecchio di dieci anni. Già da “Fiendish Regression” (2004) sparisce di nuovo Sandström, Torndal resiste un altro album (“As Rapture Comes”), Isaksson arriva fino a “Burial Ground” poi getta il basso pure lui. Da “Endless Procession Of Souls” in poi Lindgren si circonda di stipendiati che mettano in pratica il suo spartito, e così facendo per ora ha pubblicato due album ma, come detto, la band manca perlomeno in studio già da un decennio. Nel 2024 arriva l’annuncio del primo show della ricompostasi formazione originale, seguirà anche un futuro nuovo album di ennesimo ritorno alle origini? A i posteri l’ardua sentenza.
