Non amo molto scrivere su singoli album, è come guardare una fotografia che ti ritrae quel giorno di quell’anno a quella precisa ora, un momento dopo eri altrove, un momento prima avevi tutt’altra espressione e stavi pensando a qualcosa che ti ha attraversato fugacemente la testa e poi al momento della foto manco c’era più. Quello scatto ti cristallizza in uno slot spaziotemporale che diventa paradossalmente un fake, perché poi non si ripeterà mai più identico nei secoli dei secoli. Mi direte, ma in fondo non è la vita stessa una collezione di attimi, come direbbero i miei amati Negazione, che con il loro disporsi in sequenza creano l’illusione del movimento, del fluire, del divenire? Una lunga, infinita, estenuante sequenza di stasi che si sommano l’un l’altra. Bravi, 30 sul libretto degli esami e stretta di mano del professore di Storia della Filosofia.
Contenuti:
1. Eravamo quattro amici al Crusty Club di Newcastle (1984 – 1989)
2. La cattedra di biologia (1990)
3. Energetic > Hell > Krusher (1992 – 2015)
1 – Eravamo quattro amici al Crusty Club di Newcastle
La musica è movimento per eccellenza, è liquida, già i confini ideali di un album che contengono quei minuti trovano difficoltà ad arginare le onde, il potere della musica in fondo è proprio quello, esondare, invadere ovunque, mondi fisici e spirituali, permeando il nostro io, talvolta migliorandolo, in qualche caso deteriorandolo (quasi mai, per fortuna), o magari anche semplicemente accompagnandolo. Mi rendo conto che il concetto di “album” tradisca la prospettiva dalla quale guardo la faccenda; è evidente che io non sia di primo pelo, per molti ascoltatori odierni le canzoni non hanno formato, sono puro etere, cascate binarie verdi fosforescenti come ci ha insegnato Matrix. Ebbene, “Natural Order” degli Hellbastard è l’eccezione che conferma la (mia) regola di non puntare un unico disco sacrificando lo sguardo d’insieme su di un’intera carriera.
La deroga è dovuta a più fattori, in primis naturalmente la suggestione derivante dall’album in sé, magnifico; in secundis la sua peculiarità all’interno della discografia della band, praticamente un unicum. Se provate a scorrere cosa ma soprattutto quanto hanno pubblicato gli inglesi (di Newcastle, patria dei Venom) da metà anni ’80 ad oggi rimarrete piuttosto colpiti dalla mole di release. I full-length veri e propri sono quattro, in fondo molto pochi trattandosi di quasi 40 anni di attività (non ininterrotta), ma lo sterminio di demo, Ep, split, compilation e live è impressionante, e già di per sé tradisce un’attitudine, qualcosa a metà strada tra punk e hardcore, che poi nel caso degli Hellbastard si chiama(va) crust. “Natural Order” è un cazzotto in un occhio in mezzo a quel mare magno di pubblicazioni. Esce nel 1990 e viene bissato due anni dopo da un demo rehearsal che pare propedeutico all’album successivo, ma che invece sancisce uno iato che durerà fino al 2009, quando gli Hellbastard torneranno ad affacciarsi nel mercato discografico con “The Need To Kill”. Tra i due album ci sono 20 anni ed un solo membro a mantenere le redini di una formazione che viene completamente stravolta, anzi dissolta, Malcolm “Scruff” Lewty. Questo già di per sé rende plasticamente l’idea della differenza che si può riscontrare tra quegli e questi Hellbastard, data anche ma non solo dal fisiologico scorrere dei granelli di sabbia nella clessidra di Cronos (che non è quello di Newcastle bensì quello mitologico delle teogonie, i racconti antichi che descrivono l’origine e la natura della discendenza divina).
La biografia degli Hellbastard dice che nel 1984 “Scruff” Lewty, Phil Laidlaw e Ian “Scotty” Scott fondano la band, che nelle loro intenzioni si sarebbe dovuta posizionare tra i Crass e gli Slayer, prendendo dai primi l’impegno politico e dai secondi l’attitudine musicale, il sound. Secondo molti questo è il big bang del cosiddetto fenomeno “crust”, perlomeno all’interno dell’universo strettamente metal. Il primo demo (“Ripper Crust”) arriva nell’86, e nell’87 c’è già la cassettina “Hellbastard Live”. Pezzi come “Nazis Killed” non lasciano adito a dubbi sull’orientamento politico-culturale dei nostri. Finalmente nel 1988 gli Hellbastard esordiscono su vinile con “Heading For Internal Darkness”, 33 minuti e 33 secondi sotto l’egida di Meantime Records, etichetta inglese la cui sede dista 50 minuti da Newcastle, e della quale non si ricordano praticamente altre pubblicazioni ad eccezione di “Heading”. Le 9 tracce, comprendenti due brevi strumentali entrambe poste a chiusura delle facciate del vinile, sono ruvide, con una produzione affatto distante da quella dei connazionali Sacrilege di “Within The Prophecy” (1987), pure loro per altro sorti dal calderone del crust, affinatisi nel panorama thrash per poi addirittura sconfinare nel doom (ma potete leggerne proprio su queste pagine). L’indole degli Hellbastard targati 1988 è violentissima, in your face, hardcore e attaccabrighe. Un esordio acido e appuntito, certo non epocale. Tra questo debutto e “Natural Order” intercorrono appena 3 anni ma soprattutto un Ep e due demo; il secondo in ordine di tempo, quello del 1989, si chiama “Earache Demo” ed è ovviamente l’antipasto di ciò che sta per accadere. Negli anni in cui la Earache era l’alfa e l’omega del metal estremo, inteso come death, thrash e grind, la label di Nottingham non poteva certo farsi sfuggire questi newcomers promettenti, sebbene il loro sound, ancorché sufficientemente intriso di odio e livore, fosse da dirozzare e limare ulteriormente per fregiarsi dello standard qualitativo Earache.
II – La cattedra di biologia
“Natural Order” esce nel triplice formato cd/lp/mc e scaraventa gli Hellbastard tra i nomi del thrash che contano, perlomeno li pone sulla linea dello start come tutti gli altri, innanzitutto proprio grazie al logo della Earache stampigliato sul retro copertina, in alto a destra. L’artwork dell’album è un capolavoro, in assoluto uno dei più belli di sempre della storia del metal tout court, ne sono sempre rimasto affascinato e certamente deve aver avuto il suo ascendente nella mia decisione di acquistare l’album all’epoca, in aggiunta naturalmente all’appartenenza della band al filone thrash, nonché ai loro natali inglesi e alla filiazione Earache, che davvero all’epoca non sbagliava un colpo. Sicuramente avrò letto qualche recensione positiva ma al dunque l’esborso di circa 16/18 mila lire rimaneva ogni volta una scommessa quando si comprava un nome nuovo della scena. Fortunatamente “Natural Order” è tanto accattivante nella forma quanto meritevole nella sostanza. Quel meraviglioso humus naturalistico, quasi una immersione scientifica nel micromondo della biologia – come se eminenti scienziati naturalisti come Spallanzani, Bonnet, Fontana, Darwin, fossero seduti accanto a noi, intenti ad osservare al microscopio le nervature di una foglia – si alterna al retro copertina nel quale Lewty, Lee, Wright e Newton ci aspettano davanti all’entrata di uno dei tanti meravigliosi castelli di Britannia. Ma il fantasy non ha alcuna cittadinanza tra i solchi dell’album, i circa tre quarti d’ora di thrash metal di “Natural Order” sono all’insegna della concretezza, della realtà e del pragmatismo (e del cinismo).
L’evoluzione rispetto a “Heading” è notevole, ora gli Hellbastard, a dispetto del loro nome truce, sfoderano un suono cristallino, tecnico; il cantato di Lewty si è altrettanto ripulito, pur non perdendo minimamente in aggressività. Improvvisi assoli melodici squarciano di netto le sfuriate thrash, di sovente in tupa tupa (anche se mai caotico), alla maniera di ciò che oltreoceano accade ad esempio in “Cause Of Death” degli Obituary (stesso anno di pubblicazione) o, per rimanere sempre in Inghilterra, di ciò che faranno a breve i Carcass post “Sickness”. Non a caso il producer Colin Richardson annovera tra le centinaia di band con le quali ha lavorato (Sinister, Machine Head, Kreator, Gorefest, Napalm Death, Fudge Tunnel, Bolt Thrower, Fear Factory, etc) sia Hellbastard che Carcass. Va anche tenuto conto che la line-up è completamente cambiata, tranne Lewty; i suoi nuovi comprimari sono più in linea con il thrash d’elite e sofisticato anziché con quello da pub malfamato dei quartieracci alcolici operai d’Albione.
Lewty è autore di tutti i testi tranne “Neon Storms”. In un paio di occasioni è coadiuvato da Newton (“I Beg In Blood”, “Enslavers”) e in “There Is No God But Man (Or Woman)” è ispirato addirittura da Aleister Crowley. Spinge molto sul piano dell’individualismo e del darwinismo tanto sociale quanto naturale, una totale e fideistica adesione al canone di natura, o meglio, la Legge di Natura, secondo la quale l’uomo è libero, padrone di se stesso, dotato di intelletto e non assoggettabile a niente da nessuno. Anche a livello di songwriting, i pezzi sono praticamente tutti farina del sacco di Lewty, vero e proprio deus ex machina del progetto sin dall’inizio. Pure in questo caso si ripete la formula di “Heading”, con due brevi strumentali per parte, anche se “A Minor Point” non chiude la facciata A ma la inframezza, mentre la delicata e poetica “T.A.F.” si incarica effettivamente di congedare l’ascoltatore dagli Hellbastard a fine disco. “Interrogate Them” apre l’album come una fucilata in pieno petto e nei suoi 6 minuti e mezzo mette in fila una quantità di riff killer, di variazione di pattern ritmici e di squilli di chitarra da mettere al tappeto l’ascoltatore. Ma la vera chicca arriva intorno ai 3 minuti e 50, quando l’assalto sonoro si arresta momentaneamente, interrotto da un arpeggio che poi ci introduce ad un trip atmosferico languido e nostalgico, nel quale la chitarra crea atmosfere vagamente assimilabili a quelle sognanti generate dai Metallica nella seconda parte di “Master Of Puppets” (o in “Orion”), venti secondi magnifici squartati poi da una ripresa con un assolo di chitarra che invece rimanda più chirurgicamente ai Megadeth di “Rust In Peace”. Il pezzo infine si chiude col coltello tra i denti, in un tripudio di adrenalina e thrash fiammeggiante, riprendendo il tema su cui era stato costruito. E siamo appena all’inizio.
“Interrogate Them” è un attacco ai cristiani convinti che esista una sola via, la loro. Non ha praticamente un ritornello, non inteso in senso esplicito perlomeno. Sono pochi i pezzi che ne hanno uno nel disco, “I Beg In Blood”, “Black Force” e “There Is No Good But Man (Or Woman)”. E questa è senz’altro una particolarità dell’album. Pure i Flotsam And Jetsam di “When The Storms Comes Down” furono attaccati in modo alquanto miope per la mancanza di chorus nelle canzoni (tant’è che l’unico videoclip ufficiale tratto da quel lavoro era anche l’unico brano con un ritornello, “Suffer The Masses”). “Natural Order” gode – o soffre, a seconda dei punti di vista – di una grande compattezza, a tratti magari avvertirete un certo senso di deja-vu ma col trascorrere dei minuti noterete che la foga cresce a livello esponenziale, travolgendo ogni dubbio o incertezza. Potenza ed energia sono le armi in più degli Hellbastard, deflagranti a livello nucleare, oltre ad un doppio binario delle chitarre davvero eloquente e persuasivo, serratissime ed affilate nelle strofe, cristalline e melodiche in fase di assolo (e arpeggio). Ora magniloquenti, eleganti e financo un filo pomposi, ora cattivissimi e berserker, gli Hellbastard guardano con ammirazione a Exodus, Testament, Metallica e Slayer nel forgiare il proprio sound Earache, e più in generale il vento della Bay Area sembra decisamente spirare tra le corde delle chitarre degli Hellbastard.
Dai testi si evince chiaramente quanto i cristiani siano la nemesi di Lewty, il nemico pubblico numero uno, visti come schiavizzatori di menti, ottusi e ciechi a loro volta. Lewty proprio non li sopporta, né soffre il loro Dio. Quando non si occupa di denigrarli, passa a discettare amabilmente di serial killer e dell’avvento di moderni reich distruttori, nulla di particolarmente originale, va detto. Dovendo individuare il podio dei migliori momenti dell’album, a mio gusto segnalo “Interrogate Them”, “Enlsavers” e “There Is No God But Man (Or Woman)”, i tre highlight di un disco che comunque non commette passi falsi, non sa cosa sia un filler e non ha cali di intensità. A voler proprio trovare il pelo nell’uovo si può dire che “I Beg In Blood” attacca in maniera un po’ troppo similare a come finisce “Interrogate Them”, anche se poi evolve a modo suo – ma avete presente “Losfer Words (Big ‘Orra)” e “The Duellists”? – e “Neon Storms” si limita a ripercorrere un po’ troppo pedissequamente la strada già tracciata dal resto della scaletta senza distinguersi in modo eclatante; oltre queste critiche non possiamo andare. Eppure su Metal Archives ne troverete di feroci, legate alla mancanza di ritornelli di cui sopra o alla presenza di tracce strumentali ed interludi acustici vari che avvicinerebbero troppo la band a gentaglia come Poison e Guns N’ Roses (si avete letto bene…. questa è l’accusa, vostro onore).
III – Energetic > Hell > Krusher
Nonostante il suo valore, “Natural Order” non riesce a generare un particolare hype nel coevo panorama metal, vuoi perché tra la fine degli ’80 ed i primi ’90, anche e soprattutto in ambito thrash, escono degli autentici capolavori che rimarranno indelebili nel tempo e si eterneranno ad autentiche pietre miliari, rubando ogni cono di luce possibile agli eventuali concorrenti “minori” (“Rust In Peace”, “Persistence Of Time” “Never, Neverland”, “Act III”, “Twisted Into Form”, “For Whose Advantage?”, “The American Way”, “Swallowed In Black”… solo per citare una manciata di titoli limitatamente al 1990). Vuoi perché “Natural Order” oggettivamente non innova in modo sensazionale, non istituisce alcun nuovo canone, non inventa e non aggiunge, sebbene sia un eccellente album di thrash metal con molte frecce al suo arco, una squisita perizia strumentale e diverse buone intuizioni. “Natural Order” prende quel che c’è già e lo sublima al meglio della sua forma. Può darsi che la band si aspettasse di più in termini di feedback, può darsi che fosse la Earache a volere di più, e può anche darsi benissimo che il rapporto tra Hellbastard ed Earache non sia andato a gonfie vele per via dell’attitudine DIY e sostanzialmente punk della band, poco avulsa ad un circuito più “mainstream” (estrema periferia del mainstream naturalmente) nel quale poco si sentiva a suo agio. Non fosse altro per l’accusa di velleità da “rock stars” ricevuta da parte della loro fan-base più affezionata (una roba che fa piegare in due dal riedere, ma nello scorso secolo succedeva anche questo).
Un mese dopo la pubblicazione di “Natural Order”, per R.K.T. Recods (altra label inglese) esce “Wasteland” degli Hellkrusher, un monicker che è la crasi di altri due ovvero Hellbastard ed Energetic Krusher. Dai primi arriva il chitarrista Ian “Scotty” Scott (bassista su “Heading For Internal Darkness”), dai secondi il cantante Alaistair Lynn. Gli Energetic Krusher erano una pregevolissima band thrash, anch’essa di Newcastle, autrice del solo “Path To Oblivion” nel 1989, nella cui formazione si sono mischiati e scambiati anche alcuni elementi degli Hellbastard, come ad esempio Nick Parsons che nel 2000 e nel 2001 rivedremo all’opera con i The Almighty rispettivamente sull’album omonimo e su “Psycho-Narco”. Dopo “Path To Oblivion” (Vinyl Solution) gli Energetic Krusher approntano un demo (“Severe Bombardment”) ma si tratta di un niente di fatto, la band muore lì, nel disinteresse generale. Peccato perché avrebbero certamente meritato maggiore considerazione e in qualche modo queste righe sono un invito a recuperare il loro album.
Spostiamo in avanti le lancette del tempo e torniamo agli Hellkrusher, in diretta concorrenza con gli Hellbastard, sebbene le rispettive direzioni musicali siano divergenti; il sound degli Hellkrusher rimane più ancorato alle origini (degli Hellbastard), è più punk, più trucido, più guerrigliero e non recide minimamente le radici hardcore, punk e crust, quei grumi di sangue e fango sono ancora perfettamente udibili e fanno saltellare la puntina dello stereo sul vinile ad ogni nuovo solco. “Wasteland” comunque non è un album che sfonda e francamente, al di là della sua attitudine più violenta, non lega nemmeno i lacci delle scarpe alla magnificenza di “Natural Order”, ma siamo in pochissimi a pensarlo, poiché gli stessi Hellbastard ritornano sui propri passi, abbandonando quel thrash e recuperando la loro vena originale, in qualche maniera dando ragione agli Hellkrusher. Nel ’92 producono un nuovo demo rehearsal, la line-up è ridotta a tre, ci sono Lewty e Wright ai quali si aggiunge un nuovo batterista. Il treno però è bello che passato, gli Hellbastard vengono risucchiati nuovamente nel gorgo dell’underground più povero e maleodorante e il loro nome scompare da qualunque rivista ed organo di stampa. Lewty mette la band in soffitta. Spariti loro e gli Energetic Krusher, i soli Hellkrusher sopravvivono pubblicando un nuovo album nel 1992 (“Buildings For The Rich”), un terzo nel 1997 (“Doomsday Hour”) e poi inanellando una serie di split ed Ep, fino a giungere a “Human Misery” nel 2017, e nel 2018 ad una versione riveduta e corretta (con molto materiale inedito) di “Wasteland”. Gli Hellbastard tornano in pista invece nel 2009 con “The Need To Kill”, al solito c’è il solo Lewty a testimoniare il verbo della band, per il resto i musicisti intorno a lui sono ancora ed ancora cambiati. Il vecchio Scruff dice che da tutto il mondo piovevano richieste di rivedere gli Hellbastard in pista…. ok….. va bene….
Tralasciando la sterminata quantità di uscite collaterali fatta di Ep, split e compilation di cui ho già detto, ad oggi sono stati pubblicati solo due full-lenght effettivi, “The Need To Kill” e “Feral” (nel 2015 per Patac Records…. una label un programma). Per quanto mi riguarda, gli Hellbastard di “Natural Order” sono un gruppo a se stante, avulso da quanto pubblicato prima e dopo, seppur con lo stesso monicker. Quell’album rimane una cometa la cui coda è brillata in maniera abbacinante, ma episodica. Non solo non è stato possibile riascoltare nient’altro di simile dalla stessa band, ma neppure mi sono imbattuto in altri album che in qualche maniera rievocassero quel sound, quel brillante connubio di tensione thrash, tecnicismo al punto giusto (né troppo né troppo poco) e grandi slanci melodici affidati alla chitarra in momenti chiave. Quindi allora forse la mancanza di originalità di cui ho parlato poc’anzi andrebbe un po’ rivista perché se è vero come è vero che in oltre un trentennio quella magia non si è replicata, qualcosa vorrà pur dire.