Skip to content Skip to sidebar Skip to footer

Wayne’s World

LA CHIESA, L'ERETICO E Il REVERENDO

Tutti mangiapreti i metallari? A giudicare dai nomi circolati in una manciata di lustri sulla costa ovest degli Stati Uniti verrebbe da pensare il contrario. Eppure non siamo al cospetto di un’ondata di white metallers timorati di Dio (o forse magari anche si, chissà), quanto piuttosto dentro il cuore (borchiato) del più autentico e verace sound a stelle e strisce. Tutti in piedi, inizia la messa…

Contenuti:

1. Il triangolo dello Spirito Santo e i primi mattoni della Chiesa (1980 – 1983)
2. Montaggio alternato – primo tempo (1984 – 1988)
3. Montaggio alternato – secondo tempo (1989 – 1992)
4. David Wayne: un finale convulso (1999 – 2005) 

1 – Il triangolo dello Spirito Santo e i primi mattoni della Chiesa

La Chiesa, il Reverendo e l’Eretico, se Sergio Leone anziché agli spaghetti western si fosse dedicato allo spaghetti horror, a sfondo soprannaturale e demoniaco, forse avrebbe partorito un titolo del genere. San Francisco, Los Angeles, Seattle, una striscia di territorio spalmata sulla costa occidentale degli States dove, nell’arco di un decennio, vengono generate tre band strettamente imparentate tra loro. Col senno di poi, una specie di posse di musicisti coi fiocchi che dà alle stampe e consegna ai magazine, alle ‘zines e alle monografie sul metal qualche pagina di storia, più o meno underground. Del trittico, solo i Metal Church hanno conosciuto un briciolo di fama e notorietà anche oltre i confini della nicchia incallita dei nerd borchiati tuttologi del Rischiatutto, sebbene pure Reverend e Heretic, a mio modesto parere, non demeriterebbero affatto un po’ di (ri)considerazione, avendo messo il proprio ingegno al servizio della definizione di via americana all’heavy metal. Attenzione postuma nel caso dei Reverend, dato che invece gli Heretic hanno ceduto all’ondata di reunion che ha coinvolto molte realtà sepolte del circuito rock e metal, ripresentandosi sul mercato addirittura con un album nuovo di pacca nel 2012 e pure un seguito nel 2017.

A San Francisco c’era Kurdt Vanderhoof e la sua ganga di rockers, gli Shrapnel, una cover band di cui fa parte un chitarrista che non vuole eseguire “The Number Of The Beast” perché “antireligiosa” e un opinabile cabarettista-tennista di nome Lars Ulrich. Durano poco entrambi e della presenza del danese con la fascetta sulla fronte alla Bjorn Borg rimane solo qualche nastro primitivo a testimoniare la sua militanza nella band prima di trasformarsi in “some kind of monster”. Nell’81 Vanderhoof si trasferisce dalla California allo stato di Washington dove, assestamento dopo assestamento, assembla una nuova line-up. Ad un demo strumentale (“Red Skies”) segue un altro demo (“Four Hymns”), stavolta con le doti vocali della nuova recluta David Wayne (in totale i tape incisi saranno poi quattro). Nel 1983 il monicker Metal Church – il nomignolo dell’appartamento di Vanderhoof a Frisco – è già in adozione e la band autofinanzia e pubblica l’omonimo debutto per le insegne della modesta Ground Zero. 70.000 copie e gli inni raggiungono gli uffici della Elektra, che nell’85 ristampa il disco. Si dice che presso la label la causa venisse generosamente perorata da Ulrich e Hetfield (fan di Wayne). La liaison si rende manifesta nell’86, quando i Metal Church di “The Dark” – album espressamente dedicato a Cliff Burton, scomparso 9 giorni prima della sua pubblicazione – sono in tour proprio con i Metallica e gli Anthrax nel Damage Inc. Tour.

metal church 2

II – Montaggio alternato – primo tempo

Nel frattempo in California, pure senza Vanderhoof ad agitare le sei corde, l’incandescente fiume del metallo scorre impetuoso. A Los Angeles nel 1985, un anno prima di “The Dark”, l’Eresia era già pronta a dare del filo da torcere all’ortodossia clericale. Sotto il minaccioso monicker di Heretic un drappello di guerriglieri si appresta a dare alle stampe un primo EP a titolo “Torture Knows No Boundaries” (poi accreditato anche come “Don’t Turn Your Back”). Il frontman della band è Julian Mendez, voce di cartavetro e attitudine teatrale e belligerante. E’ nientemeno che la Metal Blade a battezzare l’esordio eretico e al giro di boa dei due anni la label rilascia anche il primo full-length ufficiale del gruppo, “Breaking Point” (prodotto da Vanderhoof). Qui però Mendez non c’è già più (se n’è andato negli anonimi Stone Soldier), al suo posto si è insediato un certo Mike Howe del Michigan, il quale fa appena in tempo a intonare le 10 melodie contenute in scaletta che viene preso di peso e trapiantato nei Metal Church (l’occhio lungo e rapace di Vanderhoof….).

La Chiesa intanto aveva prodotto un seguito all’esordio autointitolato. Elektra, come previsto, licenzia “The Dark”. Il secondo capitolo va commercialmente molto meglio del primo, complice una notorietà crescente derivante dal passaparola, dall’attività live e dal supporto che MTV dà al videoclip di “Watch The Children Pray”. L’album è la prova provata di quanto la band sia una spanna superiore a parecchi sparring partners dell’epoca. E però David Wayne, carismatico vocalist delle prime due prove in studio, si perde nel tunnel della droga, abbandonando la sala prove dei ragazzi. Un pezzo da novanta, difficile da sostituire senza togliere qualcosa alla band in termini di magia ed efficacia. Pure Mike Howe però, sebbene totalmente diverso da Wayne come timbrica ed impostazione, è un altro pezzo da novanta e i Metal Church, evidentemente frequenti ai miracoli, chiudono una porta per aprire il portone della cattedrale. Nel 1989 esce “Blessing In Disguise”, ultimo album per Elektra, mastodonte tranquillamente in grado di competere con i suoi predecessori, se non addirittura caratterizzarsi per un’esuberanza ed un’asprezza persino maggiori. L’aneddotica narra che “Blessing In Disguise” si sarebbe dovuto chiamare il secondo album dei Flotsam And Jetsam; ma quando questi optarono per “No Place For Disgrace” la Elektra passò il titolo ai Metal Church.

Gli Heretic vengono definitivamente esorcizzati dal tribunale ecclesiastico di Monsignor Vanderhoof (il quale continua ad essere membro dei Metal Church a livello di songwriting e come chitarra addizionale, ma si defila volontariamente dal quintetto operativo, sostituito on stage da John Marshall) e ridotti all’impotenza, causa improvvisa conversione del cantante, passato dall’Eresia alla Madre Chiesa. L’agonia langue fino al ’91, quando una compilation celebrativa riunisce i titoli pubblicati dagli Heretic sino ad allora, ma sostanzialmente la band muore lì, con o senza rogo purificatorio. In compenso i Metal Church vanno che è una meraviglia, a livello compositivo, perché il quarto album si rivela piuttosto infelice in termini di vendite ed accoglienza. Dopo la benedizione impartita nell’89, è l’ora di “The Human Factor” (’91) su Epic. Altro capolavoro, per quanto mi riguarda. Il sound si rende meno impenetrabile e laminato, facendosi “contaminare” da suggestioni ai limiti dell’hard rock. Tuttavia le reazioni sono contrastanti, il disco non entra in nessuna chart e forse per la prima volta i Metal Church vengono messi in discussione. In effetti la band nell’arco di un paio d’anni è passata dal proprio episodio più “duro” a quello più “morbido” (prendendo entrambi i termini con le molle). The “Human Factor” impiegherà anni per essere preso nella debita (ri)considerazione dalla stampa.

III – Montaggio alternato – secondo tempo

Korban e O’Hara degli Heretic l’antifona l’avevano capita per tempo e nell’89, dalle parti di Seattle, sono già alle prese con una nuova creatura. E indovinate un po’ chi chiamano dietro al microfono? Reduce da un tentativo non riuscito di convivenza con i techno trashers Heathen (beh, un chierico con dei pagani non poteva andar d’accordo) e da un improbabile team con l’ex Wasp Randy Piper, detto o’ Animalo, David Wayne viene contattato dagli orfani di Mike Howe. Se non puoi batterli fatteli amici, e così, assecondando l’adagio, Korban e O’Hara decidono di rivolgersi alle alte sfere celesti. Wayne è uno che la messa sull’altare la serviva sin dai tempi di “Metal Church” e “The Dark”, i paramenti sacri li conosce più che bene. Davanti al menù di uno dei tanti ristoranti della catena Denny’s gli viene formalmente offerto il ruolo di frontman di un nuovo qualche cosa. Il singer si dice colpito dalla musica dei ragazzi, ascoltata sul posto mediante un registratore – almeno così narra la leggenda – e accetta. Il gruppo viene battezzato Reverend; nulla accade per caso, il “reverendo” infatti è proprio lui, don Wayne, con ampi meriti conquistati sul campo. Col senno di poi, Wayne parlerà con acuto sarcasmo di un gigantesco “scherzo cosmico”, una vera e propria telenovela quella che ha incrociato in un continuo gioco di scambi e andirivieni le formazioni di Metal Church, Heretic e Reverend.

Parallelamente a “Blessing In Disguise”, Wayne e compagni esordiscono su Caroline Records con un EP autointitolato. Il suggestivo artwork ritrae Stonehenge avvolta dalle fiamme, i quattro pezzi proposti sono interessanti anche se non bilanciatissimi (“Wretched Excess” e “Ritual” decisamente migliori di “Power Of Persuasion” e “Dimensional Confusion”), non ancora all’altezza del materiale successivo ma propedeutici a qualcosa di buono. A stretto giro di posta arriva “World Won’t Miss You” (Charisma Records, ’90) e finalmente scopriamo di che pasta sono fatti questi Reverend. Lavoro fenomenale, degno dei Metal Church – eterno termine di paragone – con i quali rivaleggia colpo su colpo, col solo svantaggio di dover fronteggiare quattro album mentre i Reverend hanno appena cominciato a dar fuoco alle polveri (e ai menhir….a proposito, stavolta la copertina è orrenda, anche se funzionale al concept lirico, quello dei temibili e avidi predicatori evangelici delle tv americane).

1991, ancora Charisma, e i Reverend insistono con “Play God”. Complessivamente l’album è più maturo del precedente full-length e forse anche migliore, ma sconta una produzione mediocre che azzoppa in particolare la batteria, fiacchissima, non per colpa del drummer Jason Rosenfeld (fratello di Scott Ian) ma del producer quasi omonimo Michael Rosen (autore di altre produzioni un po’ sui generis a livello di suoni, come “In This Time” dei Mordred, “When The Storm Comes Down” dei Flotsam, “Frolic Through The Park” dei Death Angel, “Souls Of Black” dei Testament, “Nothing To Gain” dei Vio-Lence). O’Hara nel frattempo ha lasciato.

1992, un live di 6 canzoni (fantasiosamente intitolato “Live”) e l’avventura finisce qui. E’ la dura legge del grunge: se non ve ne siete accorti siamo entrati a pieno nel decennio famigerato. I Metal Church pure loro non sanno che strada prendere. Frastornati dal parziale insuccesso di “The Human Factor”, ci mettono un po’ a metabolizzare il colpo, come un pugile sul ring, e nel ’93 se ne escono con “Hanging In The Balance”, un lavoro che non è né carne né pesce. Partendo dalle recenti trame sonore più “accessibili” di “The Human Factor” provano a portare ulteriormente avanti il discorso, ma è il songwriting a non essere di sostanza. Anche se la band non può fisiologicamente perdere la classe innata che ha dimostrato di possedere, il calo di ispirazione e di intensità c’è tutto e si avverte forte e chiaro. I Metal Church rimangono proprio “in bilico”, incerti sulla direzione da prendere, refrattari costitutivamente all’alternative, inadatti a praticare un hard rock tout court, contrari ad un ritorno integralista al metal, insomma appesi al filo, in attesa di vedersi passare sotto il naso il treno della consacrazione definitiva. Howe, Craig Wells e Kirk Harrington lasciano, certificando la sconfitta. La flanella ha vinto.

IV – David Wayne: un finale convulso

Ma anche gli anni ’90 prima o poi devono finire e ci vuole quel tramonto perché la band rimetta insieme i cocci andando addirittura a richiamare il reverendo Wayne. Tutta l’operazione viene intesa come un esplicito richiamo alla creazione dei Metal Church. Ricompare Vanderhoof, in copertina torna la celebre chitarra dal manico a croce e in effetti “Masterpiece” risulta una sorta di continuazione ideale di “The Dark”, come se la storia riprendesse da lì. I credits sono quasi esclusivamente appannaggio di Vanderhoof e Wayne. Non ci sono e non possono più esserci la veemenza, l’entusiasmo e la genuinità degli anni ’80, tuttavia l’album è solido e concreto, non ha forse vertici strabilianti ma si attesta come un rientro sulle scene incisivo ed efficace. Personalmente devo dire che, ascolto dopo ascolto, ho sentito crescere enormemente il suo valore.

Se artisticamente la sinergia con Wayne si conferma una garanzia di qualità, umanamente le cose non sembrano girare mai altrettanto bene tra i musicisti. “Masterpiece” si risolve in un esperimento (fallito) di compatibilità e nel 2001 – mentre i Metal Church sono fermi – Wayne la fa grossa. Un po’ come fece Luther Beltz con i Witchfynde (inventandosi i Wytchfynde), pubblica un album a suo nome, mettendo in copertina una chiesa, una chitarra col manico a croce in primo piano e intitolandolo “Metal Church”. Una sfida sfacciata e sprezzante che Vanderhoof e compagni gradiscono come una cartella di Equitalia nella cassetta della posta. In line-up c’è pure Craig Wells, beffa che si aggiunge al danno. Come era prevedibile, le due fazioni ingaggiano una lite di condominio e, come era altrettanto immaginabile, il disco – uscito per Nuclear Blast – ripercorre pedissequamente i territori esplorati con la band madre, il sound è strappato via dai solchi degli album dei Metal Church, ma ad accompagnare il cantante, eccezion fatta per Wells, non ci sono strumentisti e compositori di quello spessore. Nonostante ciò, le nove tracce (più una cover dei Mountain) permettono di trascorrere una quarantina di minuti all’insegna della gradevolezza e di atmosfere familiari, basta magari sapersi accontentare.

Indomabile e chiaramente in rotta con i Metal Church per l’ennesima volta, Wayne rispolvera pure il monicker Reverend. Sempre nel 2001, sotto l’egida di un’etichetta underground come la Neck Damage, la band pubblica l’EP A “Gathering Of Demons”. Tranne Wayne non c’è più nessuno della formazione di “Play God”, in pratica si tratta di una band completamente diversa. Sono trascorsi 10 anni dal secondo studio album e lo smalto dei Reverend non è decisamente più quello di un tempo. Il momento di maggior interesse della track-list è la riproposizione di “Fake Healer” (alla cui scrittura collaborò pure lo stesso Wayne) sotto titolo diverso, ora si chiama “Legion”. Operazione similare a quella di “Mechanix” di Dave Mustaine vs Metallica. Va detto che la versione apparsa su “Blessing In Disguise” è infinitamente superiore a questo remake un po’ goffo.

Nel 2004 Vanderhoof e Kirk Arrington sono finalmente pronti a scrollarsi di dosso una volta per tutte la “maledizione” Wayne e donare una seconda giovinezza ai Metal Church. Reclutato Ronny Munroe (uno con mille e una band nel curriculum, ma all’epoca noto soprattutto per la sua militanza nei Rottweiller), i gran cardinali della Chiesa ripartono per un’avventura che assegnerà svariati altri album alla bacheca dei trofei della band. Arrington in realtà suonerà solo “The Weight Of The World”, poiché poi Vanderhoof diventerà il padre padrone unico ed incontrastato del marchio. Munore lo accompagnerà per una quaterna di release, salvo lo scoppiettante colpo di scena di un ritorno di Mike Howe concretizzatosi proprio nel 2015. La discografia degli anni 2000 sarà dignitosa e in qualche caso anche brillante, sebbene mai seriamente in grado di eguagliare i giorni migliori dei Metal Church

La vera fine di tutto però è la morte di David Wayne nel 2005 a causa di complicazioni derivanti dalla cancrena alle gambe. A seguito di un incidente d’auto Wayne viene sollecitato dai medici ad amputarsi le gambe proprio per prevenire il pericolo a cui sarebbe certamente andato in contro. David vuole lottare contro il destino ma perde la sua partita a scacchi con il Tristo Mietitore incappucciato. Senza che nessun Ingmar Bergman sia lì a filmare l’incontro, Wayne ci abbandona per mezzo di semplici trafiletti pubblicati di sfuggita sulle riviste e sul web, comunicati di circostanza che non rendono giustizia al suo enorme lascito – alla sua “legacy”, direbbero quelli che se ne intendono – in ambito metal. Il prosieguo della carriera degli Heretic e dei ritrovati(si) Metal Church sembra rimanere l’unica consolazione per i metalheads a margine della sua scomparsa… ma il destino saprà colpire ancora più duro nel 2021, strappando dalle sue radici terrene pure Mike Howe.

La messa è finita andate in pace.

Discografia Relativa

  • Wayne was here:
  • 1982 – Metal Church (Metal Church)
  • 1986 – The Dark (Metal Church)
  • 1989 – Reverend (EP) (Reverend)
  • 1990 – World Won’t Miss You (Reverend)
  • 1991 – Play God (Reverend)
  • 1992 – Live (EP) (Reverend)
  • 1999 – Masterpeace (Metal Church)
  • 2001 – Metal Church (Wayne)
  • 2001 – A Gathering Of Demons (EP) (Reverend)
  • Heretic:
  • 1986 – Torture Knows No Boundaries aka Don’t Turn Your Back (EP)
  • 1988 – Breaking Point
  • 2012 – A Time Of Crisis

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.