Già di per sé il funky metal – come esperimento di ibridazione – è andato di traverso a parecchi, pareva l’unione forzata di due mondi inconciliabili, più per spirito che per sonorità (troppo scherzoso e sornione il primo, troppo serioso e apocalittico il secondo), se poi pensiamo agli Urban Dance Squad dovremmo parlare di una band che il metal lo ha circumnavigato anche piuttosto alla larga, e che a stento ha trovato un’adeguata collocazione nell’universo dell’acciaio cromato. Nel decennio delle contraddizioni, delle smitizzazioni e delle contaminazioni però, i – difficilissimi da maneggiare – anni ’90, persino una posse come quella olandese ha potuto ricevere un po’ di attenzione da centauri in sella alle harley con lo spadone sguainato. Non è durata granché, ma finché è durata abbiamo ballato come dei dannati!
Contenuti:
1. Funk invasion (1986 – 1990)
2. The plague that makes your booty moves…it’s Urban Dance Squad! (1991 – 1993)
3. Save the last dance (1994 – 1999)
1 – Funk invasion
Funky metal, croce e delizia del metallaro medio, perlomeno nell’accezione del termine “metallaro” in voga negli anni ’80, quelli in cui glam e thrash si prendevano a schiaffoni per dimostrare quale dei due avesse più testosterone nelle mutande. Oggi fa un po’ ridere tanta attenzione all’arrocco truista, agli escamotage morali per attestare la propria integrità in materia di chitarre, amplificatori e borchie. Ci siamo abituati a qualsiasi tipo di contaminazione, dai Fear Factory ai Red Hot Chili Peppers è tutto rock, va bene tutto. Ma prima, negli anni ’80, facevi fatica a far accettare anche band come Acid Reign, Lawnmower Deth o Re-Animator, perché era gente che se la rideva troppo e il metal doveva essere una roba seria, ingrugnita e arrabbiata col mondo. Quando Mordred, Scatterbrain, Atom Seed, Ignorance, Scat Opera e compagnia balzellante invase gli impianti hi-fi del mondo Occidentale non fu amore a prima vista. I Living Colour stessi sulle prime furono graditi un po’ si un po’ no, ma vennero anche da subito consegnati all’aristocrazia rockettara e, come tali, in qualche modo nobilitati. I Mind Funk avevano il valore aggiunto, un Celtic Frost in formazione (Reed St. Mark) e pure loro erano più “intellettualmente” crossover rispetto ai freakkettoni fetenti con i pantaloni larghi fluo e le movenze sgraziate di uno Stevie Wonder sotto anfetamine. I Primus e i Faith No More, ancorché estrosi, bizzarri e pazzerelli, avevano un pedigree fuori discussione, Anthrax e Nuclear Assault col funky in fondo ci avevano giocato appena un po’, ma niente di serio. Gli Infectious Grooves erano pur sempre i Suicidal Tendencies sotto altra identità, Henry Rollins andava a parare chissà dove, ma comunque era uno avanti (e poi, a dargli torto, con un cartone ti stendeva a terra), i Saigon Kick nessuno ha mai saputo dove collocarli. E potrei continuare a oltranza citando Fishbone, 24/7 Spyz, Psychefunkapus, Jane’s Addiction, White Trash, The Beyond….
Qualcuno insomma aveva santi in Paradiso o alibi inattaccabili, ma i funksters puri, quelli senza un iper tecnico Vernon Reid o Les Claypool in formazione, chi cacchio si credevano di essere? Cosa pretendevano? Veramente erano convinti che un metallaro duro e puro avrebbe messo da parte i suoi vinili di “Reign In Blood” e “British Steel” per stare a zompettare su pulsazioni di basso e percussioni sincopate e sbilenche, mentre un chitarrista faceva finta di scratchare sulle corde ed un invasato al microfono rappava come un tarantolato? Dove saremmo andati a finire! Tra questi individui velleitari si annidavano pure gli olandesi Urban Dance Squad, un collettivo che di metal non aveva granché e a malapena lambiva il rock. Gli UDS se la godevano a colpi di rap (prima che diventasse figo chiamarlo hip hop), reggae e ska, perlopiù.
Il 20 dicembre 1986 ad un festival di musica ad Utrecht si presenta una one shot band – ovvero un gruppo assemblato per quella specifica occasione – che avrebbe dovuto esibirsi nei termini di una jam session. La formazione è composta da un chitarrista, un bassista, un batterista, un rapper e un DJ. Il monicker scelto dal progetto tradisce immediatamente le intenzioni, Urban Dance Squad deriva da “Urban Dancefloor Guerrillas” dei Parliament Funkadelic. L’esibizione va bene (45 minuti in tutto), si respira aria nuova, l’alchimia tra i ragazzi è esplosiva, il resto lo fa la magia che la musica è in grado di materializzare. Segue un biennio intenso, costellato di attività live nei club, alla radio, alla tv, in occasione di eventi più o meno speciali (comprese le prime date a supporto dei veterani del funky statunitense Red Hot Chili Peppers e le comparsate con i De La Soul). Il ricavato di questi due anni, in termini economici e di esperienza, si traduce nel debutto sotto Arista/BMG con “Mental Floss For The Globe” (1989), subito premiato con l’Edison Award, un premio che l’industria musicale olandese riserva ogni anno a propri artisti meritevoli. Tre i singoli estratti: “Deeper Shade Of Soul” (il più fortunato, anche e soprattutto negli States, tanto da regalare alla band – col suo 21° posto nella Billboard Hot 100 – un tour come opening act dei Living Colour), “No Kid” e “Fast Lane”. L’album miete consensi e negli States (notoriamente più predisposti ed affini a questo tipo di sonorità dinoccolate) fa guadagnare rispetto alla band. “Mental Floss” viene definito una ventata d’aria fresca e riceve ottime recensioni che vanno sorprendentemente a scomodare gli Zeppelin, Hendrix e atmosfere garage. Pure in Europa comunque c’è di che sorridere, manifestazioni al fianco di Mano Negra, Public Enemy, Lenny Kravitz, 24/7 Spyz, sanciscono l’entrata degli UDS nel salotto buono.
II – The plague that makes your booty moves…it’s Urban Dance Squad!
Tutto giusto, perché è un ottimo album, un signor concentrato di funky rock e rap che rende molto ardua l’intenzione stoica di rimanere fermi coi piedi ben saldi a terra, senza far tamburellare alluci, pollici, palmi delle mani o qualsiasi altra parte del corpo usiate solitamente. Questi UDS di heavy metal non hanno un piffero, un disco del genere nel circuito metal non dovrebbe nemmeno affacciarsi, ma nella confusion fusion di quegli anni invece la copertina scudata del platter fa capolino in qualche rivista di settore, e qualche capellone meno integralista (come il sottoscritto) rimane incuriosito dalla proposta sonora degli olandesi. Nemmeno il look li aiuta, la band non ha proprio nulla di “cattivo”, sono dei ragazzotti nord europei a cui apparire frega il giusto (copertina e retrocopertina non offrono manco una foto), gente da club che si spacca di sudore e adrenalina, un atteggiamento abbastanza antitetico al funambolico e pirotecnico heavy metal, sempre in cerca del look più rutilante e d’impatto possibile. Patrick Tilon, detto Rudeboy, è un frontman che molti fanno fatica a digerire, con quel cappellino improbabile, a metà tra un ferrotranviere e il fez marocchino, le sue felpe arancioni e le sue movenze da Jovanotti ad un passo dalla dieta.
Nel 1991 gli UDS si chiedono quali siano le lungimiranti prospettive di un genuino crossover. La risposta è l’omonimo album autoprodotto (“Life’ N Perspectives Of A Genuine Crossover”), composto di ben 17 tracce, per circa un’oretta di musica a tutto funky. Come l’artwork, un puzzle composto da diverse specie animali (uomo compreso) e cromatismi incrociati, pure il sound è un calderone composito che amalgama rock, hip hop, blues e perfino suggestioni caraibico-esotiche (“For The Plasters”, “Bureaucrat Of Flaccostreet”). Tuttavia non viene bissato il successo del debut; chi dà la colpa alla mancanza di un vero singolo spacca radio, chi allo scarso impegno promozionale della label, chi alla band – troppo rapidamente posta sul piedistallo – chi all’oroscopo, fatto sta che si rompe addirittura il contratto con Arista e la Squad si ritrova a spasso e con una credibilità parzialmente da ricostruire già al secondo album. “Life ‘n Perspectives” è più vario e probabilmente anche più dispersivo di “Mental Floss”, questo ha erroneamente portato qualcuno a ritenere che si trattasse di un lavoro inferiore o addirittura solo parzialmente riuscito. Convinzione del tutto errata a parer mio, poiché i 58 minuti contenuti in questi solchi meritano; meritano innanzitutto più di un ascolto, perché di carne al fuoco ce n’è tanta.
Dopo America ed Europa (festival con Soundgarden e Beastie Boys) il gruppo sbarca in Giappone, a bordo del tour bus della Rollins Band (marzo 1992). La risposta del pubblico, quello vero in carne ed ossa, era e rimane positiva, entusiasta, tuttavia i rapporti col music business si rivelano invece indirettamente proporzionali, tanto da sancire la fine del deal con Arista nel settembre ’92. Orgogliosamente la band si chiude in studio per registrare nuovo materiale, ma fa tesoro di quanto accaduto, cercando di focalizzarsi su pattern musicali meno caleidoscopici e puntando invece ad una maggior compattezza e riconoscibilità. Ci vogliono due anni perché gli UDS, nel frattempo scemati di un’unità (DJ DNA) e divenuti un quartetto, riescano a solleticare nuovamente l’interesse di una label. Si tratta della Virgin – mica pizza e fichi – che se li gode live al Lowlands Festival, assieme agli Smashing Pumpkins e li scrittura. Nell’autunno del ’93 viene firmato il contratto e a marzo ’94 “Persona Non Grata” è licenziato con il contributo dei producers Phil Nicolo e Stiff Johnson (Cypress Hill, Urge Overkill). Come detto, il terzo disco degli UDS è più diretto e concreto (non è un caso se è proprio il DJ ad abbandonare), flirta più vistosamente con il funky rock hardizzato. In tal senso, la opener “Demagogue” è un vero martello ritmico, e nemmeno scherzano “Good Grief!”, “Candy Strip Exp”, “No Honestly!”, “Burnt Up Cigarette” (col suo incedere alla Primus), “Hangout” (che, non so perché, ma mi fa pensare a dei Black Sabbath “positivi” in botta di felicità). Chiude l’album “Downer”, una traccia di oltre 10 minuti, quasi all’insegna del funky doom (che detta così, pare un ossimoro). Certamente la band vuole rimediare alla eccessiva varietà dispensata nelle precedenti prove discografiche, evidentemente qualcosa troppo “larger” perché pubblico e critica riescano a contenerla; allo stesso tempo gli olandesi vogliono smussare overdubs, effettistica pirotecnica e bizzarrie in favore di un riavvicinamento alle radici, dunque semplicità e strada dritta (naturalmente sempre in un ambito funky).
La ricerca della semplificazione paga, l’album crea nuovo interesse attorno alla band e “Demagogue” spacca un po’ ovunque. Oltre alle consuete tappe festivaliere europee dal sapore pop alternative, gli UDS si affacciano persino al Dynamo Open Air e in giro li si vede al fianco dei trucissimi Biohazard. Quindi vanno in tour nei club statunitensi, dove danno ampio sfogo a serate di puro jamming. Non saprei dire se “Persona Non Grata” sia effettivamente il miglior album del gruppo, mi piace assai, ma come del resto mi piacciono anche i precedenti ed i successivi; di certo è il più potente ed elettrico, quello che con minori difficoltà potrebbe entrare nella playlist di un metallaro (sempre di quelli open minded). Nonostante tutto, gli Urban Dance Squad continuano a rimanere una band estranea al metal, non sono dei rocker che giocano col funky, sono dei musicisti che si servono anche del rock (ed a tratti, perlomeno in “Persona Non Grata”, di suggestioni ai limiti dell’hard, ma mantenendo una distanza genetica da quella formula). Ringalluzziti dalla massiccia dose di adrenalina rientrata in circolo nelle vene, gli Squadders intendono canalizzarla all’opposto, sfruttando le atmosfere intimiste dei club americani e tramutando quel sound nella base per il futuro album da comporre in studio. A tale scopo la sala di registrazione viene appositamente ridotta in dimensioni, così da far assorbire la maggior parte delle vibrazioni dagli oggetti.
III – Save the last dance
Oltre 30 canzoni attendono di essere selezionate per finire nella tracklist definitiva. Una cosa è certa, lo stile viene rivisto per l’ennesima volta. Con “Persona Non Grata” si è toccato l’apice rockettaro della band, adesso l’aggressività rientra nei ranghi e la componente hip hop riprende coraggio. Seda (Osdorp Posse) si fa carico degli elementi rap del disco, mentre un team di produttori, tra i quali Andrew Weiss (Butthole Surfers), Rob Schnapf e Tom Rothrock (Beck, Foo Fighters) viene interpellato dagli UDS per contribuire con idee e spunti creativi. Sono 21 le composizioni che passano la durissima selezione. Nonostante sia lo stesso Phil Nicolo di “Persona Non Grata” a sedere in consolle, sound e Produzione di “Planet Ultra” (1996) sono completamente diversi. La band muta forma, anche gli input più aggressivi (“Forgery”) hanno un sapore più alternative che heavy. In generale comunque gli UDS vanno in cerca di un sound meno potente e più dinamico, personale e a tratti più interiore. “Planet Ultra” ha in sé qualcosa di sfuggente, ambiguo, sibillino, una sua cifra enigmatica che rimanda altrove, forse proprio a quel “pianeta ultra” che la band intende essere, una dimensione a cui tendere per sfuggire al tedio e al caos del mondo reale. Da grande appassionato di fumetti, Rudeboy descrive i testi e la musica dell’album come una totale immersione in una congerie di stimoli che rendono la vita ironica e gradevole, contrariamente al grigio che ci circonda quotidianamente. “Temporarily Expendable”, “Dress Code”, “Metaphore Warfare”, “Ego”, sono pezzi incisivi e al top del repertorio della band, che spediscono ai piani alti anche questa Squad release.
In tour la band torna ad ospitare un quinto elemento nelle proprie file, un keyboardist per l’esattezza, U-Gene. Se sotto ogni palco esiste oramai una solida e consolidata fan base, la critica si rivolge all’album con entusiasmo a macchia di leopardo, chi mostra di gradire, chi no. Il 20 novembre 1996 a Belgrado gli UDS sperimentano nel loro piccolo quello che il Moscow Music Peace Festival fu nell’estate dell’89 per Skid Row, Cinderella, Bon Jovi, Mötley Crüe, Ozzy e Scorpions. Il fermento politico è altissimo e l’accoglienza ricevuta dal gruppo per due date consecutive è ai limiti dello shock, tanto da far decidere agli UDS di pubblicare il loro primo bootleg, il “Beograd Live”, intensa fotografia di quelle incredibili ed irripetibili ore. Terminati i tour del ’96 la band torna in patria per formalizzare una notizia altrettanto significativa, il rientro in formazione di DJ DNA. Tutti i piani futuri, progettati amichevolmente in un bar di Amsterdam, vertono su un ritorno alle radici. Un nuovo album scritto dai cinque originali Squadders e una serie limitata di date live, nei club, senza crew, solo la band, gli strumenti ed un camioncino per gli spostamenti. Tutto deve tornare alle origini, alla purezza dell’ispirazione primigenia. Gli UDS stringono un interessante accordo con la neworkese Triple X per la ristampa di tutto il catalogo in America. Una manciata di loro canzoni vengono adoperate per delle colonne sonore in produzioni cinematografiche olandesi e francesi.
La lavorazione del quinto titolo a firma UDS coinvolge due amici facenti parte dell’entourage della Rollins Band, Theo Van Rock e Peer Rave. “Artantica” congeda gli anni ’90 così come si rivelerà, col senno di poi, l’ultimo album del gruppo. Dal vivo Rudeboy si esibisce più volte con l’uniforme indossata dai Rangers degli Stati Uniti d’America il giorno dello sbarco in Normandia, pare trattarsi addirittura di un dono personale di Steven Spielberg dal set di Salvate il Soldato Ryan (una delle fonti di ispirazione che hanno contribuito alla stesura di “Artantica”). Il 17 luglio 1999 a Zeebrugge, in Belgio, ha luogo l’ultima esibizione live del gruppo, poco prima dello scioglimento ufficiale. Paradossalmente, mentre il mondo reale perde fisicamente gli UDS, quello discografico viene invaso da tutte le loro release, poiché il contratto con Triple X si traduce in azione, ovvero la rimasterizzazione dell’opera omnia della band. Ogni album viene pubblicato corredato di un bonus disc contenente un concerto risalente al periodo di pubblicazione di quello specifico album. “Artantica” è forse l’album più “difficile” della band, meno immediato, privo di appigli facili ed estemporanei, evidenzia sempre e comunque la classe e la complessità di una band che non tradisce la sua originalità ed il suo essere speciale, ma che al contempo si distanzia da tutto e da tutti, come a dire: “questi siamo noi, prendere o lasciare“. Il rapporto con il rock ed il metal non è mai stato dato per scontato, a volte è stato conflittuale, a volte ha dato luogo ad un corteggiamento reciproco, ma gli UDS non sono mai stati definitivamente avvertiti come un corpo omogeneo all’universo rock & heavy. Per chi ha saputo e voluto andare oltre ciò, nel decennio che li ha visti operativi (1989 – 1999) l’innamoramento è stato appassionante e travolgente, e riluce ancora laddove – a distanza di tre lustri – non è stato possibile individuare una realtà discografica che abbia raccolto degnamente il lascito della Squadra di Danza Urbana.
Discografia relativa
- 1989 – Mental Floss For The Globe
- 1991 – Life’ N Perspectives Of A Genuine Crossover
- 1994 – Persona Non Grata
- 1996 – Planet Ultra
- 1997 – Beograd Live (bootleg)
- 1999 – Artantica