Band fondamentale del fenomeno NWOBHM, ispiratrice più o meno accreditata di molti colleghi anche più blasonati, i Tygers Of Pan Tang hanno dipanato la propria storia attraverso due polarità, complementari ma per certi versi opposte, quella di Robb Weir, il fondatore, e quella del singer storico Jon Deverill, tra le migliori voci in assoluto in ambito rock-metal, senza dimenticare l’apporto “di classe” di un John Sykes pre Thin Lizzy, Whitesnake, Badlands e Blue Murder. Questa è la storia degli anni compresi tra la genesi e l’ultimo album con Deverill in groppa alla tigre.
Contenuti:
1. La baia è infestata di tigrotti (1978 – 1979)
2. Tre anni intensi (1980 – 1982)
3. I Tygers di Deverill e quelli di Weir
1 – La baia è infestata di tigrotti
Il detentore del marchio, il signor Tygers Of Pan Tang è Robb Weir, colui il quale nel 2001 è salito in soffitta, ha dato una spolverata ai denti a sciabola del gattone e ha cercato di risollevarlo dalla disastrosa fine degli anni ’80. Il respiro del felino non si era mai del tutto sopito poiché, anche a band sciolta, compilation, raccolte, live bootleg e best of si erano incaricati di ricordare alla gente chi erano stati i Tygers. Anche nel 1978 il fondatore della prima incarnazione del gruppo è sempre lui, Weir, con i Tigers dapprima senza ypsilon. Assieme a Brian “Big” Dick (batteria), Rocky (Richard Laws, basso) e Jess Cox (voce) dà vita all’ensemble che inizia ad esibirsi sui palchi del dopolavoro di Whitley Bay, area situata nella zona orientale e mediana dell’Inghilterra, a un tiro di schioppo da quella Newcastle nella quale a partire dal ’79 furoreggeranno i tre indemoniati dei Venom.
E’ Rocky a inventarsi il monicker Tygers Of Pan Tang, prelevandolo di sana pianta dalla saga di Elric di Melniboné di Michael Moorcock (Pan Tang è un’isola devota al Caos, la sua roccaforte, e le tigri sono dei temibili predatori “addomesticati” dai Signori che regnano in quella landa). Scelta curiosa visto che la band nulla avrebbe avuto a che fare con orientamenti e suggestioni di tipo fantasy e letterario, né classicamente metal (quindi niente spade, guerrieri, draghi e mitologie medieval-favolistiche). Strano destino quello di Moorcock, opzionato da tanti ma sempre con qualche distinguo. I Cirith Ungol, grandi frequentatori del fantasy e dei suoi romanzi (nonché grandi amanti dei disegni di Michael Whelan, illustratore doc moorcockiano, al quale “scippano” le copertine dei loro 4 album) che però adottano come monicker un luogo citato da Tolkien; i Domine, cantori delle gesta di Elric e della saga del Campione Eterno in modo abbastanza purista, sui cui cd campeggiano illustrazioni alle quali sono molto affezionato, anche per questioni nostalgiche, ma dai tratti un po’ naive; o ancora gli Hawkwind, forse i più vicini spiritualmente a Moorcock (tant’è che lo scrittore ha anche fattivamente collaborato con loro) ma indirizzati verso un rock spaziale, lisergico e psichedelico piuttosto lontano dalle tipiche sonorità heavy-power a cui vengono solitamente collegate le ambientazioni di stampo fantasy. I Tygers comunque trovano in Moorcock un appellativo suggestivo che alla fine, pur nella sua idiosincrasia con l’attitudine più stradaiola dei nostri, riesce a ben descrivere la band, all’insegna della serendipità.
Come spesso accade quando si parla di NWOBHM, è la Neat Records di Dave Wood, proprietario degli Impulse Studios di Newcastle, la prima a mettere gli occhi sulla formazione pubblicando il singolo “Don’t Touch Me There“. Subentra la MCA che annusa la stoffa dei campioni, escono altri singoli e poi il primo full-length: “Wild Cat” (agosto 1980). In una sola settimana il disco raggiunge la posizione numero 18 delle charts inglesi, niente male (alla fine le copie vendute saranno tra le 200.000 e le 250.000). L’album è un ruggito di battesimo di tutto rispetto, introdotto da un artwork meraviglioso che da solo invoglia all’acquisto. Dentro: 10 tracce, 5 per lato (vinilico), che si fanno gradire subito, dal primo ascolto, con punte di aggressività elettrica che tagliano le carni. Jess Cox è una voce ruvida, attaccabrighe e sorniona, non troppo duttile ma riconoscibilissima, perfetta per “Wild Cat”, album altrettanto ruvido, attaccabrighe e sornione, grezzo ma terribilmente efficace. Durerà al microfono solo per questo disco – separazione per divergenze artistiche – lasciando il posto a Jon Deverill a partire da “Spellbound”. Tra l’80 e l’81 fonda i Lionheart con i quali però non pubblica niente, mentre dà alle stampe come solista un album chiamato “Third Step”. Più in là, passata la golden age della NWOBHM, erediterà la gestione proprio della Neat, accanto alla label da lui fondata, la Edgy, che per qualche tempo recupererà un po’ di vecchie glorie britanniche e offrirà loro una seconda chance (Blitzkrieg, Gaskin, Holocaust, Witchfynde) prima di chiudere i battenti nel 2004 dopo neanche un decennio di attività. Cox sta ai Tygers un po’ come Di’Anno sta agli Iron Maiden, anche se – detto tra di noi – la mia preferenza va a Jon Deverill. Checché ne dicano i sorcini della sirena maideniana, in Bruce non sento echeggiare la classe, l’armonia e l’eleganza sfoggiata da Deverill, nonostante la carriera più breve ed un numero assai inferiore di album pubblicati da quest’ultimo. Ça va sans dire, Dickinson è ovviamente un signor cantante, si tratta solo di gusti personali.
II – Tre anni intensi
Nell’estate dell’80 i Tygers sono in tour con Magnum, Saxon, Scorpions, Def Leppard e Iron Maiden, per dire. Al rientro in studio Weir si convince che, come in quelle grandi band con cui ha suonato, ci vuole un secondo chitarrista. Eccolo, si chiama John Sykes e proviene dagli Street Fighter, una cover band dei Thin Lizzy. Jon Deverill invece arriva dai Persian Risk di Cardiff (nei quali milita un paio d’anni senza lasciar traccia). E’ la quadratura del cerchio, la formazione da qualificazione alla fase finale dei Mondiali. Aprile 1981, esce “Spellbound”, prodotto da Chris Tsangarides, l’album perfetto, riconosciuto ed acclamato come tale da pubblico e critica (le vendite si attestano leggermente al di sopra di “Wild Cat”). “Gangland” è un attacco furioso, un assalto all’arma bianca, una scarica di adrenalina che risuona prepotente anche ai piani alti della NWOBHM, tant’è che se rallentate un po’ il main riff e lo mettete al posto di quello di “Two Minutes To Midnight”… Ogni pezzo sta al posto giusto e dice la cosa giusta, con perle assolute come “Hellbound”, “Tyger Bay”, “The Story So Far”, “Slip Away”. Bellissima anche l’intensa ballad “Mirror” (con un finale in crescendo carico di tensione). Metal e hard rock scorrono nelle vene anglosassoni delle Tigri, le quali raffinano poderosamente la ricetta di “Wild Cat” maturando in maniera impressionante nell’arco di pochi mesi e trovando in Deverill il frontman ideale (qui ancora troppo aggressivo per esprimersi a pieno potenziale).
La MCA ha capito cosa ha per le mani e, anziché mandare la band in tour a raccogliere consensi, li schiaffa in studio di registrazione, con un countdown di 3 settimane per ricavare un immediato successore di “Spellbound”. Capitalizzare è la parola d’ordine. Novembre 1981, appena 7 mesi e i Tygers sono di nuovo nell’arena, tra gli scaffali dei negozi di dischi con un altro album da offrire in pasto alle masse (che risponderà con circa 100.000 copie acquistate). La copertina di “Crazy Nights” cita King Kong, ma è il tigrotto-mascotte dei ragazzi a prendersela con gli aerei in stile Barone Rosso (anzi tigrato). L’opener “Do It Good” è uno dei classici indiscutibili della band e tutto sembra promettere un nuovo capitolo di storia del rock inglese in formato 33 giri. In effetti la scaletta scivola via come olio mettendo in fila “Love Don’t Stay”, “Never Satisfied”, “Running Out Of Time”, e la facciata A del vinile è andata alla grande. I 5 pezzi sul lato B – tra i quali è compresa anche la title track – pur essendo assolutamente gradevoli, evidenziano invece un calo di mordente, motivato dalla pressione e dalla fretta a cui la band è stata sottoposta, spedita e allucchettata in studio dalla MCA per ottenere un nuovo Graal in tempi record. La conclusiva “Raised On Rock” perlomeno chiude all’insegna di un up-tempo su di giri e balzellante.
Terminate le registrazioni lo stress è palpabile, Weir non gradisce affatto la produzione, troppo molle e penalizzante per la batteria, e ci si mette anche Ozzy Osbourne ad interferire, convocando Sykes per un’audizione (che non avrà mai luogo ma sarà sufficiente ad interrompere la collaborazione con i Tygers). Il tempo è tiranno, sempre; un tour in giro per l’Europa incombe e un chitarrista manca all’appello. Viene reclutato Fred Purser dai Penetrator, il quale – povero Cristo – impara le parti in quattro giorni e salpa con la band. Agosto 1982, mentre l’Italia si gode il terzo meritato titolo calcistico, i Tygers approdano al quarto album, stavolta più meditato. Anche troppo secondo Weir, il quale suona più per dovere che per piacere. La MCA continua a dettar legge, imponendo un alleggerimento del sound in direzione più radiofonica, fruibile da un pubblico non necessariamente avvezzo alle borchie, qualcosa di più malleabile e commerciale. I Tygers eseguono, ma a modo loro, ovvero un album più leggero, AOR oriented ma non per questo qualitativamente inferiore ai precedenti, anzi. In molti vi diranno che “The Cage” è il passo falso dei Tygers, il loro disco da tralasciare del poker iniziale, il più compromesso.
“The Cage” è il disco giusto della band (forse) sbagliata, ovvero un album splendido paradossalmente “penalizzato” dal monicker stampato in copertina (e non viceversa). Se lo avesse pubblicato una band sconosciuta sarebbe probabilmente stato accolto con pieno merito, ma per i Tygers risultò troppo debole a livello di intensità e aggressione “strutturale”. Un lavoro a mio parere eccellente ma accettato col mal di pancia dai fans poiché sensibilmente diverso rispetto alla matrice a cui la band aveva abituato il proprio popolo. Questo però non rende un disco scadente, semmai mette in evidenza i limiti della fan-base.
III – I Tygers di Deverill e quelli di Weir
“The Cage” è elegante, grandioso, melodico oltre misura eppure mai zuccheroso (eccezion fatta per “The Actor”, canzone molto significativa in chiave Jon Deverill….). Ci sono le tastiere, c’è una produzione addomesticata, ci sono chitarre che magari non graffiano ma che cesellano come il più sublime degli scultori. Il songwriting è semplicemente splendido. Eppure Weir non la pensa così se a distanza di oltre 30 anni dal vivo non ama riproporre questo repertorio (al limite dedica un passaggio a “Love Potion No. 9”). La copertina pare profetica, la tigre è ingabbiata, domata. Nonostante le vendite discrete (200.000 copie) la MCA marca stretto i Tygers, vuole ancora più alleggerimento. “Rendezvous” degli RPM, “Love Potion No. 9” dei The Clovers (che insieme “Danger In Paradise” vede Sykes in veste di special guest) e “Paris By Air” scritta dal compositore Steve Thompson non sono abbastanza, la label vuole più input esterni. I Tygers stanno scrivendo il quinto album e mirano alla rescissione del contratto, ma il fardello economico è tale che nessun’altra etichetta si rende disponibile a rilevare la band dalle grinfie della MCA, e il gruppo si sfalda in preda alla disperazione.
Tutte queste ingerenze non possono che far collassare la formazione, che infatti si spezza in due tronconi, Weir e Dick da una parte (nei Sergeant) e i restanti dall’altra. Weir racconta che, un po’ vigliaccamente, gli fu riferito da Rocky che era stato deciso che lui e Brian avrebbero dovuto lasciare i Tygers per problemi di… altezza, essendo i due più bassi, e quindi influendo negativamente sulla media dei centimetri. Weir dice di averla presa a ridere, pensando che si trattasse di uno scherzo, salvo poi dover effettivamente rendersi conto che, per un motivo o per un altro, non era più gradito nella band che lui stesso aveva fondato. I Sergeant registrano un album di debutto che non viene pubblicato (sembrava dovesse occuparsene la CBS ma Weir litiga pure con i nuovi band mates e va tutto a monte). Il materiale viene descritto come bluesy hard rock alla Y&T. Qualcosa si rimette in moto quando nel 1985 Cox si rifà vivo con Weir e i due collaborano al progetto Tyger Tyger. Anche questo però naufraga, Weir si stufa della musica e la abbandona (temporaneamente). Nel frattempo i diritti del marchio Tygers sono detenuti dal vecchio manager della band, che si affida a Jon Deverill, divenuto il nuovo leader tigrato. Insieme con Steve Lamb, scippato ai Sergeant, e Brian Dick, il singer pubblica “The Wreck-Age”, inseguendo lo stile radiofonico intrapreso con “The Cage”, e soprattutto inseguendo band come i Def Leppard. La Music For Nations mette sul mercato il platter nell’estate dell’85. A produrre c’è Phil Harding (Erasure, Bananarama, Rick Astley, Depeche Mode, Pet Shop Boys, Kylie Minogue, Matt Bianco, Dead Or Alive, Eight Wonder, Diana Ross… ci siamo capiti no?).
Se “The Cage” era sembrato un passo troppo oltranzista in direzione del pop, “The Wreck-Age” è un affondo drammatico in tal senso. Deficita largamente di un songwriting convincente, l’alchimia dei Tygers (’80 – ’82) è un mero ricordo. Deverill fa il bello ed il cattivo tempo, calibrando le sonorità sulla propria voce (e del resto ha largo merito per “The Cage”), ma non può bastare un cantante eccelso a far vivere un album, ci vuole anche una buona scrittura. “The Wreck-Age” riluce di pochi episodi memorabili (“Women In Cages” è una gemma, la title track ha grinta), rivelandosi nel complesso deludente. Le tastiere riempiono ogni spazio, l’AOR è più prepotente e preponderante che mai, eppure il successo commerciale non arriva. I Tygers cambiano anche logo, ma il nuovo inizio sembra già il preludio della fine. A Deverill va il merito di non essersi dato per vinto, due anni dopo insiste testardamente con “Burning In The Shade” (Zebra Records) e con una formazione ufficiale oramai ridotta a trio (Lamb e Dick in pianta stabile, e Steve Thompson, già in “The Wreck-Age”, declassato ad “ospite”). Deverill si gioca il tutto per tutto, spingendo persino oltre la mutazione rock dei Tygers. Il disco è inaccettabile per i fans cresciuti con “Wild Cat” e “Spellbound”, una reazione più che comprensibile, questi Tygers sono l’ombra di quelli con Robb Weir, eppure – a mio parere – “Burning In The Shade” non è un lavoro malvagio, sicuramente preferibile a “The Wreck-Age”. Nel suo essere così azzardato e coraggiosamente oltre il metal, emana un suo fascino che perlomeno sul sottoscritto ha sempre fatto presa (in maniera similare ai Diamond Head di “Canterbury”, per dire). Evidente come la band non potesse realisticamente proseguire su una strada simile senza cambiare radicalmente e definitivamente il proprio DNA. Il responso del pubblico è maestro e la sentenza è: i Tygers devono morire.
Tra i nomi che si fanno per sostituire Bruce Dickinson nei Maiden c’è anche quello di Deverill, così come avrebbero avuto luogo provini per entrare nei Victory e nei Tokyo Blade. Dicerie, verità? Di sicuro sappiamo che Deverill si trasforma in Jon De Ville e come tale diventa un attore di teatro. Esiste un suo profilo Facebook le cui foto “alla Rupert Everett” sono abbastanza forti per chi ama ricordarlo come il cantante dei Tygers. Meanwhile… al Wacken Open Air Festival del ’98 Jess Cox si esibisce con membri dei Blitzkrieg cantando alcuni pezzi del repertorio di Pan Tang. La risposta del pubblico è incoraggiante. Un anno dopo, nella ricorrenza del ventennale di “Wild Cat”, le tigri vengono convocate ancora al Wacken, anche se di quella formazione presenziano i soli Cox e Weir. Sull’onda dei riconoscimenti ricevuti, Weir riprende le redini della sua creatura e nel 2001, come unico membro originario, riforma ufficialmente i Tygers. Il resto è storia, più o meno nota, arrivano altri sei full-length, dei quali gli ultimi quattro in ordine di tempo con Jacopo Meille alle vocals, anche se storia e tradizione stilistica della band vengono un po’ riviste dal chitarrista. Il Weir odierno mostra di preferire un approccio più rock blues, ma comunque di sicuro non compromesso con il pop, con l’AOR e con produzioni sperimentali troppo eterodosse per il brand Tygers Of Pan Tang.
Discografia Relativa
- 1980 – Wild Cat
- 1981 – Spellbound
- 1981 – Crazy Nights
- 1982 – The Cage
- 1985 – The Wreck-age
- 1987 – Burning In The Shade