Un guitar-working serratissimo ed inconfondibile. Un frontman tarantolato. Proclami di rivolta politica e sociale. Aperture melodiche fragorose, in contrappunto ad una tensione sempre in sospeso. Il fiorire di venature funky. L’appartenenza alla strada, alle sue regole ed ai suoi codici. Un’integrità mai venuta meno. La bandana incollata sulla fronte ad altezza occhi. Questi sono solo alcuni dei tratti distintivi di una band più unica che rara, la cui traccia indelebile lasciata in quella zona di confine tra hardcore e heavy metal restituisce un preciso identikit: esatto, non può che trattarsi dei Suicidal Tendencies! Sotto la lente di ingrandimento gli anni legati al contratto con Epic Records… ma anche un po’ prima ed un po’ oltre.
Contenuti:
1. Colori di guerra (1982 – 1983)
2. Crossover! (1984 – 1988)
3. Epic-ness (1989 – 1992)
4. Cyco Miko lives on (1994 – 2016)
1 – colori di guerra
Non era iniziata benissimo l’avventura dei Suicidal Tendencies, osteggiati sin dal nome per via dell’ambiguità sulle “tendenze suicide” che la band avrebbe favorito o persino incoraggiato, marchiano errore di valutazione poiché Muir e soci hanno più volte chiarito che così non era e che le tendenze suicide erano semmai quelle da addebitare alla società, votata all’autodistruzione e all’estinzione per via di logiche insensate e comportamenti autolesionisti all’insegna di avidità e stupidità. Fatto sta che nell’anno della loro nascita (1982) i Suicidal Tendencies vengono già poco elegantemente bollati come “il peggior gruppo musicale esistente” dalla rivista Flipside. Non c’è simpatia verso il gruppo poiché si ritiene che i suoi membri afferiscano a delle gang criminali della zona di Venice Beach. L’ostentazione di bandane colorate (blu come quella dei Crips) e del numero 13 sarebbero segni di riconoscimento del patto scellerato con le gang, espressione di violenza, illegalità e sopraffazione. Praticamente la sceneggiatura di Colors di Dennis Hopper (il cui teatro è proprio Los Angeles) tradotta in musica. Si narra che ad uno dei primi concerti dei Suicidal ci sia scappato un morto, un ragazzo, ma non saprei dire quanto ciò appartenga alla leggenda metropolitana o alla cronaca reale, e soprattutto quanto un eventuale colpa sarebbe da imputare alla band, che evidentemente suonava sul palco e non si aggirava in mezzo al pubblico brandendo coltelli a serramanico. Se non si trattava di Colors, allora era un film di Scorsese, comunque nulla che avesse a che fare con la musica. Sui Suicidal se ne sono dette tante, ad esempio che la loro vera base di provenienza fosse in realtà un altro sobborgo di Los Angeles anziché Venice, oppure che Muir provenisse dall’ambiente infiocchettato del college piuttosto che del barrio criminale, e che conseguentemente l’attitudine spicciola e stradaiola dei Suicidal fosse più un’astrazione a tavolino che una patente genuina. Come se tutto ciò avesse la minima importanza o connessione con la musica e le endorfine che è in grado di liberare.
A dispetto dei detrattori, la band comincia ad accumulare immediatamente un proprio seguito, i concerti riscuotono attenzione e già nell’82 i Suicidal incidono un demo e partecipano ad una compilation (“Slamulation” per Mystic Records) con “I Saw Your Mommy”, una anthem che diverrà tra le loro canzoni più famose e rappresentative, e che infatti comparirà anche nell’omonimo debutto discografico dell’83 per Frontier Records (non la label partenopea ovviamente ma quella losangelina specializzata in punk hardcore). Questa prima fase è all’insegna del ricambio continuo di musicisti; Muir è il punto fermo. Da peggior gruppo musicale esistente a band capace di creare un album “veloce, furioso e divertente” è un attimo. Muir ruba la scena, per i suoi testi diretti e rivoltosi e per la sua carica di adrenalina on stage, una specie di ossesso tarantolato che non dà tregua né al pubblico né a se stesso finché la macchina da guerra alle sue spalle ha i jack infilati negli amplificatori. Quel frontman possente canta si distingue da subito per la carica di disagio, alienazione, pessimismo e litigiosità dei testi, un underdog americano reietto e riottoso. Lo stesso artwork dell’album non gioca con l’ambiguità, è un bel cazzottone diretto sui denti. Se gli anni ’80 rappresentano l’edonismo reaganiano, il benessere e l’effimero, i Suicidal stanno all’estremo opposto. La terza traccia in scaletta è non a caso “I Shot Reagan” (il cui titolo poi viene forzatamente cambiato in “I Shot The Devil”), ma è con “Institutionalized” che i Suicidal fanno il botto, uno dei primi videoclip hardcore ad avere successo nel mainstream, ovvero MTV. Pezzi come “Fascist Pig” o “Two Sided Politics” non la mandano a dire e collocano la band nell’alveo della trincea militante.
II – Crossover!
Trascorre un tempo infinito prima che i Suicidal approdino al secondo album e questo perché Muir finisce agli arresti domiciliari, interdetto per quattro anni dal poter incidere musica. Il silenzio della band diffonde la convinzione che sia sopraggiunto uno scioglimento ma è solo uno stop obbligato, subito. Le amicizie “pericolose” che sono girate intorno alla formazione hanno creato da sempre zone d’ombra e problemi, come quando nel ’91 alla band fu persino impedito di esibirsi nella propria città, tale era il rischio di sedizione. Tuttavia nel 1987, scontati i quattro anni punitivi, i Suicidal tornano con “Join The Army”. Hanno abbassato la cresta? Manco per sogno, anzi più che lasciare hanno raddoppiato, in furore e contrapposizione. Alla line-up si sono aggiunti Rocky George e R.J. Herrera, rispettivamente chitarra e batteria, due subentri che si riveleranno esiziali per la storia dei Suicidal poiché, assieme a Muir, sarà proprio il loro contributo a connotare le pagine più importanti della band e a delineare il modo e lo stile con il quale i Suicidal verranno ricordati e celebrati anche a distanza di decenni. E’ la Caroline Records che si assicura le stampe del disco, la cui copertina rimane indimenticabile (il Rambo ha le fattezze vagamente riconducibili a Mike Muir, è la versione sciancata dello zio Sam secondo i Suicidal). “Join The Army” è già una svolta per la band. Il pubblico degli esordi storce la bocca per l’iniezione sin troppo vistosa di thrash metal, la purezza hardcore appare compromessa e i maggiori indiziati sono George e Herrera. Chi invece apprezza mette a fuoco che già da questi solchi emergono dei classici del repertorio Suicidal come “War Inside My Head” e “Possessed To Skate”, ma “Suicidal Maniac”, “You Got, I Want” o la title-track non sono affatto da meno. Un album agguerrito, attaccabrighe, col colpo in canna, adrenalina pura che non fa prigionieri. Si comincia a parlare apertamente di “crossover”, i Suicidal hanno il piede in due staffe, “attraversano” perlomeno tre generi, hardcore, metal e punk. Con un tale biglietto da visita, Muir e compagni hanno praticamente la strada spianata, si sente il profumo del talento, il potenziale, successo e gloria.
La line-up sale da quattro a cinque elementi con l’ingresso del chitarrista Mike Clark dai No Mercy, progetto parallelo ai Suicidal nel quale milita Muir. Con il suo apporto, in sinergia con George, la band si sposta convintamente sul versante thrash, senza rinnegare le radici thrash ma anzi bilanciando gli ingredienti attraverso una miscela incendiaria. “How Will I Laugh Tomorrow… When I Can’t Even Smile Today” (1988) se lo aggiudica addirittura la Epic, grazie all’intercessione di Mark Dodson, produttore degli Anthrax. L’abbandono dei follower hardcorers integralisti è direttamente proporzionale all’acquisizione dei metalkids che trovano nei Suicidal Tendencies un gradevolissimo diversivo all’ortodossia della borchia. Il songwriting cresce e si arricchisce diventando sempre più ricco ed elaborato. Nonostante l’impronta thrash, Muir mantiene un approccio che sa farsi assai melodico all’occorrenza, contribuendo a creare uno dei trademark principali della band, quel gusto dolceamaro fatto di contrasti, aggressività mista ad una dolcezza quasi appiccicosa, con la seconda che d’improvviso sopraggiunge a stemperare il climax della prima. La title-track dell’album ne è un esempio eclatante, ma quello schema si ripeterà mille volte d’ora in poi, ad esempio anche nella canzone forse più celebre di tutta la discografia dei Suicidal, “You Can’t Bring Me Down”, nella quale circa a metà i californiani si sciolgono in acqua e zucchero, mentre carsicamente continua a scorrere una tensione pazzesca. Una sorta di formula ossimorica alla “ghiaccio bollente” che non può lasciare indifferenti. “How Will I Laugh Tomorrow” ha una scaletta pazzesca, da “Trip At The Brain” a “Hearing Voices”, da “Pledge Your Alliance” a “Surf And Slam”; un disco manifesto del 1988 che non teme rivali e che rimane scolpito nella storia del rock elettrificato persino a 30 e passa anni di distanza. Iconica la copertina che ritrae la band davanti alla cattedrale di Santa Sofia a Los Angeles, una dichiarazione di appartenenza. Altro distintivo tratto di riconoscimento è il guitar working fatto di riff serratissimi che intrappolano come tela di ragno l’ascoltatore, la sensazione è proprio quella di avere le ganasce alle gambe, non c’è scampo, si è in balia dei Suicidal… ed è la più auspicabile delle “torture”.
III – epic-ness
I Suicidal hanno appena raggiunto il loro picco creativo e in questa manciata di anni pubblicano album a nastro per non perdere neppure una nota del loro songbook, letteralmente “devono”. Ecco che già nel 1989 arriva “Controlled By Hatred/Feel like Shit… Deja Vu”, un Ep dalla durata molto estesa di quasi 40 minuti (mascherato come la somma di due) che contiene un paio di inediti, “Just Another Love Song” e “Feel Like Shit… Deja-Vu”, insieme a delle cover che in realtà appartengono sempre al medesimo calderone dei Suicidal, poiché si tratta di Los Cycos e No Mercy, ovvero altre band di Muir il cui repertorio viene recuperato e riproposto col marchio Suicidal. Ne esce fuori un ulteriore album imperdibile per ogni fan della band che si rispetti. Sono Rocky George e Mike Clark ad alternarsi al basso, contrariamente alla diceria popolare che Robert Trujillo fosse già presente in formazione a quest’altezza, dovuta al fatto che effettivamente il bassista divenne un membro del gruppo immediatamente dopo il completamento del disco ed appare anche nei video di “Waking The Dead” nella versione alternativa di “How Will I Laught Tomorrow” (la cosiddetta “heavy emotion”, ovvero acustica). L’album diventa il primo disco d’oro dei Suicidal. Il gruppo saluta l’entrata del nuovo decennio con una pietra miliare che verrà poi marchiata da più parti come il loro lavoro migliore e più importante, “Lights…Camera…Revolution”. Trujillo è ora formalmente integrato nella band e al crossover thrashcore testimoniato sin qui si aggiunge una notevole vena funky, evidentemente proprio grazie all’apporto di Trujillo. Il disco consente ai Suicidal di penetrare nel circuito più mainstream raggiungendo un enorme livello di popolarità e diffusione. “You Can’t Bring Me Down” esplode in radio ed in tv, e diventa il manifesto della rivolta, di ogni rivolta (“I ain’t happy about it, but I’d rather feel like shit than be full of shit […] but here’s my apology and one more thing… fuck you!“). “Lights…Camera…Revolution” è un disco perfetto dall’inizio alla fine, con spunti funky (“Send Me Your Money”), con riff talmente stretti che non ci passa la capocchia di uno spillo (“Lost Again”, “Lovely”), con la rivoluzione in corpo (“Give It A Revolution”), con il metronomo a manetta (“Disco’s Out, Murder’s In”), con l’indole sorniona (“Emotion No. 13”), tuttavia a mio gusto personale rimane un gradino sotto “How Will I Laugh Tomorrow”, per quanto mi riguarda il vero capolavoro assoluto e totale dei Suicidal. Con questo album la band andrà in tour di supporto ai Queensryche, una delle accoppiate più strambe partorite dai primi anni ’90, e presenzia anche al festival picchiaduro Clash Of The Titans, con Slayer, Megadeth e Testament (passato anche per l’Italia), segno che i Suicidal sono stati ampiamente accettati nel circuito thrash più accigliato (sebbene, al contempo, qualche fan della decade antecedente li accusasse apertamente di tradimento).
Così come assieme a Clarke Muir aveva ulteriormente espanso il suo interesse verso l’hardcore grazie ai No Mercy, ora si lascia portare da Trujillo nei lidi più apertamente funky, complice proprio il fenomeno del funky metal, durato un batter d’occhio ma che nel 1991 ebbe il suo anno d’oro con uscite come “In This Life” (Mordred), “The Confident Rat” (Ignorance), “Sailing The Seas Of Cheese” (Primus), “Attack Of The Killer B’s” (Anthrax), “About Time” (Scat Opera), “Scamboogery” (Scatterbrain), il debutto omonimo dei MindFunk, dei White Trash e anche quello degli Infectious Grooves, a tutti gli effetti una versione più light, scanzonata, alternativa e ovviamente funky dei Suicidal Tendencies. Oltre a Muir e Trujillo in formazione ci sono anche Stephen Perkins dei Jane’s Addiction e Adam Siegel degli Excel. Intanto Herrera è giunto al culmine del suo apporto alla band, dapprima dall’hardcore al thrash ed ora dal thrash al funky, all’alternative metal e persino a punte di progressive e psichedelia (basta aspettare il 1992 con “The Art Of Rebellion” per rendersene conto). Herrera evidentemente non si riconosce più nella visione della band, andata troppo oltre. Viene sostituito dal turnista John Freese dei The Vandals, mentre per il tour arriverà Jimmy DeGrasso. Il quinto titolo del gruppo è il suo parto più ambizioso poiché il più vario, sperimentale e dinamico a livello di songwriting, nonché il più lungo con i suoi 58 minuti. Sfidante verso un pubblico non sempre altrettanto elastico e open minded. Ciò nonostante, “The Art Of Rebellion”, provocatorio sin dalla copertina, si rivela il successo commerciale più fortunato della band, terzo disco d’oro consecutivo, un traguardo raggiunto anche grazie al traino del biennio precedente, che ha spinto molto la vendita di un disco che in realtà, a suo modo, si è rivelato abbastanza divisivo in seno alla fan-base della band. La scelta del singolo “Asleep At The Wheel” è coraggiosa perché la canzone suona parecchio diverso dai “tipici” Suicidal, tuttavia è splendida e per fortuna in molti lo capiscono. La produzione del disco (affidata a Peter Collins) non mi ha mai fatto impazzire, troppo asettica e cristallina per una band stradaiola e sudaticcia come i Suicidal, ma sul materiale in sé nulla da eccepire, è pura sublimazione del colorato e cangiante multiverso Suicidal.
“The Art Of Rebellion” si rivela un album talmente esigente per le energie della band che l’anno successivo i Suicidal si “limitano” a riproporre l’album di esordio risuonandolo per intero con l’aggiunta di tre tracce (due nuove versioni di canzoni di “Join The Army” e la b-side del singolo “You Can’t Bring Me Down”). “Still Cyco After All These Years” intende testimoniare che i Suicidal sono “still cyco”, ancora fedeli alle radici, benché vengano accusati sistematicamente del contrario dai primi ’80 in poi. Ed è vero che i Suicidal sono sempre loro, che non si sono affatto snaturati, così come è altrettanto vero che chi pretendeva solo e soltanto l’hardcore del 1983 non poteva che rimanere deluso. Per insistere su questo ritorno alle “roots, bloody roots” la band pubblica “Suicidal For Life” nel ’94, un disco che in qualche maniera è una forma di suicidio. Incaponitisi nel voler essere riconosciuti e riassegnati all’underground dopo aver ricevuto (e cercato) ogni onorificienza possibile nel mainstream, i Suicidal tentano una inversione a U clamorosa ed un po’ grossolana che scontenta tutti. Quattro canzoni consecutive in scaletta con la parola “fuck” nel titolo, atmosfere decisamente più aggressive, Muir molto più focalizzato e “minimal”, con l’intenzione di produrre un lavoro per pochi, gli eletti, i fedeli, i fratelli di bandana. Tutto si può dire ai Suicidal del 1994 tranne di voler lisciare il pelo al proprio family banker. Va anche tenuto conto che quello della metà degli anni ’90 è un periodo di stravolgimento totale per il metal e per il rock in generale, ed in qualche misura devono averne risentito anche delle teste calde come i Suicidal. L’album vende maluccio e l’unico videoclip estratto da quella scaletta, “Love Vs. Loneliness” (una ballad), non viene affatto apprezzato né aiutato dalle radio. Ovviamente si conclude anche il contratto con Epic. Peccato perché ad ascoltarlo “Suicidal For Life” ti entra in vena e non ti lascia più.
IV – Cyco Miko lives on
I Suicidal vanno ufficialmente in stand by, gli Infectious Grooves proseguono a pubblicare album e Trujillo entra pure alla corte di Ozzy Osbourne. Rocky George girovaga dai Samsara ai Cromags, fino ai Fishbone. Lo sforzo creativo di questi anni ed in particolare dell’ultimo album ha prosciugato la band che ha sentito l’esigenza quasi di ripartire da capo. Lodevole il tentativo di non cullarsi sugli allori e di rimettersi in discussione ma la vena creativa ne ha risentito e la produzione dei Suicidal conosce un sensibile calo, oltre ad un andirivieni incessante di musicisti che sostanzialmente diventano dei turnisti al servizio di Mike Muir. Trujillo passa in forze ai Metallica, col senno di poi una scelta incomprensibile da un punto di vista artistico, poiché ai Metallica non serve un bassista come Trujillo, non sanno come impiegarlo e Trujillo dal canto suo non incide in alcun modo sulla musica dei Metallica se non per qualità esecutiva e perizia strumentale. Un passo spiegabile solo dal punto di vista del conto in banca e del (reciproco) feedback mediatico. “Suicidal For Life” è l’ultimo titolo che vede ancora insieme l’ensemble dorato fatto da Muir, George, Clarke e Trujillo, ed in fondo è ancora un album di pregio, magari al di sotto delle aspettative ma sempre incazzato da morire. Poi trascorre un intero lustro e il marchio Suicidal si ripresenta sulle scene nel 1999 con “Freedumb”, a detta di molti la peggior prova discografica del combo losangelino (ma non è vero neanche questo, ha i suoi momenti). Clarke ancora resiste accanto a Muir ma per il resto la formazione è rivoluzionata, così come il sound, lontano dal funky crossover degli anni con la Epic. I Suicidal sono tornati nel ghetto, sono arrabbiati e frustrati, senza la minima intenzione di appendere gli strumenti al chiodo. Non tutto quanto verrà pubblicato nel primo ventennio del nuovo secolo e millennio è da buttare o trascurare, c’è del buono in “Free Your Soul And Save My Mind” (2000) – il titolo forse più vicino al periodo di “Lights…Camera…Revolution” e “The Art Of Rebellion” – in “13” (2013) e in “World Gone Mad” (2016), album che ospita addirittura Dave Lombardo alla batteria (che li accompagnerà pure in tour). Singole canzoni qua e là fanno baluginare ancora scintille dei Suicidal più gloriosi, il vigore non viene meno e neppure l’integrità della band, tuttavia nel complesso l’asticella si è abbassata, la band ha decisamente il fiato più corto, ha poco da aggiungere a quanto già detto e scolpito nella pietra a futura e sempiterna memoria. Muir dal vivo è sempre generoso ma i suoi muscoli, le sue giunture ed i suoi polmoni devono scendere a patti con le 50 ed oltre primavere accumulate. I Suicidal sono stati una realtà unica dalla personalità gigantesca, un fiore di pregio in un bouquet che in quegli anni tra funky, hardcore e metal ha regalato tanta musica eccellente e moltissime band, tutte in sintonia con i Suicidal Tendencies ma nessuna capace di raggiungere lo stesso zenit maestoso.
Discografia Relativa
- 1988 – How Will I Laugh Tomorrow… When I Can’t Even Smile Today
- 1989 – Controlled By Hatred/Feel Like Shit… Deja Vu (EP)
- 1990 – Light… Camera… Revolution
- 1992 – The Art Of Rebellion
- 1994 – Suicidal For Life