C’è chi li relega solo a “prima band di Axel Rudi Pell”, chi li conosce per l’omonimia con il gruppo di un altro guitar hero (un certo Malmsteen….), chi non ha mai digerito la svolta troppo americana e chi l’ha bocciata perché non abbastanza americana. In poche parole: la sfiga incarnata. Anzi, gli Steeler.
Contenuti:
1. Batti l’acciaio (1978 – 1984)
2. Poligoni tedeschi (1985)
3. Passaporto per gli Usa… forse (1986 – 1988)
4. Now and then
1 – Batti l’acciaio
Bochum è situata nel cuore dell’Europa. E’ una cittadina che non raggiunge (oggi) i 400.000 abitanti e che, pur con il suo passato di snodo minerario e l’odierna propensione come centro di servizi e luogo di lavorazione dell’acciaio, non si è mai distinta per alcunché di particolare. Una di quelle sonnacchiose bandierine sulla carta geografica della Germania che nessuno si ricorda di mettere quando c’è da pianificare una vacanza tra le meraviglie culturali, architettoniche e paesaggistiche di Monaco, Berlino, Norimberga, Colonia e la Schwarzwald. Nel 1978 nei localacci operai di Bochum si esibiscono i Sinner, fondati da Axel Rudi Pell e Volker Krawczak. Per la verità i peccatori che suonano rock ‘n’ roll nei bar sono ben due, tant’è che una delle due band pensa bene di cambiar nome. L’acciaio, come detto, ha un suo ruolo nello sviluppo economico della zona e così, un po’ per assonanza con esso un po’ per mettere in chiaro sin dal monicker cosa si sarebbe dovuto aspettare (l’ipotetico) pubblico, questi Sinner si trasformano in Steeler, lasciando al buon vecchio Matthias Lasch (aka Mat Sinner) il dominio incontrastato del Peccato.
Prima che le cose si facciano serie trascorrono un bel po’ di anni. Dal cazzeggio senza velleità ai primi contatti con una casa discografica passa quasi un decennio. E nell’81 in America compaiono gli Steeler di Yngwie Malmsteen e Ron Keel, ma internet e i social network sono ancora lungi dall’invasione globale, pertanto gli Steeler(s) possono tranquillamente coesistere di qua e di là dall’Oceano nella reciproca e beata inconsapevolezza. Nel 1984 i tedeschi sono alle prese con la registrazione dell’album di esordio, finanziato dalla Earthshaker, piccola label regionale che avrà il suo picco commerciale (si fa per dire) nel biennio ’84-’85 pubblicando, tra gli altri, lavori di Living Death, X-Mas Project ed uno split con gli Holy Moses. Alla consolle in qualità di produttore c’è Axel Thuneauville, il boss dell’etichetta (tra gli ’80 e i ’90 executive anche per Massacra, Crystal Viper, Thanatos, Virgin Steele, Warlock, Elegy, At-Vance). Nell’82 gli Steeler si erano fatti conoscere con una cassettina demo di quattro tracce; due di quelle canzoni tornano nel debutto omonimo (“Love For Sale”, “Call Her Princess”).
La line up comprende il singer Peter Burtz degli Avenger (ovviamente non i british metallers di Nick Moore – bassista anche dei più fortunati Blitzkrieg – bensì l’embrione dei Rage che annoveravano pure Peavy Wagner in formazione), il batterista Jan Yildiral (anche lui ex Avenger), il chitarrista Thomas Eder (poi colonna portante degli X-Mas Project), l’esordiente ma promettente guitar hero Axel Rudi Pell e l’anonimo Volker Krawczak (che poi Pell porterà con sé nella sua avventura solista, premiandolo per gli “early days” condivisi ai tempi del nucleo primario degli acerbi Sinner). L’album esce e praticamente subito viene ristampato dalla Mausoleum.
II – poligoni tedeschi
Gli Steeler sono tedeschi in tutto e per tutto, ed il frutto del loro lavoro in sala d’incisione riflette coerentemente il passaporto dei musicisti impiegati. Acciaio teutonico che sul momento spacca, ma che con l’imborghesirsi del metallaro medio, cullato dalla tecnologia galoppante, si guadagna le ingenerose critiche di produzione mediocre e di cantante pencolante. Dietro una copertina banale ed elementare (recante un logo altrettanto basico su sfondo nero) c’è in realtà un debutto accattivante di una band che mastica chiodi. Lasciate perdere le foto sul retro (mamma mia che grezzura….Krawczak pare la controfigura di Weird Al Yankovic in “Fat”, che già è la parodia di “Bad”) e concentratevi sull’assalto sonoro. Nove tracce concrete e massicce, melodiche ma non troppo, taglienti ma sempre incardinate nei sicuri binari heavy metal, senza cedere sui confini né del versante hard rock né di quello thrash, ed una ballad a chiusura (“Fallen Angel”) che alleggerisce il lavoro svolto in fabbrica per tutta la mezzora precedente. La Produzione fa così schifo? Affatto, rispecchia l’epoca di cui è figlia e fa della crudezza e dell’ingenuità due punti di grande fascino. Burtz è un mediocre? Macché! Certo, nel primo album degli Steeler modula molto meno la voce e pialla un po’ le canzoni, ma la grinta c’è e la timbrica da picchiatore pure, tanto basta. Prendete un pezzo come “Sent From The Evil”, con meno turgore e testosterone sarebbe potuta tranquillamente appartenere al songbook dei “romantic metallers” Stormwitch (che lo stesso anno esordiscono con “Walpurgis Night”).
Stessa formazione, stessa label, stesso produttore, stesso logo, copertina ugualmente orrenda, e un anno dopo arriva “Rulin’ The Earth”. Stavolta però a ristampare a livello semi major ci pensa la Steamhammer e non la Mausoleum. Se una critica al suono di un album degli Steeler si deve muovere, andrebbe fatta più propriamente in questo caso. “Rulin’ The Earth” suona leggermente peggio del debutto. Più piatto, forse nel tentativo di addomesticarne l’irruenza il team Axel & Axel (Thuneauville producer e Pell al mixing) ne livella la ruvidezza, caratteristica intrinseca dei primi Steeler. Il songwriting tuttavia è buono, degno prosecutore di quello approntato per l’esordio. La band macina, mastica, stantuffa e combatte virilmente pezzo dopo pezzo, tenendo botta egregiamente. Il disco complessivamente merita, trainato da up-tempos e dalla sfavillante strumentale “S.F.M.1”.
3 – Passaporto per gli Usa (forse)
La Steamhammer acquisisce definitivamente gli Steeler su cui aveva messo gli occhi da un po’. L’idea è lavorare sulla band sgrezzandola e rendendola più matura (leggi: appetibile) per un pubblico dal palato fino. Il potenziale c’è, bisogna lavorare di look e produzione. Nel 1986 esce “Strike Back”, il logo viene rielaborato e reso infinitamente più accattivante rispetto alla versione primigenia. La line-up perde Krawczak e guadagna Hervé Rossi (ritratto in copertina come un avanzo di qualche band hair metal di quarta categoria…ma pure Rudi Pell pare Pamela Anderson). L’artwork è un disegno che fumettizza la band, avvicinandola esteticamente all’hard ‘n’ heavy di stampo dokkeniano. I suoni divengono curati e laccati nonostante il songwriting non sia affatto snaturato rispetto alle asprezze dei precedenti album.
“Chain Gang” è una opener con gli attributi fumanti e assieme ad altre come “Money Doesen’t Count”, “Messing Around With Fire” o “Rockin’ The City” dà la corretta cifra del disco, metallo tedesco, quadrato, una gabbia (di piacere) inespugnabile per i rockers. “Danger Comeback” e la title-track sono due episodi di speed metal da mozzar le teste, e con un sottotesto epicheggiante. “Icecold” fa da contraltare, in qualità di mid-tempo roccioso capace di scomodare i Velvet Viper. “Night After Night” è forse l’episodio spacca casse definitivo del disco, compatto e magnetico. Si chiude con la ballad “Waiting For A Star” (non proprio da pelle d’oca ma in linea con il resto del platter). Tra sangue teutonico (Accept, Scorpions, Warlock) e un po’ di angloamerican vibes nelle corde, gli Steeler “evoluti” continuano a rivelarsi un approdo sicuro per chi vuole mangiare pane e metallo, una centrale elettrica che pompa alto voltaggio, dal produttore al consumatore, senza intermediazioni ed funambolismi inutili. Ad oggi “Strike Back” rimane il titolo di maggior successo nel catalogo del gruppo.
Il parvenue Hervé Rossi dura lo spazio di un album e così come è apparso nella formazione d’acciaio scompare (andando a finire nei metallers della Costa Azzurra, Anthracite, autori del solo “Plus Précieux Que L’Or”). Roland Hag degli Axe Victims prende il suo posto. Steamhammer rimane convinta di aver trovato la gallina (crucca) a cui far produrre uova d’oro (americane) e licenzia “Undercover Animal”, il passo più avanzato e pretenzioso degli Steeler verso il bandierone a stelle e strisce. Il fatto è che i conti non tornano, l’oste è ambizioso. Per quanto gli Steeler siano una band metal con propensioni anche commerciali e yankee, il cuore del loro rock rimane comunque tedesco, trasformarli nei Britny Fox non è un business illuminato, anche se l’ottimo “Undercover Animal” rischia di battere sul loro stesso terreno i pargoli dello zio Sam tutti spandex e capigliature cotonate. Accade così che i fans del metallo maschio storcano la bocca davanti alla (pur minima) glamourizzazione del marchio (il videoclip della ballad “The Deeper The Night” – unico di una intera carriera – non aiuta); così come, sul versante opposto, i meno intransigenti avrebbero preferito un alleggerimento ancora più marcato. Peter Burtz da brutto anatroccolo diventa un leader all’insegna del machismo, la voce perfetta per guidare la fuoriserie cromata che la band gli mette sotto il sedere (con un Axel Rudi Pell neppure poi troppo coinvolto nella stesura dei pezzi). Tirando le somme, il pubblico rimane più scontento che convinto dagli Steeler profumieri e il tour dell’album (di supporto ai Saxon) viene mortificato da interminabili litigi in formazione, evidentemente scossa dalle tensioni esterne.
IV – Now and then
Pell, meno aperto al compromesso con le radio, se ne va per conto suo e nell’89 è già in circolazione il suo primo lavoro solista “Wild Obsession”. Gli Steeler lo rimpiazzano con Vito Spacek (parente di Sissy?) e alle pelli arriva Franco Zuccaroli (nome che poi ritroveremo nell’esordio dei Velvet Viper), ma questa line-up non lascia alcuna testimonianza, rivelandosi un’esangue larva prossima alla morte. L’avventura si conclude nell’89, per gli Steeler Miss Italia (anzi Miss Germania) finisce lì, con quattro album all’attivo, tutti più che discreti ed un potenziale mutilato, lungi dall’essere ancora espresso compiutamente o esaurito. Ne è prova la scoppiettante prima parte di carriera di Axel Rudi Pell (che, come detto, torna a far coppia fissa con Krawczak). Al di là degli scontri caratteriali fra i vari ego della band, rimane agli atti l’intolleranza del pubblico più borchiato nei confronti di un sound che da metà carriera in poi se n’è andato caparbiamente in cerca di melodie più aperte e acchiapperelle. Niente da fare, il rigorismo stoico ha punito gli Steeler. E pensare che band come i Gotthard o i Krokus (ben più azzardate sul versante rock ‘n’ roll) hanno sbancato proprio andando a strappare di forza dalle slot machines di Las Vegas quel sound americano e trapiantandolo tra i pascoli delle mucche della Milka.
Come accade al termine dei migliori film, scopriamo che fine hanno fatto i nostri protagonisti oggi. Pell? Continua a sfornare dischi a nastro (siamo oltre la ventina), non tutti imprescindibili. Krawczak? Lo segue tacca tacca. Burtz? Diventa prima capo redattore di Metal Hammer Germania e poi manager della EMI e produttore di show di successo. Yildiral? Entra nei Darxon, poi fonda una società di organizzazione di eventi e turismo in Florida. Eder? Diventa un giornalista freelance. Hag? Assume la direzione del magazine femminile Neue Post. Al Bang Your Head Festival del 2014 tutti e cinque si sono ritrovati per suonare “Call Her Princess”, “Night After Night”, “Rockin’ The City” e “Undercover Animal”. Tuttavia, nessuna effettiva reunion è all’orizzonte (ancora).