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Sepultura: Eaten Back To Life

BENEATH THE REMAINS OF SEPULTURA

I Sepultura non sono certo l’unica band venuta dal Brasile ma sono quella grazie al quale il Brasile è stato accolto con tutti gli onori nel metal. I ragazzi di Belo Horizonte hanno dato cittadinanza ad un intero movimento, forse non sono stati i primi ma sono stati i più popolari e quando hanno varcato l’Atlantico hanno dato filo da torcere a tutti i continenti, America ed Europa compresi. Da 40 anni sulla scena, tra alti e bassi, il loro curriculim è ricco di album, fatti, aneddoti e punti di svolta. Oggi sono in mano al solo Andreas Kisser, mentre i fratelli Cavallera fanno e disfanno alla perenne ricerca di qualcosa che sembrano non trovare mai compiutamente. Nella speranza che gli Dei dell’Heavy Metal ci scampino e ci liberino da una eventuale reunion, ecco i migliori (e i peggiori) anni della loro vita.

Contenuti:

1. The Cogumelo years (1984 – 1986)
2. Mass Hypnosis (1987 – 1990)
3. Il Caos (1991 – 1993)
4. Radici avvelenate (1994 – 1996) 
5. We who are not as we were (1997 – 2022)

1 – The Cogumelo years

Quante vite artistiche hanno avuto i Sepultura? Tre, forse  pure quattro, parecchie per una sola band, anche considerando i suoi quasi 40 anni di vita. Un po’ come i Metallica, i brasiliani sono passati dalle stelle alle stalle, da eroi planetari del metallo a rifiuti tossici da mandare in discarica. Oggi le quotazioni del marchio Sepultura sono parzialmente in ripresa, l’allure dorato di un tempo è perduto per sempre ma, per come si era ridotto nei primi anni 2000, sicuramente si può parlare di condizioni del paziente in lieve e moderato miglioramento. Ci sono stati anni nei quali bisognava dotarsi di molto fegato e coraggio per ascoltare i loro album e professarsi loro fan, né andava meglio agli scissionisti che avevano deciso di seguire i fratelli Cavalera (Max prima, Igor poi) nelle loro avventure alternative ai Sepultura, alla musica e all’igiene intima; Soulfly e Cavalera Consipracy sono riusciti nella non facile impresa di oscurare in mediocrità persino i Sepultura con Derrick Green alla voce, un traguardo sorprendente. La nascita della band viene registrata dagli archivi notarili di Belo Horizonte a far data dal 1984, il nome lo “inventa” Max riprendendolo da “Dancing On Your Grave” dei Motorhead. Orfani di padre e poveri fino alle ossa, i Cavalera si accompagnano con musicisti amici e coetanei, ma sono costretti ad appoggiarsi ad un batterista “anziano” (Beto Pinga) per il solo fatto che il drumkit è suo. Fino a che non riesce a comprarsene uno proprio, Igor deve rimanere con le bacchette in mano. All’altezza del 1985 il nucleo base della band ha già preso forma, al basso c’è Paulo Jr. e alla chitarra Jairo Guedz; il cantante Wagner “Antichrist” Lamounier se ne va per dissidi e dà vita ai Sarcofago, altra storia. Max passa al microfono. Tra posterini degli Slayer e gigantografie di Olivia Del Rio in sala prove, la band si guadagna il primo contratto nonché il primo briciolo di notorietà a colpi di blasfemia e trasgressione con lo split “Bestial Devastation” assieme agli Overdose (5 tracce per i Sepultura). Dopo un piccolo tour bissano subito con il full-length “Morbid Visions”, un album la cui importanza storica finisce col travalicare di gran lunga il suo effettivo valore. Il disco è particolarmente feroce per gli standard del periodo, l’artwork è in (satanica) continuità con quello di “Bestial Devastation”, i testi parlano di zolfo, zoccoli, corna e fiamme eterne, fuffa diabolica un tanto al kg. In questo momento i Sepultura nutrono una idolatria assoluta per nomi internazionali quali Slayer, Possessed, Venom, Destruction e Celtic Frost, non si va oltre.

Max Possessed, Igor Skullcrusher e Tormentor (Jairo Guedz) stanno cominciando a vivere il sogno, non hanno le idee granché chiare (dal vivo indossano magliette con le svastiche scimmiottando i Sex Pistols) però mordono gli strumenti, hanno fame di musica e successo (birra e ragazze), ma si trovano nel buco del culo del mondo per quanto riguarda la musica heavy metal, l’America Latina. Tuttavia i pionieri prima di essere tali sono sempre gli sfigati della situazione, gli iniziatori di qualcosa (spesso inconsapevoli) lo sono esattamente perché prima di loro quel qualcosa non c’era, il loro merito è aver avviato il motore; un rovescio della medaglia che ai Sepultura probabilmente ancora sfuggiva ma che avrebbe completamente ribaltato la loro esistenza. I Cavalera ne sono ignari ma gli Dei dell’heavy metal – già sufficientemente rintontiti nel 1986 dalle martellate dei Manowar – li hanno designati come novelli portatori del verbo nel sud America, evangelizzatori borchiati delle popolazioni ispano-portoghesi che vivono Oltreoceano, tra favelas, giungla, boa constrictor e finali di coppa Libertadores allo stadio Maracanã. Non che in Brasile nel frattempo i vari Dorsal Atlantica, Ratos De Porão, Holocausto, Sarcofago, Mutilator, Chakal, Lobotomia, Overdose, Vulcano (tutte espressioni della fucina Cogumelo), non abbiano già dato vita ad una scena locale, humus dal quale i Sepultura attingono e che contribuiscono a loro volta a nutrire prima di porsi alla guida della falange di ferro e sbaragliare ogni concorrenza, ma è indubbio che almeno nella vecchia Europa si comincia a sentir parlare del Brasile come di una terra “di fede” intorno al 1987, allorquando si affaccia nei negozi specializzati il vinile d’importazione di “Schizophrenia”, con tutto il peso della sua orrenda eppure irresistibile copertina (secondo i dettami della teoria dell’orrido e del sublime di Edmund Burke). E’ il mondo pre-internet, quello con gli pterodattili e i triceratopi a briglia sciolta. Trasferitisi nel frattempo a São Paulo, dove imbarcano Andreas Kisser (che sarà croce e delizia dei fratelli Cavalera) al posto di Guedz, ci mettono un anno per dare un seguito al primo full-length. A livello stilistico si registra una decisa progressione dal death al thrash metal, ma soprattutto si registra una decisa progressione di qualità, “Schizophrenia” è enormemente più avanti rispetto a “Morbid Visions”, il salto è davvero notevole (ma in buona parte del materiale c’è ancora lo zampino di Guedz). Tutto migliora in appena un anno, il songwriting, il cantato di Max Cavalera, la perizia tecnica, la produzione non molto in verità; se ne accorgono in parecchi visto che l’album riscuote attenzione fino agli uffici newyorkesi della Roadrunner Records (divisione rock/metal della Warner), la quale decide di distribuirlo fuori dai confini nazionali.

II – Mass Hypnosis

“Schizophrenia” ha la sfortuna di trovarsi nel mezzo tra un album cialtrone e un disco capolavoro, e a suo modo rappresenta l’esatta via di mezzo tra i due. Per questo (e soprattutto per una produzione deficitaria che oggi risulta estremamente datata) viene talvolta sbrigativamente liquidato come una specie di demotape appena più evoluto. Eppure se si analizza il contenuto oltre la forma si scopre che la band matura in modo esponenziale nell’arco di appena undici mesi. Tecnicamente evidenzia una più decisa padronanza degli strumenti, salta all’occhio nel riffing e nella costruzione dei pezzi; l’effetto è un po’ quello della crisalide che contiene già in sé quegli elementi di meraviglia che saranno propri della farfalla. Per chi lo ha conosciuto in tempo reale, “Schizophrenia” rappresenta una fotografia appagante del miglior sound del periodo (a livello di songwriting, non di produzione), in mezzo a “Reign In Blood”, “Terrible Certainty”, “Persecution Mania”, “The Legacy” (mentre i Frost… beh erano già altrove con “Into The Pandemonium”), senza contare il vezzo assai esotico (per l’epoca) di provenire dal Brasile; per chi ci è arrivato in ritardo, magari recuperandolo a ritroso dopo la definitiva esplosione dei Sepultura nel 1989 – è il mio caso – si attesta come una piacevole conferma ed un lavoro al quale aggrapparsi disperatamente nel momento in cui la farfalla si abbrutirà nei primi ’90, trasformandosi in un collettivo di sgangherati diseredati da centro sociale. Per certi versi “Schizophrenia” suona ancora acerbo ma ha dalla sua una carica, un’energia, un’alchimia che gli permettono di controbilanciare le ingenuità e che mettono in evidenza quello che è il potenziale della band. Non c’è solo la solita e citatissima “Troops Of Doom” (recuperata dal debutto e risuonata, una cartina di tornasole del gran balzo in avanti), “From The Past Comes The Storms”, “To The Wall”, “Escape To The Void” sono tutti episodi assolutamente meritevoli e degni di nota.

Il salto qualitativo che avviene con “Beneath The Remains” è enorme, ciclopico, in appena due anni i Sepultura passano da un bel disco thrash ad un capolavoro assoluto del genere, un album che sancisce nuovi standard, nuovi confini, che si erge a pietra di paragone per tutti coloro che d’ora in poi si misureranno col thrash. Un disco perfetto sotto ogni punto di vista, artwork (spettacolare ed indimenticabile, a firma Michael Whelan), produzione (Scott Burns, al quale i Sepultura si relazionano mediante un traduttore, zoppicando alquanto con l’inglese) e ovviamente songwriting. Quando, a seguito di questo album, fama e notorietà della band iniziano ad essere ingombranti, salta fuori Kerry King il quale dall’altro capo dell’America sentenzia che “Beneath” è un disco debitore degli Slayer, anzi, che proprio rubacchia dal repertorio della premiata macelleria di Huntington Park. Il debito nei confronti degli Slayer c’è ed è evidente (come per altro accade alla stragrande maggioranza delle band che si cimentano in ambito thrash negli anni in cui gli Slayer dettano legge), ma “Beneath” non può essere ridotto ad un album di mera derivazione, è molto molto di più. Con buona pace del velenoso King, i brasiliani nel 1989 arrivano a dar noia a chiunque, bisogna far posto volenti o nolenti, un nuovo monolite di urticante violenza e bellezza si erge stentoreo, impossibile ignorarlo.

La prima cosa strabiliante di “Beneath”, ciò che arriva prima di ogni altro treno in cuffia dell’ascoltatore, è il drumming di Igor Cavalera, che Burns esalta al meglio, intuendone il valore. Igor è vario e fantasioso, mantenendo al contempo una potenza inaudita. Ha un modo particolare di incrociare piatti e pelli che, guarda caso, da “Beneath” in poi comincia a fare scuola. Ma tutta l’orchestra evidenzia una progressione tecnica elevatissima, tranne Paulo Jr. il quale, come è noto, non suona una nota in studio né qui né su “Schizophrenia”, è Kisser a pensare alle linee di basso (bisogna aspettare “Chaos A.D.” perché Paulino finalmente tocchi le corde del suo strumento). I riff, le ritmiche e il ruggito di Max Cavalera contribuiscono a mantenere il sound agli estremi, tanto che – complice la mortifera copertina di Michael Whelan (seconda scelta dopo quella poi assegnata a “Cause Of Death” degli Obituary) – l’album viene inizialmente etichettato come death metal, vuoi per l’ignoranza di chi lo maneggia, vuoi per gli esordi satanico-caciaroni della band. I Sepultura passano dallo status di sfigati a quello di campioni, le loro vaporose chiome rossicce, il loro passaporto brasiliano, persino il loro modo di vestire diventa “alla moda”. Ricordo le tute con la scritta Vision che la band indossava nelle session fotografiche sulle spiagge lambite dall’Atlantico, che tutto d’un tratto diventarono il capo d’abbigliamento più desiderato dal metallaro, come quelle Best Company per i paninari della prima metà degli anni 80. L’album viene curiosamente registrato nei giorni di Natale del 1988 ai Nas Nuvens Studio di Rio de Janeiro (e mixato poi da Burns ai Morrisound Studios) e fortunatamente la band decide di abbozzarla con le puerili intemerate sataniche (altrimenti Gesù avrebbe smagnetizzato i nastri), rivolgendo la propria attenzione a tematiche più attuali e concrete come guerra, povertà e mali della società (i prodromi si erano già avvertiti su “Schizophrenia”). La stampa specializzata incensa ed incorona i Sepultura come nuovi idoli e l’Europa li accoglie finalmente in tour. A tutt’oggi non sono pochi quelli che ritengono “Beneath” il loro miglior album, nonché quello dove finalmente la band perviene a definire il proprio stile (che però… evolverà ulteriormente).

III – Il Caos

Saliti di molti piani nel grattacielo del merito e della gloria, i Sepultura hanno l’onore e l’onere di dare un degno seguito a “Beneath”. Prima nessuno si aspettava niente, nessuno conosceva questi “straccioni” del terzo mondo, ora tutti li aspettano al varco per testare se quel portento di “Beneath” va annoverato tra gli episodi fortuiti, le botte di deretano, oppure si è invece tratta del DNA della band (il primo verificatore in testa alla fila, ci scommetto, sarà stato Kerry King). L’uno-due dei Sepultura che battezza gli anni ’90 è da knock out, nel 1989 “Beneath”, nel 1991 “Arise”, sempre Scott Burns (ma stavolta la produzione avviene ai Morrisound dall’inizio alla fine), sempre un artwork destinato a rimanere negli occhi dei thrasher per decenni (Whelan), sempre un’espressione di aggressione mista a tecnica, in un bilanciamento ineccepibile. Ai Sepultura non manca (più) niente, rabbia, cesello degli strumenti, dinamismo, invettiva sociale, in sostanza la perfezione incarnata. “Arise” è esattamente ciò che ci si aspettava, ovvero “Beneath The Remains” spinto un gradino oltre, perlomeno in termini di perizia esecutiva. A voler cercare il pelo nell’uovo, i Sepultura perdono definitivamente quell’alone sulfureo e “underground” che ancora sopravviveva con “Beneath” e soprattutto con “Schizophrenia”, ma in cambio la band elargisce al pubblico un platter di thrash arroventato ed irresistibile. Nel 1991 i Sepultura non sono i numeri uno solo perché davanti ci sono gli Annihilator di “Alice In Hell” e “Never, Neverland”, e i Nuclear Assault di “Handle With Care” (a mio gusto naturalmente); gli Slayer vengono da “Seasons In The Abyss”, l’ultimo grande album della band (sempre a parere di chi scrive) e tuttavia anche il primo titolo che segna un ripiegamento sul proprio sound, mentre i Metallica sono partiti per un lungo viaggio che li porterà ad essere stranieri in terra straniera, finendo col perdersi in lande desolate.

Canzoni come “Desperate Cry” o “Under Siege” arricchiscono di nuove sfumature la personalità dei Sepultura, lasciano intravedere nuovi orizzonti, e sono forse il punto di ripartenza per mettersi al lavoro sul successore di “Arise”. Col senno di poi, cosa si poteva legittimamente chiedere ai Sepultura dopo il 1991? Il groviglio techno-thrash era stato portato ai suoi limiti, ai confini ultimi, continuare la progressione su quella strada sarebbe stato probabilmente impossibile. La scelta che si poneva era figliare un altro “Arise”, rischiando il manierismo (ad esempio la strada percorsa dai Testament con il conservativo ma estremamente godibile “Souls Of Black”), oppure intraprendere vie nuove. I Sepultura scelgono la seconda, con coraggio, gli va riconosciuto. Gli anni ’90 adesso sono entrati nel vivo, il loro carico pesante di sonorità anti-metal si fa sentire, corrucciato e vendicativo. Il thrash come lo abbiamo conosciuto ed apprezzato nei più recenti album dei Sepultura lascia inevitabilmente il passo ad una miriade di influenze diverse, equamente suddivise tra hardcore, punk, groove e industrial. Ed anche le tematiche che la band attenziona per i futuri testi delle canzoni sono sempre più spinti nel solco della rivolta, del complottismo, della lotta senza quartiere al Sistema (qualsiasi cosa ciò significhi). C’è profumo di innovazione nei solchi del Caos. Eccolo, il caos: anno domini 1993. I Sepultura stravolgono, si gettano nella mischia, si calano il cappuccio sulla testa e raggiungono la prima fila della barricata, pronti a combattere e scagliare pietre. Ad essere sfidati però non sono i poliziotti, il potere finanziario o l’Autorità costituita, bensi il pubblico. E Sparta risponde, come un sol uomo la legione di fans accoglie con entusiasmo il nuovo comando e si schiera al fianco dei propri generali per la guerriglia. Fosse anche un ordine suicida, i fans dimostrano di volersi immolare senza eccepire. Ed una qualche forma di suicidio entra in ballo poiché i Sepultura, consapevoli o meno, instillano la tossina letale nelle vene del moribondo thrash metal (già messo a dura prova dai Pantera).

Io con “Chaos A.D.” ho litigato a lungo, è uno di quegli album come “Wolverine Blues” degli Entombed, pancia e testa si azzuffano e prendono strade diverse, uno scisma ai limiti della psicanalisi. Li ho ascoltati fino allo sfinimento e non faccio alcuna fatica ad ammettere che siano begli album, solidi, ben suonati e prodotti, e con diverse intuizioni a livello di songwriting; entrambi dimostrano come le band siano mature, consapevoli e sfidanti verso il futuro. Eppure mentre li ascoltavo, già allora, non potevo non sentire le lacrime scorrere sul viso. Erano lacrime di lucida percezione, di lì a breve avrei perso i Sepultura e gli Entombed che amavo, potevo vedere i fuochi fatui che danzavano sulla tomba, mentre una nuova creatura prendeva vita e si allontanava lasciando la fossa vuota. “Chaos A.D.” è un commiato, un addio non un arrivederci, niente sarebbe stato più come prima, il superamento del punto di non ritorno, un avanzamento talmente radicale da non consentire il ripristino del salvataggio precedente. Era una scelta di campo e a me atteneva solo seguirli o rimanere col fazzoletto sventolante in mano, mentre la nave lentamente che si allontanava all’orizzonte. Nel tempo è andata meglio con “Wolverine Blues”, ho fatto pace con quel disco, tutto sommato è stato più facile che con “Chaos A.D.”, anche perché subito dopo gli Entombed pubblicano “DCLXVI: To Ride, Shoot Straight And Speak the Truth”, un lavoro per certi versi ancora più bizzarro ed azzardato di “Wolverine Blues” ma che a me è sempre piaciuto da morire (…posso dirlo? Pure di più!). E’ vero, a seguire gli Entombed annasperanno un po’, “Uprising” e “Morning Star” sono tutto sommato album apprezzabili, ma gli svedesi non sono più tornati ai livelli dei primi ’90.

“Chaos A.D.” formalmente non ha nulla che non vada, anzi per molti lo reputano il miglior lavoro della band registrato sin lì, l’iniziatore di un nuovo corso più moderno ed al passo con i tempi, nonché un disco di per sé eccelso. Mentirei se dicessi che lo detesto, fosse anche solo per i miliardi di ascolti riservatigli che me lo hanno fatto metabolizzare ad eternum, eppure sono sempre rimasto un passo indietro senza riuscire ad aderire del tutto al progetto, di fatto l’ho subito, non scelto spontaneamente. In quei 50 minuti ci sono tutti gli elementi che poi esploderanno con il disco successivo, le chitarre ribassate (come produttore sorprendentemente viene assoldato l’uomo del mixer di “Arise”, Andy Wallace, ed il sound del disco prende tutta un’altra piega, fredda e metallica, nel senso letterale di elemento chimico), l’estrema politicizzazione (“Refuse/Resist”, “Territory”, “Propaganda”, “Manifest”), il ritorno alle origini (etniche, non musicali), la “world music” (“Kaiowas”, “Amen”), la guerra luddista al progresso identificato tout court con le avidi multinazionali (“Biotech Is Godzilla”), lo straniamento psichedelico-industriale (“We Who Are Not As Others” e la cover dei NMA, “The Hunt”). Con “Nomad” la band intende forse rispondere a “Sad But True”, ma i modelli dei Sepultura adesso non si chiamano più né Metallica, né Slayer, tantomeno Venom o Exodus, bensì Neurosis, Fudge Tunnel, Einstürzende Neubauten, Nine Inch Nails. “Biotech Is Godzilla” è praticamente farina del sacco di Jello Biafra, mentre in “Slave New World” c’è la penna di Evan Seinfield dei Biohazard. Questo lo stato dell’arte all’altezza del 1993, prendere o lasciare. Il quesito ovviamente è retorico.

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IV – Radici avvelenate

“Chaos A.D.” trasforma i Sepultura nella band in cima alla lista delle priorità della Roadrunner (il disco nel nord America viene distribuito da Epic), la quale investe montagne di soldi nella promozione del gruppo, si parla di un milione di dollari per il marketing. Nel bene e nel male l’album si eterna come uno spartiacque della loro discografia, degli anni ’90 e del metal tutto. Rimane anche uno zoccolo duro di purosangue ai quali, per quanto sventoliate i dati di vendita sotto il naso, quel boccone proprio non va giù, neanche col Maalox. “Chaos A.D.” sarà l’autostrada per l’inferno dei Sepultura, il trampolino verso una destrutturazione programmata che condurrà la band fino alle estreme conseguenze, un olocausto cannibale, direbbe il nostro buon Deodato. Avete presente il debutto dei Cannibal Corpse? Quell’artwork (pluricensurato) ritrae esattamente ciò che succede ai Sepultura, autocannibalizzatisi a ritroso fino alla nascita, cancellati per consunzione. E’ cambiata la testa dei ragazzi di Belo Horizonte, una specie di agente mutageno ha alterato per sempre il loro modo di intendere e suonare la musica. Oggi, a distanza di oramai 30 anni, possiamo confermare in tutto e per tutto quanto appariva già piuttosto evidente in quei giorni dai quali non si è più tornati indietro. Chi amava i Sepultura del trittico “Schizophrenia”/”Beneath”/”Arise” deve dire definitivamente addio alla band all’indomani di “Chaos A.D.”, quei Sepultura non esistono più, sono materiale da archeologia, mammiferi estinti. Non sono pochi i quattro anni che intercorrono in attesa dell’album successivo; certo, i Sepultura sfruttano al massimo l’hype derivante da “Chaos A.D.”, suonano con generosità dal vivo e si godono il feedback, ma si intuisce che qualsiasi cosa approderà nei negozi sarà intensa, dirimente, forse definitiva. E infatti…

Anche “Roots” istituisce nuovi punti di riferimento per il thrash “alternativo” (oramai etno-industrial-core), ma rispetto al 1993 costituisce un ulteriore drammatico passo in avanti. Dove “Chaos A.D.” era un album a tutto tondo, coerente, logico, omogeneo, a fuoco nella sua ricerca di sperimentazione, “Roots” si dimostra piuttosto un patchwork di pezzi e frattaglie, a tratti privo di una spina dorsale, di un collante che non sia banalmente: “aborigeni vs progresso”. Canzoni come “Roots Bloody Roots”, “Attitude”, “Ratamahatta”, “Endangered Species”, hanno una struttura interna, pur bombardati dalla onnipresente strumentazione tribale, da aggeggi percussivi, canne di bambù, pentoloni dello stregone e cori aborigeni; le altre tracce in scaletta (un totale di ben 17) sembrano invece all’insegna del mero situazionismo, condito con riff di chitarra buttati lì, come fossero avanzi, e con il groove cucito da di Igor Cavalera. E’ una corsa a perdifiato nei grovigli della giungla per poi sbattere la testa contro un albero che di colpo arresta la gimcana e toglie qualsiasi senso dell’orientamento. In altre parole, assomiglia molto ad un esercizio di stile fine a se stesso. E’ evidente che in pochi, pochissimi, hanno accolto così l’album, dato che ottiene un successo mondiale e segna l’avvento del punkabbestia tribal metal. Pur riconoscendo la veemenza e l’originalità dei suoi momenti migliori (i pezzi strutturati di cui sopra), non sono mai riuscito a considerare “Roots” come un vero e proprio disco con un inizio, uno sviluppo ed una conclusione. Sono fotografie dell’Amazzonia, che naturalmente possono entusiasmare per l’estremo realismo del paesaggio, ma che stanno appese lì, avulse da tutto. Decine e decine di band influenzate, due milioni di copie vendute parlano da sole, i Sepultura hanno vinto, quelli come me hanno perso. Per carità, affascinanti tutte le storielle che circondano l’album, l’ispirazione derivante dal film Giocando Nei Campi del Signore di Hector Babenco (1991), il viaggio di Max Cavalera nel Mato Grosso presso gli indigeni Xavante, le partecipazioni di Mike Patton e Jonathan Davis, la stura data al nascente movimento nu metal, etc., ma con “Roots” (ed in verità già con “Chaos A.D.”) in un solo colpo ho perso una band che amavo moltissimo ed un genere che ne rimane tremendamente sfigurato, arrivando ad un passo dalla propria estinzione.

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V – We Who Are Not As We Were

Dopo due mazzate del genere assestate al music biz in termini di vendite, fama e successo, i Sepultura non possono che aspirare alla Presidenza del Brasile e di lì lanciarsi alla conquista del mondo. Se non fosse che Max Cavalera si sente tradito dai compagni d’armi allorquando questi gli propongono/impongono il licenziamento dell’allora manageressa della band, Gloria Bujnowski, sua moglie. Come se non bastasse Gloria aveva appena perso il figlio ventunenne in un incidente stradale. Max non la prende affatto bene e, senza pensarci due volte, abbandona band e fratello. Max has left the building. Segue periodo d’oro per tutte le testate metal del mondo, che praticamente ad ogni numero ospitano nell’ordine: 1) illazioni sulle vere ragioni dello split; 2) la versione di Max e Gloria; 3) la versione dei Sepultura; 4) la posta dei lettori a suo volta suddivisa in pro Max vs pro Sepultura. E’ tutto uno speculare su cosa ne sarà di quel marchio che fino ad un attimo prima era sul tetto del mondo. Max fonderà un partito politico e darà battaglia a Bill Gates e Steve Jobs? I Sepultura torneranno indietro? Il tempo non è stato galantuomo, poiché ci ha portato in dote dischi pessimi dei Sepultura (col sostituto di Max, il gigante de Il Miglio Verde, Derrick Green, che personalmente non sono mai riuscito a digerire), dischi dei Soulfly (pessimi o meno giudicate voi, per me continuano con “troppa” coerenza il discorso di “Roots”), dischi inutili dei Cavalera Conspiracy (una band costruita praticamente solo sul nome dei due fratelli). Ai miei orecchi, in ogni sua emanazione l’insieme dei Sepultura non ha prodotto alcunché di davvero rilevante (e talvolta manco dignitoso) dal ’97 in poi, con punte di assoluto squallore e bruttezza come ad esempio l’atroce “A-Lex”, disco che ricordo con particolare orrore per aver addirittura scomodato Burgess e Kubrick ( ma hanno scomodato persino il povero Dante). Da allora si parla periodicamente di reunion, come fosse “la soluzione”… a quale problema poi andrebbe capito. Per come sono ridotti oggi gli attori di questa telenovela (“Sepu-Dramma!” titolava all’indomani della separazione il nostro magazine Flash), una eventuale reunion sarebbe una sommatoria di limiti, bassezze e centimetri d’adipe, quel benedetto marchio ha già conosciuto sufficiente vergogna nell’ultimo ventennio, forse sarebbe stato opportuno smettere di sfruttarlo e cambiare ragione sociale alla band.

Andreas Kisser, divenuto unico proprietario dei Sepultura che non ha fondato, prosegue invece nella pubblicazione di nuovi album sotto lo stesso monicker, sottolineando ad ogni passo quanto il giocattolo ora sia tutto e solo suo, ed aggiungendo un po’ di gnegnegne a corollario. Max Cotechiño di tanto in tanto getta e ritira l’amo in direzione di una possibile reunion per vedere l’effetto che fa, a Kisser, ai fans, alla stampa, al suo conto in banca. La prima decade dei 2000 è stata davvero terribile in casa Sepultura, con Kisser che cercava di uscire fuori dal pantano pubblicando dischi a nastro, di una inutilità certificata. “Kairos ” (2011) e il wertmulleriano “The Mediator Between The Head And Hands Must Be The Heart” (2013) sono due episodi abbastanza modesti persino trascurabili, ma perlomeno non imbarazzanti come il filotto di album precedenti. “Machine Messiah” (2017) e “Quadra” (2020) hanno visto il riaffacciarsi di qualche genuino consenso da parte di stampa e pubblico (per questioni anagrafiche, in tanti hanno conosciuto i Sepultura ben dopo il loro climax, come accaduto anche ai Metallica), due album classificati come accettabili e talvolta anche apprezzabili. Ci sono volute 7 release e oltre 20 anni a Kisser per tornare ad essere considerato ed accreditato nel consesso metal. A conti fatti, devo ammettere che per me i Sepultura sono tre dischi, “Schizophrenia”, “Beneath The Remains” e “Arise”, il prima è poco più che folclore (anche se Guedz ci ha costruito sopra i suoi Troops Of Doom), il dopo… beh dipende. “Chaos A.D.” è un disco valido ed importante, ma non più ascrivibile ai Sepultura “classici”; gli riconosco l’onore delle armi ma non rientra nel mio recinto della musica indispensabile per il miglioramento della qualità della vita. Attraverso “Roots” si varca la soglia del termovalorizzatore, all’interno del quale trova posto tutta la produzione compresa tra il 1998 e il 2009. A quel punto Kisser si rimette un po’ in sesto, ritrova il bandolo della matassa e comincia a pubblicare album con un minimo senso di vergogna, avendo chiaro il limite oltre il quale non si può (più) andare. La lenta e timida risalita ci porta fino agli ultimi “Machine Messiah” e “Quadra”, lavori che hanno saputo trovare degli estimatori, ma non parliamo di Sepultura, non scherziamo, quello è un altro pianeta.

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Discografia Relativa

  • 1986 – Morbid Visions
  • 1987 – Schizophrenia
  • 1989 – Beneath The Remains
  • 1991 – Arise
  • 1993 – Chaos A.D.
  • 1996 – Roots
  • 1998 – Against
  • 2001 – Nation
  • 2003 – Roorback
  • 2006 – Dante XXI
  • 2009 – A-Lex
  • 2011 – Kairos
  • 2013 – The Mediator Between The Head And Hands Must Be The Heart
  • 2017 – Machine Messiah
  • 2020 – Quadra

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