I Saint Vitus di Los Angeles sono una cult band del cosiddetto circuito doom metal. Ma loro sono il doom nel doom, la via al genere che hanno individuato e perseguito sin dalla prima metà degli ’80 è totalmente autoctona e avulsa da possibili termini di paragone. D’accordo i Black Sabbath, tutto fa sempre capo lì (a cominciare dal loro monicker), ma questi californiani allampanati e fortemente “chimici” sono risaliti fino a gente come i Blue Cheer (e i Black Flag e Alice Cooper e i Judas Priest…) per plasmare il proprio ibrido monumentale e slabbrato come niente altro al mondo. Quasi quarant’anni di carriera, chi va piano….va lontano.
Contenuti:
1. “Ho il ballo di San Vito e non mi passa” (1981 – 1983)
2. Scott… Reagers (1984 – 1986)
3. Scott… Weinrich (Wino) (1986 – 1991)
4. To hell and back again (1992 – 2019)
5. We who are not as others
1 – “Ho il ballo di San Vito e non mi passa”
Secondo la tradizione cristiana Vito (III secolo) era originario di Mazara Del Vallo, di famiglia pagana, si converte al cristianesimo ed opera molti miracoli ma viene fatto arrestare dal padre, decisamente poco incline alla nuova fede monoteista del figlio. Subisce torture indicibili e, pur incarcerato, non rinnega mai il Cristo. La sua vita suppergiù va tutta così, incarcerato e torturato, ovunque, magari salvato dagli angeli e da animali miracolosi, sempre devoto e in grado di compiere prodigi salvifici (delle vite altrui). Muore nel cilento, sembra ci sia una data certa, il 15 giugno del 303. E’ generalmente ritenuto il patrono nonché protettore dei danzatori; viene facile l’associazione con il ballo di San Vito, che in realtà è una patologia rognosissima, nota ai medici come Corea di Sydenham, un tipo di encefalite dovuta a problemi reumatici che si diffonde soprattutto in età pediatrica e che comporta una sintomatologia fatta di complicazioni neurologiche come disturbi del movimento, cognizione rallentata, mal di testa, tremori, alterazioni umorali, muscolari, ma anche febbri, artriti, carditi, etc. I Black Sabbath di “Vol. 4” ci scrivono una canzone chiamata “St. Vitus’ Dance”, tuttavia scorrendone il testo sembra aver poco a che fare tanto col santo quanto con la patologia. D’accordo, la vaga allegoria tra paturnie amorose e encefalite, però… insomma. In ogni caso ai losangelini Dave Chandler, Mark Adams e Armando Acosta piace molto, tanto che decidono di adottarne il titolo come nome per la propria band. La prima scelta (all’altezza del 1978) era stata diversa, Tyrant (anche in questo caso sulla scorta di una canzone particolarmente apprezzata, quella contenuta in “Sad Wings Of Destiny” dei Judas Priest); non erano però gli unici Tyrant a L.A. e dunque optano per un cambio più originale e distintivo (nel 1981). I Saint Vitus hanno inizio quando i Sabbath con Ozzy finiscono, in coincidenza del tramonto del mark I del Sabba di Birmingham; gli ultimi album della band hanno visto evolvere, cambiare, sviluppare, stravolgerne (scegliete il termine più appropriato) il sound – pensate alle differenze che ci sono tra “Master Of Reality” e “Never Say Die!”, per dire – e i Saint Vitus rimangono affezionati perlopiù al primo periodo dei Sabbath, quello più oscuro e solforoso, quello dei riff catacombali e delle atmosfere spettrali e paranoiche. Proprio da lì partono per costruire la propria fisionomia, senza dimenticare l’humus che li ha visti nascere, intendo proprio geograficamente (ed anagraficamente), una Los Angeles dove punk e hardcore andavano fortissimo, tra Black Flag, T.S.O.L., Circle Jerks, Social Distortion, Adolescents, Screamers, Germs e X. Non è un apporto da sottovalutare poiché, pur non affidandosi completamente a quelle sonorità, quel substrato rimane appiccicato ai Vitus e a suo modo influenzerà la loro attitudine. Senza neppure tralasciare neppure tanto sanguigno rock anni ’70, a cominciare ovviamente dai più distruttivi di tutti, i Blue Cheer.
II – Scott… Reagers
La prima metà degli ’80 serve ai Vitus per rodarsi, plasmarsi, testarsi on stage (suonando di supporto a Black Flag e The Mentors ad esempio e venendo perlopiù fischiati da audience smaccatamente hardcore). La loro idea di musica non è popolarissima, proviene dalle due decadi precedenti, attorno a loro il metal procede martellante e battagliero, grandi velocità ed intensità urticante, pesantezza, corposità, aggressività, tutte caratteristiche che sono indirettamente proporzionali ad un approccio lento, esasperante, ieratico, parossistico, chimico, intriso di spiritualità nichilista e psichedelia nera, eternamente riconoscenti ai Black Sabbath. Sono già anacronistici e fuori fuoco prima ancora di avere un album in vendita nei negozi, fanno a cazzotti con il proprio tempo e quasi esibiscono fieramente questa (apparente) inadeguatezza. Quando nel 1984 esordiscono con il debut omonimo (su SST Records, di proprietà di Greg Ginn dei Black Flag) i Sabbath stanno a metà strada tra “Born Again” (1983) e “Seventh Star” (1986), per dare un’idea di quanto i loro stessi numi tutelari fossero già lontani dalle spiagge originarie. I Vitus raccontano che l’album nell’84 era già vecchio di un paio anni e che traversie legali dell’etichetta ne avevano causato tale ritardo di pubblicazione. Nel 1991 i Metallica si “inventeranno” un artwork total black per un loro disco, ma “Saint Vitus” lo anticipa e di parecchio affidandosi ad una copertina interamente nera popolata unicamente da un logo grigio in evidenza.
Let the music do the talking e così sia, 35 minuti declinati in appena 5 tracce, un signor manifesto d’intenti che restituisce in modo chiaro e diretto cosa intendano combinare i quattro allucinati sacerdoti del doom lisergico californiano. E’ un album che si staglia nettamente da tutto il resto del panorama coevo, improbabile non rimanere colpiti dai Saint Vitus, impossibile passino inosservati, inammissibile non appassionarsi alla loro impresa donchiosciottesca. Scorrendo i titoli si viene immediatamente scaraventati in un mondo mitico e primordiale fatto di magia, zombie, psicopatia e leggende marinaresche a base di ectoplasmi. Le canzoni durano dai 4 ai 9 minuti ma, al di là del minutaggio, è il peso specifico del buco nero nel quale ci abbandonano i Vitus ad impressionarci, mentre ci stritola dentro la sua forza centripeta. Con questa formazione, che prevede Scott Reagers alla voce, registrano un altro full-length (il bellissimo “Hallow’s Victim”) e l’Ep “The Walking Dead” (20 minuti di musica di cui circa 15 inedita, ovvero “Darkness” e “The Walking Dead”). Tre release che sono già sufficienti a delineare abbastanza compiutamente i contorni dell’universo Saint Vitus, un universo per altro in crescita perché sempre più ricco, convincente e incisivo canzone dopo canzone, disco dopo disco. Reagers più che un cantante pare un attore, un declamatore di teatro, un vero e proprio narratore, senz’altro un cantante di personalità più che di qualità, ma è esattamente quello che ci vuole per aggiungere condimento alla ricetta dei Vitus. E infatti… a partire dal nuovo album “Born To Late” ad impugnare il microfono c’è una faccia nuova, Scott “Wino” Weinrich, proveniente dai Warhorse (che poi si trasformeranno nei The Obsessed) e transitato brevemente pure nei Mentors, appena prima di entrare nei Vitus. I Vitus pare l’abbiano scoperto tramite tape trading ascoltando i suoi The Obsessed. Quindi lo incontrano fisicamente ad un concerto a Washington, dove gravita pur essendo originario del Maryland. Quando i dissapori con Reagers raggiungono il culmine (durante il tour del 1985 sarà Chandler a cantare nelle ultime date dal vivo), l’entrata in formazione di Wino viene formalizzata. Sebbene temporalmente il suo periodo di permanenza nella band eguagli suppergiù quello di Reagers (6 anni lui, 7 l’altro), in termini di produzione discografica l’ugola del Maryland partecipa a 3 studio album, un live ed un Ep (fino al ’90). Come è noto poi entrambi avranno modo di rifarsi negli anni successivi, strappandosi vicendevolmente il microfono ad intervalli regolari.
III – Scott… Weinrich (Wino)
“Born Too Late” è generalmente considerato il miglior album dei Saint Vitus; difficile dirlo, è splendido ma non saprei se ad esempio, nel mio personale podio della band, occupi esattamente il primo gradino. “Hallow’s Victim” è un album che mi piace altrettanto, “il successivo “V” è forse il titolo che ho più ascoltato in assoluto dei Vitus e pure “Die Healing” è tra quelli che mi fanno battere tenacemente il cuore. Non serve neppure a granché stilare una simile classifica, quel che è certo è che il “pink album” è un pezzo di storia del doom metal nei secoli dei secoli. Anno domini 1986 e siamo già troppo in là, come giustamente lamentano i Vitus, il problema è che sono/siamo nati troppo tardi, fuori dal tempo, apparteniamo altrove e la cosa non è – ahimè – risolvibile. Ma in fin dei conti questo ci rende migliori o peggiori? Ai posteri l’ardua sentenza. Una filosofia un po’ boomer direbbe forse oggi qualcuno, ma i Vitus sono oltre anche simili terminologie micragnose e sprezzanti. “Dying Inside”, “The Lost Feeling”, “The War Starter” sono tutt’altro che canzoni all’insegna dell’ottimismo; per altro l’apporto di Wino è determinante in tal senso poiché se Reagers aveva dalla sua delle connotazioni fantastiche, prettamente più letterarie e cinematografiche nella maniera di condurre la danza di San Vito, Wino la rende più concreta e disperata, ancorata a drappi funebri e volutamente respingente. A questo si aggiunge una quadratura del sound in direzione di un doom metal sempre più definito e scolpito, via via edulcorato delle influenze hardcore degli esordi. I successivi “Thirsty And Miserable” e “Mournful Cries” (un Ep il primo, un album completo il secondo, anche se io li ho sempre considerati due Ep, evidentemente sbagliando) portano avanti coerentemente il discorso, sebbene a mio parere “Born Too Late” rimanga folgorante come approccio (del nuovo cantante), e anche a distanza di tempo si confermi superiore in tutto e per tutto alle due release immediatamente successive, comunque di pregevole qualità.
All’alba dei ’90 “V” ha forse il difetto di introdurre un filo di manierismo nel sound dei Vitus, c’è persino qualche riff che riecheggia cose passate (“Living Backwards” è una rimodulazione di “White Magic/White Magic”), ma detto ciò non posso non confessare che “Mind-Food”, la stessa “Living Backwards” (sempre lo stesso concetto di “Born To Late”… si stava meglio quando si stava peggio) e soprattutto la sconvolgente “Patra (Petra)” non mi facciano letteralmente impazzire ad ogni ascolto. E’ forse il trittico di canzoni che – a mio parere – più di ogni altro incarna lo spirito più autentico e profondo dei Saint Vitus. “V” – primo album ad uscire per Hellhound Records dopo il lustro passato con SST – è un po’ come se si incaricasse di scolpire sul marmo una volta per tutte il verbo dei Saint Vitus, il monumento al quale l’umanità potrà rendere omaggio per eternare la musica che si suonava in California negli stessi anni di Motley Crue, Faster Pussycat, Femme Fatale e Stryper. L’entrata in scena di Hellhound (letteralmente entrata in scena, perché i Saint Vitus figurano tra le primissime release della label) non è indolore, dato che stampando l’album omonimo dei The Obsessed (1990) fa tornare la fregola a Wino di rimettersi a lavoro con la sua precedente band, cosa che puntualmente accade nel ’91, quando lascia i Vitus. Prima però c’è tempo per la release di “Live”, quattro lettere inequivocabili per il primo live ufficiale della band. Il disco sfrutta il traino di “V”, esce nello stesso anno ed è una splendida fotografia che ritrae fedelmente i Saint Vitus al loro meglio, qualcosa che va oltre la mera riproposizione on stage del repertorio della band e si trasforma in una mappa concettuale (e sonora) della loro essenza, della loro anima. Davvero imperdibile, sia che si appartenga alla cerchia dei fans, sia che si intenda scoprire magari per la prima volta i Vitus, a me per esempio è capitato proprio così; nel 1990 trascorsi quasi un intero pomeriggio in un negozio di dischi alla ricerca del mio prossimo acquisto e lo feci ascoltando della musica fantastica proveniente dalla impianto hi-fi del negozio, erano le note di “Live”. Mi appassionai così tanto che chiesi al negoziante informazioni riguardo alla band e, per farla breve, il vinile (in edizione limitata grigia) che acquistai quel giorno fu proprio quello dei Saint Vitus.
IV – To hell and back again
Nel 1992 esce un album che risulta un po’ a se stante nella discografia del gruppo, è “C.O.D.” (Children Of Doom), unico con Christian Linderson degli svedesi Count Raven alle vocals. L’artwork è molto metal e anche il disco è un passo deciso in direzione dell’heavy metal, sebbene i Vitus non tradiscano in alcun modo le proprie coordinate musicali. La produzione è affidata a Don Dokken, riuscita ad immaginare qualcuno più distante dal concept Saint Vitus? In Europa lo licenzia Hellhound, negli Stati Uniti ci pensa Nuclear Blast (a proposito di forte connotazione metallica). Come detto, dura poco questa parentesi e i Vitus richiamano Reagers per dedicarsi a quello che sarà l’ultimo loro album prima dello scioglimento. Nel 1996 esce così “Die Healing”. Al momento della sua release tirava già una strana aria, l’album era circondato da un’atmosfera un po’ apocalittica, come se in effetti fosse una sorta di testamento, complice anche l’estetica cimiteriale dell’artwork. Per fortuna si tratta in realtà di un lavoro poderoso, ampiamente degno del monicker che “indossa” in copertina (bellissima) e – per quanto mi riguarda – tra le vette creative della band. Quasi a rimarcare la sua differenza dall’eterno antagonista Wino, Reagers qui esagera e gigioneggia parecchio, rendendo alcuni pezzi quasi ostici all’ascolto per quanto sforza il suo cantato in direzione di una interpretazione parossistica, estrema e sopra le righe. C’è l’ovvio richiamo al passato con la citazione dello zombie (“Return Of The Zombie”) e c’è un lotto di canzoni clamorose che proietta questo album nella storia del doom metal, tra le file dei dischi più destabilizzanti appartenenti allo scorso secolo e millennio. Eppure, nonostante un tale invidiabile stato di forma, i Vitus cessano formalmente le ostilità nel 1996. Se gli anni ’80 non erano stati semplice per un molosso pachidermico come i Saint Vitus, figuriamoci la decade dei ’90 con il gunge, l’industrial, l’alternative e tutte le contaminazioni incomprensibili per uomini di neanderthal come i Vitus. Chandler si dedica ad un project con Ron Holzner dei Trouble e Jimmy Bower degli Eyehategod, i Debris Inc. (un solo album all’attivo nel 2005 con Rise Above); Acosta bazzica l’underground senza produrre alcunché; Reagers e Adams si prendono direttamente una pausa dalla scena.
Bisogna aspettare il 2003 perché una qualche formazione dei Saint Vitus torni a salire su di un palco (a Chicago); a sorpresa è quella di “Born Too Late”. L’ottimo responso live e delle ristampe (“V” e “Live”) ad opera di Southern Lord fanno si che progressivamente la reunion diventi una solida realtà (come per la Immobildream). Dal 2008 le cose iniziano a farsi nuovamente serie, i concerti si susseguono, i festival pure. Wino ha 3000 band e non fa alcun mistero del fatto che i Vitus non siano più né un’esclusiva né una priorità (anche perché buona parte del suo tempo è occupata dalle droghe e dagli arresti conseguenti al suo possesso ed uso), tuttavia i nostri si cimentano ugualmente nella stesura di nuovo materiale che si concretizzerà nella pubblicazione di “Lillie: F-65” (dal nome ovviamente di una droga) nel 2012 per Season Of Mist. Due anni prima Acosta è stato seppellito al Riverside National Cemetery in California all’età di 58 anni, alla batteria ora c’è Henry Vasquez dei Blood Of The Sun. L’attesa per un nuovo lavoro dei Vitus dai tempi di “Die Healing” è pazzesca, nel frattempo i nostri sono passati da “disagiati alla Easy Rider” a cult band per eccellenza; tutti tributano grandi lodi ed omaggi ai padri del doom metal (segnatamente quello più compromesso con il roots rock e la psichedelia) e dunque “Lillie: F-65” non può che beneficiare delle migliori premesse in termini di aspettativa ed accoglienza. Anche io ero tra quelli che smaniava per poterlo stringere tra le mani ed ascoltare mille volte di seguito… eppure l’ottavo full-length dei Saint Vitus è forse il primo ad avermi un po’ deluso. Sebbene gli stilemi della band siano tutti presenti, ed il disco sia assolutamente dignitoso, il songwriting nel suo complesso risulta a mio parere poco brillante, nulla di minimamente comparabile col passato, non dico stantio ma sicuramente meno incisivo di quanto mi aspettassi (o desiderassi). “Lillie: F-65” non è riuscito ad entrarmi nel sangue nonostante i ripetuti ascolti. Un compitino ben fatto ma nulla di più.
Seguono addirittura due live consecutivi, entrambi del 2016 (a dimostrazione della totale idiosincrasia dei Vitus con le regole basilari del music biz), uno registrato in Lussemburgo (“Live Vol.”) ed uno in Germania (“Let the End Begin…”), ma a scorrere la loro discografia se ne contano diversi, comprendendo anche bootleg e release esclusivamente digitali. Quasi un modo per prendere del tempo fino a quando, nel 2019, i Saint Vitus danno finalmente un seguito a “Lillie: F-65” con la release di un disco che per la seconda volta porta il loro monicker come titolo. Il nuovo “Saint Vitus” non ha più Mark Adams in formazione (segnato dal Parkinson), sostituito al basso da Pat Bruders (Goatwhore, Crowbar, Down), ma al contempo vede l’ennesimo ritorno di Reagers al posto di Wino dietro l’asta del microfono, praticamente un derby tra i due per il primato di “vera” voce dei Saint Vitus. Anche in questo caso si tratta di un album per me solo parzialmente convincente (uno con Weinrich ed uno con Reagers, è pareggio, per non far torto a nessuno). Eppure una scelta così significativa come quella di rimettere in gioco il nome stesso della band presupponeva che il materiale dovesse essere inattaccabile dalla prima all’ultima canzone. La release non difetta di coerenza con la passata discografia, è un po’ la stessa situazione sperimentata con “Lillie: F-65”, anche se rispetto a quello “Saint Vitus” è più gradevole, più riuscito, forse anche più furbo nel dare ai fans esattamente ciò che i fans si aspettavano. “Bloodshed”, “Hourglass”, “12 Years In The Tomb”, “Last Breath”, e soprattutto “Useless” sono i momenti migliori (così come è apprezzabile il riaffiorare di una certa venatura hardcore), anche se non sufficienti a tenere a fuoco l’album dall’inizio alla fine.
V – We Who Are Not as Others
I Saint Vitus sono ancora formalmente attivi e chissà che prima o poi non arrivi pure un terzo capitolo post reunion. Il clima che li circonda è sempre estremamente benevolo e positivo, pur avendo letto qualche recensione più moderata sostanzialmente le loro due prove discografiche recenti sono state assai ben valutate. Immagino che chi ha imparato a familiarizzare con il loro sound magari proprio con i dischi degli ultimi anni ne sia ugualmente rimasto estasiato, la trama dei Vitus in controluce affiora; tuttavia chi invece ne ha seguito nascita, evoluzione e percorso quasi quarantennale difficilmente verrà colto da un entusiasmo travolgente. La band sta a galla, dignitosamente, come è fisiologico che sia non può avere ininterrottamente lo stesso climax creativo decade dopo decade, capello bianco dopo capello bianco, è senz’altro apprezzabile che non abbia pregiudicato con album mediocri quanto di buono fatto in passato, ma viene abbastanza naturale rivolgersi agli anni ’80 e ’90 per riassaporarne tutto l’effettivo potenziale. La continua alternanza tra Wino e Reagers ha creato tensione nella band, una tensione tutto sommato creativa e dinamica; non esistono due nette anime dei Vitus incarnate dai rispettivi frontman, in fin dei conti c’è sempre stato un filo comune tra questi e quelli, sebbene i due cantanti abbiano contribuito ad infondere ed accentuare sfumature diverse ma mai a confinarsi in compartimenti stagni. A pelle ho sempre avuto più trasporto e simpatia per Reagers, Wino è persona spigolosa a tratti anche un po’ preoccupante (si vedano le farneticazioni sulla pandemia creata e finanziata in laboratorio dai governi, compreso quella americano, a loro volta manipolati da fantomatiche “elite” oligarchiche, con la specifica finalità di sterminare e schiavizzare l’umanità… che poi, o la stermini o la schiavizzi), il che non toglie che alcuni tra i migliori album dei Vitus abbiano la sua voce come valore aggiunto. E del resto se dovessimo affezionarci agli artisti in base alle loro credenze, ai loro orientamenti culturali e politici ed in base alla loro personalità, temo che rimarremmo drammaticamente a secco di musica. Christian Linderson è stato una meteora, di tutto rispetto, ma pur sempre un cantante quasi “guest”, che ha occupato lo spazio di un unico (valido) album.
E anche accantonando per un attimo il marchio vocale dei Reagers, dei Weinrich e dei Linderson, rimane agli atti un mondo sonoro di assoluto fascino creato da Chandler, Adams e Acosta, nel quale giocoforza la bizzarra e nostalgica silhouette di Chandler emerge sopra le altre, vuoi perché la chitarra ha sempre un ruolo preminente in ambito rock (e quindi metal), vuoi perché quell’allampanato Pippo assai poco disneyano e più simile ad un hippy di fine anni ’60 ibridato con la virilità di Mark Shelton dei Manilla Road (con tanto di fascia tra i capelli) ha davvero lasciato un segno negli stereo di mezzo mondo. Il suo modo di suonare (sposato in toto dal resto della band), totalmente privo di tecnicismi di sorta, alieno di arrangiamenti di una canzone, concepita invece come un mood ininterrotto poggiato su riff estenuanti, buttati sul groppone dell’ascoltatore senza tanti complimenti e sublimati da assoli con un tasso di acidità nel sangue da guinness dei primati, ha di fatto scolpito i tratti salienti dei Saint Vitus in ogni loro album, tanto nei primi più rockettari e financo hardcoreggianti (penso a schegge scorbutiche come “White Stallions” o “Hallow’s Victim”), quando in quelli più doomish, disperati ed asfittici (“Petra”, “Sloth”). Crudi, rudimentali, fissati su di una cosiddetta “forma-canzone” dai tratti talvolta quasi amorfi, appena abbozzati, eppure dotati al contempo di una propria epica nichilista, possente, capace di schiacciare gli astanti fino a farli stramazzare al suolo, irrazionali nel loro collerico incedere tutto di pancia, viscerale e selvaggio, privo di briglie ed incurante delle conseguenze, i Saint Vitus sono solo apparentemente una monolitica doom metal band, la pastura del loro groviglio sonoro ha vita organica, è un golem colossale che pulsa e respira, e che ha ghermito molti di noi senza che neanche ce ne accorgessimo; adesso è tardi, finiremo nelle sue fauci e diventeremo carne e carburante per future nuove canzoni… we are the children of doom.
Discografia Relativa
- 1984 – Saint Vitus
- 1985 – Hallow’s Victim
- 1985 – The Walking Dead (EP)
- 1986 – Born Too Late
- 1987 – Thirsty And Miserable (EP)
- 1988 – Mornful Cries
- 1990 – V
- 1988 – Live (live album)
- 1992 – C.O.D. (Children Of Doom)
- 1995 – Die Healing
- 2012 – Lillie: F-65
- 2016 – Live Vol. 2 (live album)
- 2016 – Let The End Begin… (live album)
- 2019 – Saint Vitus
2 Comments
Antonello
Ciao Marco, a quando gli articoli su Pentagram e Troube? Così si completa la triade doom U.S.A.
Marco Tripodi
Ciao Antonello, buona idea…. to be continued!