Lo dico un po’ provocatoriamente ma in fondo lo penso, i Saigon Kick sono stati la miglior cosa partorita dal fermento, dall’irrequietezza, dal disincanto e dalla disillusione degli anni ’90. Hanno assommato nella loro musica tutti i tratti distintivi di quella decade ed al contempo hanno fatto un salto quantico nel futuro, dando alle stampe una serie di album che perlopiù i contemporanei non hanno compreso appieno, storditi dalla compresenza di rock, hard rock, financo metal, ma pure Beatles, David Bowie, intenzioni funky, aperture jazz ed armonie vocali astronomiche. Sotto l’ombrello dei Saigon Kick gusto, eleganza, estro ed intelligenza compositiva erano riuniti nelle mani di musicisti dall’eclettismo pazzesco, dotati di un’alchimia dimostratasi decisamente rara, se non unica.
Contenuti:
1. Nuovo mondo (1988 – 1991)
2. Lucertole imprendibili (1992)
3. Il colore dell’acqua (1993 – 1995)
4. Astenia compositiva (1998 – 2000)
1 – Nuovo Mondo
Quella del cosiddetto “grunge” è un’etichetta ampia e larga che ha raccolto in tante cose anche disparate e differenti, a tratti persino difficilmente conciliabili tra loro, come accaduto ad esempio pure nella NWOBHM e più in generale in tutti quei movimenti musicali raggruppati prevalentemente per esigenze di calendario, anche se è innegabile che un certo sentire e dei tratti comuni via siano stati. Come far convivere il sound ma soprattutto le intenzioni dei Pearl Jam, degli Skin Yard, dei Nirvana, degli Helmet, degli Screaming Trees, delle L7, dei Soundgarden? Intanto diverse delle band classificate come grunge (qualunque cosa si intenda con tale termine) lo sono state parzialmente o affatto. Qualche esempio, i Mind Funk, rientrati nel calderone con “Dropped” (1993) dopo un debut omonimo che però era tutto fuorché grunge; le L7, assai più interessate al punk e all’hardcore che al grunge; i Soundgarden, che un’anima grunge la possedevano innegabilmente, insieme però alle tante altre sfumature che emerse nei loro album; gli Helmet, a tratti persino più affini ai Pantera che a Eddie Vedder, e certamente pervasi da una prepotente attitudine hardcore. Idem gli Skin Yard, estimatori del grunge li hanno apprezzati, alternando sul piatto un loro vinile magari con uno dei Temple Of The Dog, difficilmente un fan dell’hardcore avrebbe invece potuto fare altrettanto. E gli Alice In Chains? Ancora altre sfumature, con armonizzazioni vocali da brividi che più che la malinconia e la rugiada evocavano stati d’animo prossimi all’angoscia e alla paranoia. Insomma, il grunge è stato tutto e niente, come spesso accade ai fenomeni musicali che i Media cercano di ingabbiare in un recinto fatto di aggettivi che vanno stretti alla musica in sé, a meno che non si tratti di Ramones o AC/DC.
A 5000 km da Seattle, considerata la patria putativa del grunge, in una città che tutto evoca fuorché nostalgia, depressione e nichilismo, ed in un momento storico nel quale il grunge è ancora lontano dall’emanciparsi come fenomeno dapprima americano e poi mondiale, Matt Kramer e Jason Bieler uniscono i propri talenti, rispettivamente al microfono ed alle sei corde elettrificate, si mettono assieme ad un bassista – Tom DeFile – e ad un batterista – Phil Varone – dopodiché scrivono musica, suonano ovunque il più possibile riuscendo a crearsi in breve tempo un discreto seguito locale, e si mettono a caccia di un contratto discografico che arriva nel 1990 con Third Stone Records (divisione MCA) e con distribuzione Atlantic Records. Un anno di gran lavorio e finalmente il disco di debutto è pronto. Rispetto all’anno di nascita della band, battezzatasi Saigon Kick, il 1991 è completamente un’altra era geologica, tutto sta cambiando in ambito rock e metal, e molto è già cambiato, ma il bello è che i Saigon Kick nascono già avanti, proiettati in una dimensione tutta loro che è già di per sé sfidante verso il pubblico, a qualunque pubblico intendano rivolgersi. Pur provenendo dai tardi anni ’80 sono tutt’altro che ancorati a quella decade, semmai vanno ancora più a ritroso, verso ’60 e i ’70, spalmando però sul proprio songwriting una patina di presente e di avanguardia che li allontana da un inquadramento statico e stagnante, di musicisti legati sterilmente alla tradizione.
L’omonimo “Saigon Kick”, prodotto da Michael Wagener, esplode come una bomba… non è vero, a livello di vendite e di attenzione degli organi di stampa e anche di pubblico non è poi questa gran deflagrazione, forse va persino un po’ meglio in Europa che in America, perlomeno di qua dall’Atlantico la percezione è quella. Tuttavia col senno di poi si rivelerà uno di quegli album enormi e un po’ incompresi, che essendo troppo decontestualizzati rispetto al proprio tempo storico non possono essere apprezzati a pieno dai contemporanei. Nella musica 12 mesi sono un lasso di tempo enorme e “Saigon Kick” è catapultato in avanti (e altrove) di qualche anno luce. Packaging in bianco e nero, copertina tanto semplice quanto potente, un collage di quattro foto, una per ogni membro, con Matt Kramer in particolare evidenza poiché il suo urlo catartico infonde dinamismo e grinta al collettivo. Molto carino il logo, il cui font militare non può non rimandare all’area geografica che la band suggerisce col proprio nome (un po’ scomodo), il Vietnam, ferita sempre aperta nel corpo degli americani. Sul retro una foto della formazione di tutt’altro tenore, assai poco metal bensì molto beatlesiana ed elegante, con vaghi elementi psichedelici che mi hanno ricordato i Katmandu di Dave King (ex Fastway) e Mandy Meyer (ex Asia e poi nel gotha dell’hard rock elvetico con Gotthard e Krokus); anche loro nel 1991 pubblicheranno un bellissimo album d’esordio autointitolato, destinato purtroppo a rimanere il loro unico capitolo discografico. La copertina semplice e carica di tensione, il bianco e nero, il primo singolo della band, un’innegabile irrequietezza di fondo dell’album ed indubbiamente gli anni di contesto nei quali “Saigon Kick” viene pubblicato, fanno associare sommariamente la band all’ambito del grunge, influenza che insieme ad altre 112 avrà certamente fatto parte del loro bagaglio di ascolti, e però, se lo sbrigativo recensore avesse ascoltato meno distrattamente….
II – Lucertole imprendibili
Che ai Saigon Kick interessi poco essere identificati come metal è evidente da ogni loro passo. Non solo l’immagine è lontana da quello stereotipo (al netto dei capelli lunghi e di giubbotti di pelle che si alternano però a sciccosissime giacche molto anni ’90 portate alla Miami Vice), ma anche la musica mette da subito in chiaro che l’elemento borchiato è solo uno dei tanti che concorrono a definire i tratti della band. Il fuoco pulsante del disco è la completa eterogeneità della track list, praticamente con ogni brano si entra in un diverso territorio musicale e questo ai Saigon Kick non pare affatto un rischio bensì un punto di forza, una ricchezza che nelle loro intenzioni dovrebbe finire con l’incuriosire ed ammaliare l’ascoltatore. Ci vogliono parecchi ascolti prima che ci si possa stancare di “Saigon Kick” e la verità è che, di fatto, quel punto di caduta non arriva mai, grazie ad un flusso sonoro in continuo divenire, esattamente come i Saigon Kick si proponevano.
Il mio primo impatto con la loro musica avvenne grazie al videoclip di “What You Say”, nel quale Kramer si presenta con un turbante in testa, degli occhialini da sole tondi e dei vistosi orecchini a cerchio, uno strano incrocio tra John Lennon, Renato Zero e Cristiano Malgioglio che non poteva non turbare i metallari del 1991. Se possibile il brano era ancora più scioccante, smaccatamente beatlesiano, poi però intorno ai 2 minuti arrivava un assolo notevolissimo che rendeva di colpo più robusta l’intelaiatura della canzone; poi a quello seguiva di nuovo il dolcissimo ritornello che creava un potente effetto di straniamento. La cosa più prossima ai Saigon Kick che si poteva sentire nel 1991 erano forse i Galactic Cowboys, anche loro debuttanti con un disco omonimo su Geffen, trainato dallo strambo e coraggiosissimo videoclip di “I’m Not Amused”, idealmente affine alla follia autolesionista dei Saigon Kick. In pochi ascolti “What You Say” crebbe dentro di me in maniera smisurata, a tal punto che era impensabile non precipitarmi ad acquistare l’album, assolutamente fuori discussione. Così feci e così iniziò una delle più belle avventure musicali della mia vita.
Le 14 tracce di “Saigon Kick” sono l’incipit di qualcosa di meraviglioso, potrei e dovrei citarle una per una, omaggiandole delle lodi che meritano, nessuna esclusa. A cominciare dall’inquietudine di “New World”, il suo substrato tribale capace di mescolare al contempo il continente africano e il profondo Oriente, appena 5 minuti e 43 secondi nei quali la band dispiega il proprio potenziale, ma abbiamo appena iniziato ad addentrarci nel nocciolo del reattore nucleare. Chitarre feroci, persino acide, i vocalismi di Kramer ineguagliabili per morbidezza e consistenza, ed una sezione ritmica che ti pulsa nelle arterie fino a impossessarsi con prepotenza del miocardio e a dirigerlo a proprio piacimento come fa un direttore carismatico con la propria orchestra. Una dolcissima schiavitù. “What Do You Do” è punk belligerante, come direbbero i Warrior Soul, altra band americana che negli stessi anni sta per sventrare il metal dall’interno con la sua coraggiosa miscela eterogenea di anarchia ed irriverenza. Sono i riff portanti disseminati lungo tutto l’album che ti lasciano esanime a terra, sbranato da una qualità e da una ferinità senza termini di paragone, come in “Acid Rain”, in “Down By The Ocean”, in “I.C.U.”, in “Month Of Sundays” (qui siamo ai limiti del thrash), eppure in “Suzy” il riff spaccaossa si alterna ad armonizzazioni vocali di stampo opposto, affatto aggressive e ostili, bensì mesmeriche, voluttuose e intrise di una melodia inquieta ed enigmatica. Come se non bastasse poi arrivano gli assoli, aggrovigliati, pulsanti e grondanti fiumi di note. Il track by track è la cosa più noiosa che si possa fare per descrivere un album e tuttavia nel caso dei Saigon Kick ogni traccia cela un mondo, un intero spettro sonoro che soverchia e seduce. Una tavolozza di colori esorbitante. Già, i colori… “Colors” è forse una delle più belle canzoni partorite in tutti gli anni ’90 insieme a “What You Say”; oscura, ammantata di un senso di sconfitta e speranza, un ossimoro nel quale le due polarità dello yin e dello yang non finiscono mai di sopraffarsi vicendevolmente. “Coming Home” è probabilmente uno dei momenti più nettamente grunge anche se “sporcato” da una chitarra che credo piacerebbe parecchio a Zakk Wylde. Con “Love Of God” si torna ai Beatles, seme vitale per i Saigon Kick (assieme a David Bowie). “My Life” è quasi una joke song nella quale ad un certo punto salta fuori persino un richiamo per anatre, eppure sentite che razza di meraviglioso ritornello “motivazionale” degno di una pubblicità di purissima e cristallina acqua che sgorga da incontaminate sorgenti di montagna! Anche “Ugly” si caratterizza per un’ironia decisamente tagliente ma subito dopo “Come Take Me Now” arriva ad abbracciarci come una struggente preghiera di commiato.
16 mesi è “Saigon Kick” ha già un successore, si chiama “The Lizard”, come quella bestiolina tanto celebrata da molti eroi del rock, dai Doors ai Thin Lizzy. Grazie anche ad un tour che ha visto la band mettersi in mostra di spalla agli Extreme di Nuno Bettencourt e Gary Cherone, l’album raccoglie molto più consensi ed attenzione da subito rispetto al suo predecessore e viene letto dai Media come un notevole passo in avanti a livello compositivo e di maturità. Io ad essere sincero non ho mai avvertito questo iato così profondo tra i due dischi, non mi pare che “The Lizard” sia un marchiano passo in avanti rispetto a “Saigon Kick”, i lavori si tengono in modo coerente. E’ vero che la track list di “The Lizard” è più omogenea ed in qualche maniera stabilizza maggiormente i cambi umorali dei Saigon Kick, ma fino ad un certo punto, stiamo sempre parlando di una band che fa dell’iconoclastia, dell’imprevedibilità e della variabilità la propria cifra. Basti prendere “Chanel”, la traccia che chiude le danze, due minuti e quarantasei secondi di pura follia. L’artwork dell’album è meno stupefacente ma riguardo al contenuto la voglia di stupire non cessa nemmeno per un istante; una lunga scaletta di 16 episodi che rendono i 53 minuti del disco una parentesi esistenziale di puro appagamento e beatitudine.
“Feel The Same Way”, “Freedom”, “Peppermint Tribe”, “Body Bags” (compresa nella soundtrack del tv movie L’Infiltrato del 1993 con Charlie Sheen e Linda Fiorentino), “Miss Jones” e la meravigliosa title track sono i pezzi che personalmente preferisco, ma come non citare la dinoccolata e saltellante “My Dog”, il riffing urticante di “Hostile Youth”, il senso di sconfitta e l’umor nero di “God Of 42nd Street”, un pezzo che evoca le atmosfere e gli scenari urbani di un Martin Scorsese, e le due ballad (furbescamente trasformate in altrettanti videoclip promozionali) come “All I Want” e “Love Is On The Way”, quest’ultima in particolare guadagna la dodicesima posizione nella Billboard Hot 100 americana, il più alto consenso certificato mai ottenuto dai Saigon Kick in carriera, ma anche “The Lizard” comunque riceve lo status di disco d’oro per le sue 500.000 copie vendute. Nonostante il riscontro molto positivo dell’album il bassista Tom DeFile lascia la band, come sempre con l’arrivo dell’attenzione mediatica e di qualche dollaro in banca le alchimie all’interno delle formazioni subiscono i primi colpi, talvolta sono assestamenti fisiologici talaltra si registrano dei necessari rimpasti. Arriva infatti in sostituzione Chris McLernon, ex Cold Sweat ma anche Cold Gin, ovvero una tribute band losangelina dei Kiss nella quale militano Jaime St. James e Tommy Thayer dei Black ‘N Blue (da sempre un satellite dei Kiss, arrivati al contratto discografico proprio grazie a Gene Simmons).
III – Il colore dell’acqua
Il ferro va battuto finché è caldo e i Saigon Kick tornano in studio per attuare la nota massima secondo la quale “non c’è 2 senza 3”. Eccolo il tre, si chiama “Water” ed è l’album dalla gestazione più difficile per i floridiani. Quello di DeFile evidentemente non era un fuoco di paglia poiché ora addirittura Kramer scalpita, ci sono questioni finanziarie all’interno della band che vengono dibattute e financo la direzione musicale che i Saigon Kick stanno maturando non convince il vocalist appieno, a tal punto che Kramer abbandona durante le registrazioni. La formazione si chiude a riccio e anziché cercare un sostituto è Jason Bieler che decide di farsi carico tanto della chitarra quanto del microfono. Dal vivo infatti la band deciderà poi di avvalersi di Pete Dembrowski come ulteriore chitarrista per supportare il doppio impegno on stage di Bieler. “Water” esce sempre per Third Stone con distribuzione Atlantic, all’incirca sempre 16 mesi dopo “The Lizard”. Bieler scommette vistosamente su se stesso poiché oltre a rappresentare i 2/4 della band ha sostanzialmente scritto tutto il materiale ad eccezione della cover di Bowie “Space Oddity”, per altro restituita in una versione magnifica, una di quelle occasioni nelle quali la cover non solo rende giustizia all’originale ma rivaleggia. “Water” è sin lì l’album meno aggressivo della band, l’elemento metal è assai stemperato e i Saigon Kick mostrano di voler ulteriormente evolvere raffinando il proprio stile e portando avanti sino all’esasperazione la propria ricerca sonora. E però al contempo “Water” è un album di una bellezza cosmica, dotato di tratti di pura genialità misti alle oramai rodatissime doti di qualità ed eleganza di casa Saigon Kick.
“One Step Closer” apre la scaletta al meglio con un giro di chitarra ipnotica e delle melodie di Bieler che sono la quintessenza dell’armonizzazione vocale made in Saigon. Dopo il tributo a Bowie di cui ho già detto, la title track spariglia tutto, un pezzo minimal ed elettronico che punta moltissimo sull’atmosfera e sulla dolcezza delle corde vocali di Bieler. Magnifica. Di contro, “Torture” sfodera un riff di chitarra killer che reinsedia il rock sul trono, ma non senza corredarlo di venature derivanti dai Fab Four. “Fields Of Rape” è un brano il cui languore taglia le carni, lancinante e a tratti doloroso. “I Love You” recupera il mood della title track ed è, come è lecito immaginare, una sbarazzina dichiarazione d’amore. “Sgt. Steve” potrebbe essere una continuazione apocrifa di “Space Oddity”, Bowie regna incontrastato; così come “My Heart” potrebbe essere la seconda parte di “Peppermint Tribe”. “On And On” lascia sedimentare ogni crudeltà e asprezza sul fondo, si prende una pausa dal livore robusto e roboante per indirizzarsi verso una leggerezza ammiccante che sa più di pop che di rock, eppure il basso tesse sornione una tela che pulsa ad ogni giro di boa. “The Way” è un’alba fragile e rarefatta che poi esplode di vigore (e blues) quando il sole giunge allo zenit. “Sentimental Girl” è un tuffo negli anni ’20, ennesima dimostrazione della versatilità e della policromia di una band più unica che rara come i Saigon Kick, capace anche di afflati jazz, per gioco. “Close To You” è un autentico capolavoro, chiudete gli occhi e sarete nel bel mezzo di un safari, chiamati a scegliere se finire nelle fauci di un leone o nel pentolone rituale di un arcigno stregone indigeno. “When You Were Mine” è un film di Truffaut, un addio struggente sotto un ponte della Senna, mentre la Torre Eiffel tenta invano di confortare un cuore spezzato.
“Water” è un album clamoroso affatto compreso appieno anche dagli estimatori della band, forse il passo più eterogeneo, caleidoscopico e complesso della discografia dei Saigon Kick, frutto certamente anche delle battaglie intestine che si combattevano in formazione, esattamente come accaduto dentro le sale prove di band come Faith No More o Rammstein, capaci di trasformare i propri conflitti artistici e financo personali in propellente per la musica. Bieler dà indubbiamente prova di grande talento e stavolta, nel bene e nel male, può lasciar correre il proprio estro a briglia sciolta senza il contraltare di Kramer. Ovviamente per tutti questi motivi “Water” diventa anche l’album che vende meno dei Saigon Kick, motivo per il quale nel 1994 la Atlantic perde interesse verso la band. Fuori dai radar delle major, i Saigon Kick si accasano con CMC International che si occupa di licenziare nel 1995 “Devil In The Details” ad opera di un ensemble che vede riuniti Bieler, McLernon, Varone e Dembrowski, di fatto per il 50% la band è stravolta ed anche il logo classico sparisce dalla copertina per far posto ad un laconico “SK”. Per quanto mi riguarda questo quarto titolo segna una flessione rispetto alla precedente discografia, l’ispirazione è un po’ calata (nella seconda metà della scaletta si avverte in modo piuttosto netto); qua e là i Saigon Kick ripercorrono quanto già detto e fatto non facendo sostanziali passi in avanti, il che forse era anche normale considerando i livelli paradisiaci sui quali si erano attestati sino a quel momento, impossibili da sostenere in eterno. “Devil In The Details” è un album normale di una band straordinaria, e nel frattempo a metà anni ’90 tutto il mondo è completamente cambiato intorno a Bieler e soci, non necessariamente in meglio. “Spanish Rain” fa baluginare certi momenti alla Sting, mentre in “Everybody” tra le righe si avvertono persino aleatorie eco degli Aerosmith. “Eden” è un pezzo molto elegante e gradevole, “Russian Girl” e “Flash And Bone” incarnano fedelmente l’essenza del sound di Saigon che abbiamo imparato a conoscere, “Victoria” pare proseguire il corso delle varie “Chanel” e “Sentimental Girl”, la conclusiva “All Around” si gioca solidamente la carta del punk. Commercialmente la stella dei Saigon Kick è già tramontata, sempre che mai ne sia brillata in cielo una a loro nome. L’album raccoglie ancora meno attenzione di quanto accaduto nel lustro precedente, sembra mettere inesorabilmente la band davanti alla consapevolezza che ogni sforzo è vano, la bottega può chiudere, ed è un dispiacere enorme poiché al netto del fatto che “Devil In The Details” non sia il loro album migliore, lo sarebbe per moltissime band in circolazione.
IV – Astenia compositiva
Nel 1998 esce una compilation di tracce demo assemblate da Bieler, “Moments From The Fringe”. Ad aprire la raccolta “Dizzy’s Vine”, registrata dalla line-up originale temporaneamente riunitasi nel 1997, non esattamente un brano indimenticabile. Un anno dopo Bieler ha oramai trasformato i Saigon Kick in un progetto praticamente personale, si occupa di cantare, suonare la chitarra, del programming e della produzione, consuetudine che risale ai tempi di “The Lizard” (praticamente tutti gli album dei Saigon Kick portano la sua firma in fase di produzione eccezion fatta per il debutto). Con lui il fidato nuovo sodale Dembrowski alla chitarra. McLernon è relegato ad appena un paio di tracce di basso, la cover di Billy Joel “Big Shot” e “Nearer” (unica traccia sulla quale compare anche Varone alla batteria), per il resto le pelli sono affidate a tale Rick Sanders. Di cosa sto parlando? Dell’album “Bastards”, pubblicato nel 2000 solo per il mercato asiatico su Pony Canyon Inc. Si tratta senza dubbio del disco più debole della carriera della band, anche se in effetti si dovrebbe parlare di un capitolo solista di Bieler. Non graffia, non inventa, a tratti non ha proprio del buon materiale da offrire tra i propri solchi (come “We Never Met” e le sue irritanti venature Oasis). Anche considerando che l’uscita è stata destinata al solo Oriente sarebbe bene lasciarlo lì e non curarsi troppo di questo quinto sforzo discografico che affonda decisamente le quotazioni dei Saigon Kick. Al confronto “Devil In The Details” è il “White Album” dei Beatles. Sempre nel 2000 Bieler partecipa anche al progetto Super TransAtlantic che riunisce 3/4 di Saigon Kick (Bieler, Dembrowski, Sanders) e Pat Badger degli Extreme al basso nell’unico album “Shuttlecock”, stampato da Universal e trainato dal singolo “Superdown”, finito nientemeno che nella colonna sonora del noto film d’essai American Pie.
Riposizionando le lancette dell’orologio di un paio d’anni indietro occorre mettere a verbale che Bieler già dal ’98 ha iniziato una vera e propria carriera solista a proprio nome, pubblicando in modo indipendente il lavoro “Houston, We Have a Problem”. Dopo una criogenia di un ventennio torna alla carica nel 2018 con “Where Dreams Go To Die”, quindi nel 2021 con “Songs For The Apocalypse” ed infine (ad oggi) con “Postcards From The Asylum”. Oggi questo sembra essere il suo percorso e per fortuna nessuno è tornato a scomodare dal loro sonno ventennale i Saigon Kick, nemmeno Bieler che sembra soddisfatto del suo giocattolo solitario, nel quale comunque fotografie di Saigon di tanto in tanto affiorano eccome. Mi auguro che tutto rimanga così e che la bellezza e la magia dei Saigon Kick non vengano sfigurate da improbabili reunion geriatriche. Qui lo dico e qui lo riaffermo: i Saigon Kick sono a mio gusto e parere la miglior cosa partorita dai travagliati, problematici, cangianti e complicati anni ’90, un decennio che ha distrutto e ricostruito la musica rock e che ci ha anche consegnato la sua gemma più preziosa, i ragazzi venuti da Miami…. pardon, da Saigon.