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Sadus

COME ESSERE I MIGLIORI E NON SAPER FAR FRUTTARE UN POTENZIALE ENORME

Nonostante violenza, creatività e tasso tecnico abbondassero in casa Sadus, la band californiana è stata penalizzata due volte, accusata di eccessiva dipendenza dagli Slayer prima, esaltata e contemporaneamente limitata dalla ingombrante figura del “magic man” Steve DiGiorgio dopo. Cinque album, una doppietta da infarto per cominciare e poi un progressivo assestamento su sonorità sempre più mediate e ragionate, che sono costate ai Sadus la diaspora di un numero crescente di fans. Fermi da oltre tre lustri, ufficialmente mai sciolti, mentre DiGiorgio si appresta a partecipare con la sua band di liscio-fusion-death-doom pure alla prossima sagra del cinghiale dell’Illinois vostra.

Contenuti:

1. Death to posers, hail the thrashers (1984 – 1990)
2. Chemical Warfare (1991 – 1992)
3. Bulloni, ingranaggi e oscurità (1993 – 1998)
4. Alla ricerca (morigerata) di sangue (1999 – 2006)
5. DiGiorgio: segno più o segno meno?

1 – Death to posers, hail the thrashers

Da Antiochia venivano San Luca l’evangelista, Giovanni Cristosomo e Ignazio (santi e dottori della Chiesa), Sara (pure lei santa), Luciano, Efisio e Margherita (santi e martiri). E i Sadus, santi e thrashers del metallo. La Antiochia di questi ultimi però è in California, non in Turchia come quella delle donne e degli uomini pii. L’anno domini di fondazione è il 1984 (lo stesso di “Haunting The Chapel”, teniamolo a mente). Darren Travis (voce), Rob Moore (chitarra), Steve DiGiorgio (basso) e Jon Allen (batteria) sono le quattro teste pensanti che partoriscono la band ed il suo ferocissimo monicker. Anzi per la verità questo viene suggerito da un amico comune, il quale si ispira al romanzo Dune di Frank Herbert (“sadus” è il termine con cui in lingua fremen si intendono i giudici). Per i primi due anni c’è solo la sala prove e il germogliare di un humus propedeutico alla prima produzione effettiva, il “Death To Posers” demotape (’86). Si intuisce subito che le idee sono chiare e nette, siamo già alle crociate ideologiche con il primissimo vagito registrato su nastro. La convinzione dei nostri miete subito consensi visto che due tracce contenute nel demo entrano a far parte della compilation “Raging Death” della Godly Records. E dato che qualche responso positivo a quanto pare c’è, i Sadus si fanno trovare prontissimi e investono su loro stessi, tirando fuori tutti gli spiccioli dai rispettivi salvadanai e autofinanziando il debut “Illusions”, con stipendio a latere per il chitarrista dei Metal Church, John Marshall, che funge da sound engineer.

I Sadus sembrano uscire dalle remote profondità dell’inferno, mentre un sibilo progressivamente si fa spazio nell’aria per poi esplodere in un devastante attacco in tupa-tupa. Benvenuti nell’era atomica, il biglietto di presentazione del quartetto reca una firma leggerissimamente familiare, quella degli Slayer (che nel frattempo sono arrivati a “South Of Heaven”). “Illusions” è una specie di devoto, granitico, tostissimo omaggio ai creatori di “Hell Awaits” e “Reign In Blood” con, in un subordine, anche un leggero flavour Kreator (con ben altro bagaglio tecnico, si intende). Qualcuno si affretta a bollarlo come una mera clonazione degli stilemi made in Huntington Park, ma quello che i Sadus intendono fare non è essere come gli Slayer bensì far male come gli Slayer. “Illusions” è un disco che dura 29 minuti e 7 secondi, indovinate quanto è lungo “Reign In Blood”? 8 secondi in meno, giusto il tempo di attaccare il jack e accendere l’ampli, poi siamo lì. Una fiammeggiante corsa sulla motorway della morte, distruzione incondizionata, insubordinazione verso le regole del viver civile; a scorrere la tracklist si sente l’odore del sangue, da “Undead” a “Torture”, da “And The You Die” a “Hands Of Hate” è ultraviolenza allo stato puro, con pochissime e sparute parentesi di defatigamento. La sensazione è quella di essere montati (alla bersagliera) su una bicicletta senza freni in cima ad una discesa ripidissima; ammesso e non concesso che arriviate in fondo – vivi intendo – sarà comunque “malissimo” il superlativo assoluto da adottare a fine corsa.

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II – Chemical Warfare

La prima cosa che colpisce, anzi la seconda – perché la prima è indubbiamente la velocità – è la voce di Travis, un Cristo con la corona di spine sulle tonsille. Una timbrica che va oltre il thrash, che ha la disperazione e l’arrembaggio del black metal (che per ora si traduce nei rantoli di Quorthon, nelle sferragliate vocali di Tom Angelripper e delle band della Cogumelo Records). I Sadus riescono a dar vita ad un precario equilibrio che tiene insieme violenza, bpm e tecnica. Solitamente spaccare tutto mette a repentaglio la leggibilità del songwriting; viceversa, una gran padronanza degli strumenti diffida della velocità ultrasonica. Ecco, per i Sadus queste regole non valgono, la band possiede entrambe le componenti, anche se per cogliere l’aspetto “tecnico” occorre più di un ascolto, perché è fisiologico che inizialmente si venga perlopiù inondati e schiacciati dalla furia inarrestabile del contachilometri. Tuttavia il mostruoso lavoro di basso fretless di DiGiorgio si sente eccome. Gli assoli sono di stampo abbastanza slayeresque e il drumming di Allen sconquassa come i terremoti che a scadenza regolare mettono la California a rischio sgretolamento nel Pacifico.

Solo dopo un po’ i Sadus riescono a racimolare i soldi per pubblicare l’album anche in formato musicassetta oltre che vinile. Optano per un diverso artwork perché quello originale mal si adatta al formato cassetta. Pensa che ti ripensa, la band si focalizza sull’outro del disco, “Chemical Exposure”, che diventa il tema concettuale della nuova edizione nonché pure il nuovo titolo dell’album. Questo ovviamente contribuisce a generare per un po’ di tempo qualche confusione, fino a che nel ’91, quando il debutto viene ristampato da Roadracer, sia su vinile che su cassetta e CD, assume definitivamente il titolo di “Chemical Exposure” per ogni formato. La label newyorkese si prende ufficialmente in carico i Sadus con “Swallowed In Black”, seconda prova in studio del trio spaccatutto. E’ con quel teschio di pioggia e fango che la band entra negli anni ’90. Per molti “Illusions” rimane sempre e comunque la miglior prova dei Sadus, qualche anima generosa su Metal Archives si è spinta addirittura a ritenere quello l’unico vero grande album partorito dai Sadus. Personalmente metto “Swallowed” allo stesso livello. Sarà che è il disco con il quale ho conosciuto il gruppo, e come è noto il primo amore non si scorda mai, sarà che la Produzione è una spanna superiore e che i meccanismi sono fisiologicamente più rodati rispetto all’esordio, ma è indubbio – ed anche abbastanza oggettivo – che “Illusions” non sia l’unico grande album inciso dai Sadus.

“Swallowed” ha tutto, fatto, assortito e sviluppato (forse) meglio. E’ “Illusions” più raffinato; ci sono rallentamenti strategici che donano un’atmosfera malsana e tesissima alle composizioni, così come anche Darren Travis dosa meglio quell’assurdo timbro vocale da pazzo maniaco, calibrando con più maturità il suo attacco assassino alle coronarie dell’ascoltatore. I bei pezzi si sprecano, inutile stare a fare l’elenco della lavandaia; certamente da mettere in evidenza la lucida carica di violenza di “In Your Face”, 61 secondi di rilascio di adrenalina a scopo punitivo, come raramente è capitato di sentire anche da parte delle più feroci e sanguinarie thrash metal band. Una specie di saggio del potenziale che i Sadus sono in grado di sprigionare, concentrare tutto in un minuto, come applicare la categoria del virtuosismo alla rabbia (una rabbia “controllata” e gestita, anziché incontrollabile e indomabile, come per sua natura dovrebbe essere). Nonostante l’artwork mostruoso e il livello di angheria sonora messi in evidenza, i Sadus hanno l’acume di non andarsi a impelagare nei soliti testi a base di serial killer, frattaglie e satanassi da discount, quanto piuttosto concentrarsi sulla vita reale. Altro punto a favore. Velocità, tecnica, complessità, aggressività, financo epicità, un cocktail degno dei più grandi barmen (o dei peggiori bar di Caracas, se preferite).

III – Bulloni, ingranaggi e oscurità

Due anni e il Sadismo trova una nuova dimensione dell’essere: “A Vision Of Misery”. Già dando semplicemente un’occhiata alla scaletta si inquadra il desolante paesaggio messo a fuoco dai Sadus. Attraverso gli Occhi dell’Avidità, La Valle delle Ossa Inaridite, Macchine, Schiavo della Sofferenza, Gettando via il Giorno, etc. Praticamente è il deserto, quello degli umani patimenti, del disagio e dell’angoscia, quello a cui è sottoposto ogni essere vivente stritolato dalla modernità, dalle convenzioni sociali e soprattutto dalle ingiustizie che quotidianamente si consumano ai danni dei più deboli. Alla consolle siede Bill Metoyer. Il quartetto delle meraviglie nel frattempo è avanzato di molte caselle sul tabellone dell’ultratecnica e della maturazione del songwriting. Non a tutti questo percorso pare un’evoluzione; la violenza belluina viene addomesticata, o meglio, ingarbugliata in una Produzione più fredda e chirurgica, e in un procedere delle architetture thrash che non prevede la bava alla bocca per contratto ma una logica molto puntigliosa e arzigogolata (perlomeno rispetto alle passate release di marca Sadus).

La band si è proiettata nel futuro. L’aria nuova che soffia sul decennio entrante influenza anche i cattivissimi Sadus. Ovvio che i nostri non si dedichino né al grunge né a contaminazioni spericolate, tuttavia una revisione del loro modo di fare thrash metal c’è e viene messa agli atti con un terzo album più variegato, oscuro e meditato dei precedenti. L’artwork riproduce degnamente l’arrovello mentale che le contorsioni e le spigolosità del nuovo Sadus sound liberano. DiGiorgio ha già inciso “Human” con i Death (e a breve arriverà pure “Individual Thought Patterns”), e c’è chi dice che l’influenza di Schuldiner si riverberi in qualche modo anche sui Sadus, che con “A Vision Of Misery” incidono il loro “Human”. Elementi più groove e industriali fanno capolino pur senza sfigurare l’approccio Sadus. C’è più sperimentazione, più estroversione, più articolazione nelle partiture, il rovescio della medaglia è una minore immediatezza. “Machines”, “Facelift”, “Deceptive Perceptions” sono episodi rappresentativi di questa parte di carriera dei Sadus. Il drumkit col quale viene registrato il disco è quello di John Shafer degli Hexx.

Cinque anni sono un’eternità se trascorrono durante i temibili ’90 che tutto deflagrano e scompongono. Da “A Vision Of Misery” a “Elements Of Anger” è esattamente un lustro che passa; in quel quinquennio i Sadus ne vedono scorrere di ogni, e soprattutto ne ascoltano di ogni. Il metal viene atomizzato e ricostituito in tutt’altra forma, e i Sadus sono musicisti molto recettivi. Anche il loro modo di suonare, per altro in evoluzione sin dal primo giorno, si permea delle vibrazioni circostanti e restituisce all’audience inedite livree sonore. Intanto c’è il passaggio di etichetta, addio alla Roadracer e firma per Mascot Records, non esattamente una label nota per il suo roster death/thrash. I Sadus assumono sempre più la nomea di novelli progsters. Nomea che non è affatto campata in aria poiché, se le avvisaglie si erano già viste con “A Vision”, diventano cristalline con questo nuovo capitolo della storia della band. La velocità, elemento caratterizzante dei Sadus, si congeda (con buona pace dei fans dell’ultraviolenza) e cede il palcoscenico a suggestioni sempre più cupe e psicologiche.

L’album è interessante, valido e degno di essere esplorato in ogni suo (cavernoso) anfratto, tuttavia è comprensibile quanto il pubblico che magari ha conosciuto la band sin dagli esordi possa rimanere spiazzato (sulle prime) e deluso (sulla lunga distanza). Togliere crudezza e speditezza ai Sadus e un po’ come privare i Deicide del satanismo, i Nile dei faraoni, King Diamond della nonna morta, i Manowar degli anabolizzanti, Malmsteen dello specchio, non è esattamente un passaggio indolore. I Sadus dal canto loro hanno di buono che se ne fregano di cosa la gente si aspetti, e marciano convintamente sulla propria strada (sicuramente sotto l’influenza di DiGiorgio). Convinti, ma forse non del tutto compatti, la formazione infatti si riduce di un elemento; Moore si trasferisce nei massicci deathsters Baphomet (i quali tuttavia col secondo “The Dead Shall Inherit” del ’92 chiudono la propria carriera). L’album viene pubblicato un anno prima in Europa e solo nel ’98 sbarca in America (dove ovviamente era arrivato comunque di importazione). Orrida la copertina, che rientra in quelle grossolane composizioni di computer grafica che a cavallo dei 2000 (s)fregiano molti album (e che probabilmente raggiungono l’apice della bruttezza con “Dance Of Death” dei Maiden).

IV – Alla ricerca (morigerata) di sangue

Dopo “Elements Of Anger” la carriera dei Sadus va in stato criogenico. La band non si scoglie ma cade in una lunga catalessi, tempestata dai progetti solisti, alternativi e collaborativi di DiGiorgio, pari ad una pioggia di meteoriti sui dinosauri. I bestioni si estinsero alla fine del Cretaceo, i Sadus invece si limitano a non presenziare e a non pubblicare, in attesa di tempi migliori, della giusta ispirazione compositiva e di un quarto d’ora di tempo libero del divo bassista. I fatidici quindici minuti arrivano nel 2006 quando, sempre sotto Mascot, il gruppo dà alle stampe “Out For Blood”. “Elements Of Anger” non ha esattamente strappato consensi a scena aperta tra i fans della band e del thrash, il progetto si è ibridato e contaminato troppo con elementi heavy metal e progressive, e questo ai portatori di chiodo borchiato più intransigenti non sta granché bene. La quarta produzione di casa Sadus è stata probabilmente quella meno apprezzata dagli esordi ad ora. Anche per questo “Out For Blood” prova a ricalibrare un po’ il tiro. Senza riuscirci in modo esaustivo però. Quella che ad oggi rimane l’ultima produzione dei Sadus si colloca un po’ a metà strada tra “Elements” e la passata produzione. In alcuni passaggi il sound torna ad essere nuovamente caustico e corrosivo, tuttavia i Sadus non abbandonano del tutto quei fraseggi più tesi, meditati e sperimentali, nei quali la velocità decresce e sentimenti come rancore, angustia e ostilità si mascherano di negatività a lento rilascio.

Col senno di poi, “Out For Blood” se la gioca con “Elements Of Anger” quanto ad album della discografia Sadus meno gradito dai fans. Qualche minuto noioso al suo interno lo contiene, a dimostrazione del fatto che non sempre picchiare duro e veloce si traduce di per sé in un risultato garantito. Affiora un po’ di ripetitività e a tratti l’album pare non avere un punto di ricaduta chiaro. E’ possibile cogliere qualche spunto “core” e modernista, anche se coerentemente inserito e metabolizzato in chiave Sadus. The Haunted, Soilwork, Korn, persino Limp Bizkit, sono stati nomi evocati per descrivere i Sadus del 2006. Concretamente non c’è un’influenza così diretta e smaccata di queste band in realtà, anche se “Out For Blood” rappresenta la spinta più oltranzista dei Sadus nel thrash metal di un’altra generazione. Ci sono pure due ospiti di eccezione, Juan Urteaga (Vile) e Chuck Billy, mentre “Freedom” è dedicata ad un altro Chuck, da sempre nel cuore dei ragazzi: Schuldiner. A conti fatti, dopo due album fantastici come “Illusions” e “Swallowed In Black”, e dopo una transizione comunque solida e credibile come “A Visions Of Misery”, i Sadus finiscono con lo sperperare un patrimonio di credibilità e aspettative che purtroppo non potranno mai più recuperare.

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V – DiGiorgio: segno più o segno meno?

Cosa accade dopo “Out For Blood”? La band muore? Si separa? No, ufficialmente risulta ancora attiva, ma inoperosa. Di anni ne passano troppi, visto che siamo arrivati al 2022 e di nuove produzioni manco a parlarne. DiGiorgio nel frattempo ha mille balocchi a cui dedicarsi. Universalmente riconosciuto essere il jolly dei Sadus, il fuoriclasse, il Cristiano Ronaldo della situazione, è un indubbio padrone del proprio strumento, che lo rende un top player, ed al quale ha succhiato via ogni possibile segreto e mistero. A scorrere la lista delle sue partecipazioni artistiche c’è di che aver paura: Testament, Artension, Death, Control Denied, Dragonlord, Sebastian Bach, Ephel Duath, in totale oltre una ventina di band. Fa il paio con un altro bassista prezzemolino e quotatissimo all’interno della scena metal, Sharlee D’Angelo (il quale per altro ha militato alla fine dei ’90 in una band death/thrash danese chiamata, guarda un po’, Facelift, come la canzone dei Sadus). DiGiorgio ha finito con l’essere croce e delizia per i Sadus. Il suo peculiare stile fretless ha reso celebre e immediatamente riconoscibile la band tra altre mille. La sua perizia esecutiva ne ha nobilitato le composizioni, la crescita in chiave progressive è certamente un merito (o una colpa) da ascrivergli in larga parte, e per anni il brand “DiGiorgio” ha contribuito a portare avanti la carretta dei Sadus, anche quando le uscite si sono vistosamente diradate. Tuttavia è facile immaginare che i 2876 impegni discografici del ragazzone dell’Illinois abbiano pure influito sulla crescita, lo sviluppo e la frequenza delle produzioni discografiche dei Sadus.

La band aveva una superstar in formazione dalla quale è dipesa, nel bene e nel male; senza DiGiorgio non si andava avanti, d’altro canto per i molteplici progetti paralleli di DiGiorgio neppure si è andati avanti. I Sadus non mancavano di grandi musicisti, se non ultratecnici (ma Jon Allen lo è, eccome, tanto da militare con DiGiorgio nei Dragonlord di Eric Petersen) quantomeno strabordanti di personalità. Ognuno per la sua quota parte è stato oscurato da DiGiorgio. Come se nei Sadus la voce di Travis, la chitarra di Moore (affiancata pure da Travis) ed il drumming di Allen non fossero ognuno di per sé un valore aggiunto, inestimabile e peculiare della band, 1/4 dell’alchimia che ha dato vita e carattere al monicker Sadus. Quel carattere che ha permesso ai nostri di emanciparsi dal giogo slayeriano, anche se ancora c’è chi, per pigrizia, li associa tout court alla band di King e Araya e buonanotte. Difficile ritenere che la produzione mediana dei Sadus abbia poi così tanto a che spartire con i Signori del tupa-tupa.

Discografia Relativa

  • 1988 – Illusions (Chemical Exposure)
  • 1990 – Swallowed In Black
  • 1992 – A Vision Of Misery
  • 1997 – Elements Of Anger
  • 2006 – Out For Blood

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