A un certo punto dei rockettari mangiacrauti amanti del prog scoprirono l’insospettabile fascino del metallo quadrato e picchiaduro. Un sogno durato appena un quinquennio e finito nel più “turpe” dei modi….
Contenuti:
1. Via gli elmi di Sassonia dalla testa, d’ora in poi si Risk-ia! (1974 – 1987)
2. Dalla Giungla alla città, l’ascesa di quattro brutti ceffi e di un futuro supereroe (1988 – 1989)
3. Arrivati al massimo delle possibilità si cambia pelle. La rinascita (1990 – 1992)
4. Hybris o sincera esigenza di sperimentazione? Il sasso è lanciato troppo lontano e il giocattolo si rompe (1993)
1 – Via gli elmi di Sassonia dalla testa, d’ora in poi si Risk-ia!
Nel 1974 i Faithful Breath della Renania Settentrionale pubblicano il loro debut discografico, “Fading Beauty”. Sei album in studio in tutto e passano alla storia come quei metal-progsters tedeschi con gli elmi sassoni in testa, le belle copertine, canzoni di 16 e anche 21 minuti ad occupare interi lati dei loro album, e la successiva trasformazione nei Risk a partire dal 1986, metal band quadratissima e di altrettanto scarso successo.
Come Risk sono durati poco, appena un lustro, era andata meglio come Faithful Breath, almeno i lustri erano stati due (quasi quattro se si considera gli anni dalla formazione alla prima incisione ufficiale). Rispetto a “Fading Beauty”, un solo musicista si travasa nel debut dei Risk – “The Daily Horror News” – ovvero Heinz Mikus, ascia ed ugola. Gli altri “respiri fedeli” erano il batterista Jürgen Düsterloh (purtroppo morto nel 2014), unitosi alla prog band nell’83 all’altezza del quarto album “Hard Breath”, e il bassista Peter Dell che invece li raggiunge per “Skoll” (’85), ultima produzione prima di un live e di una compilation d’addio che esce nell’89, quando i Risk si sono già fatti sentire con due dischi.
Fuori dallo stretto ambito teutonico, dove il metal comunque aveva un suo zoccolo fedele e sicuro di pubblico autoctono, i Risk non hanno mai incontrato parecchio. Spesso li sentivi citati più per le divertentissime copertine zoologiche di Sebastian Krüger che per la loro musica. In epoca pre internettiana gli unici veicoli di diffusione di informazioni erano le testate giornalistiche specializzate, che mica sempre poi erano così specializzate, visto che capitava anche di veder assegnati i Risk al filone del power metal melodico e squillante di marca helloweeniana, probabilmente solo perché entrambe le band erano tetesche di Cermania, jawohl!
Accept, Stormwitch, Helloween, i Risk non assomigliavano schiettamente a nessuno di questi gruppi, men che mai avevano a che spartire con Kreator, Sodom o Destruction. Mostravano una certa idiosincrasia per la melodia, o perlomeno la intendevano a modo loro, con gli spigoli; non erano solo e soltanto heavy metal, perché il suono duro e aspro delle loro produzioni sembrava avvicinarli quasi al thrash metal, idem la sostanziale assenza di ritornelli facili di grande immediatezza. Tutto vero, d’altra parte però era anche vero che i Risk non erano una thrash metal band, non picchiavano poi così duro e all’improvviso un loro assolo poteva andare a pescare addirittura tra suggestioni neoclassiche. Insomma, gravitavano un po’ lì nel mezzo, tra heavy e thrash.
II – Dalla Giungla alla città, l’ascesa di quattro brutti ceffi e di un futuro supereroe.
“The Daily Horror News” è un signor debutto. Si potrebbe stare ore a guardare l’artwork di Krüger, un po’ come sull’isola di Albione era accaduto per il team Iron Maiden/Derek Riggs/Eddie. Quel gruppetto di animali della giungla erano un film nel film (altro che Madagascar!), impossibile resistere alle loro immaginarie imprese. La scimmia con la cresta punk, il piranha, l’ippopotamo con gli occhiali e il cappellino con la scritta “mosh”, il coccodrillo borchiato e la radio che dava le ultime notizie, naturalmente all’insegna del rock duro, quello dei Risk. La tracklist era un discreta mazzata, l’album più ostico dei Risk, perché il più irruento ed il meno attento ad irretire l’ascoltatore. Pure “Dirty Surfaces”, per dire, sparerà dei discreti proiettili, ma nel ’90 il senso melodico della band sarà già più maturo. Il “Daily Horror” è una specie di sfogo dopo gli anni da ragionieri del prog, la band vuole liberare rabbia ed energia, butta giù le canzoni senza stare neanche ad infiocchettarle troppo con una produzione calibrata. Metallo doveva essere e metallo era. Personalmente amo molto questo album, ma devo anche ammettere che nella produzione dei Risk non trovo vere e proprie falle (sebbene per “Turpitude” vada fatto un certo discorso… e lo faremo).
Il mondo va avanti tranquillo senza accorgersi che intanto i Risk producono dischi e si danno un gran da fare (per esempio vanno in tour con i Sabbat di Andy Sneap e Martin Walkyier e con i Rage). Ma anche i Risk se ne fregano, e marciano a testa bassa. “Hell’s Animals” arriva a tambur battente. La combriccola stavolta sbarca in città, tutte le bestiole sono in sella ad un chopper super custom con tanto di alloggiamento sidecar. Il loro look si arricchisce di jeans, stivali, magliette volgari, giubbotti di pelle, orecchini e stendardi pirateschi. Sul ciglio della strada un povero topolino depresso e ciucco di Jack Daniel’s (to be continued….). La formazione passa da quattro membri a cinque, con l’ingresso di Thilo Hermann che indovinate un po’ in quale band aveva suonato? Bravi, i Faithful Breath (ma brevemente anche negli Holy Moses di Sabina Classen). Hermann fa la coppia d’assi con Romme Keymer, ex Angel Dust, mentre Mikus è oramai passato dietro il microfono tout court.
“Hell’s Animals” è “T.D.H.N.” leggermente più consapevole ed elaborato. C’è meno furia berserk a testa bassa ed un po’ più di confezione, ma i Risk non si snaturano, anzi si confermano. Il loro sound è quello, metal verace e inespugnabile come un fortino. I chorus sono più ragionati. La seconda facciata (dell’allora vinile) non è all’altezza della prima e si registra qualche piccolo calo (anche qualche fuori tempo su “Mindshock” mi pare), ma complessivamente siamo al cospetto di una release più che soddisfacente. Anche la produzione si fa più pulita e intellegibile rispetto al caos (controllato) del debut. In “Sicilian Showdown” i Risk ci prendono pure un po’ per i fondelli. Dal vivo stavolta, in tutta Europa e non più solo in Germania, aprono nientemeno che per i Manowar.
Sempre dell’89 è anche l’Ep “Ratman”, quello per il quale i Risk hanno risk-iato di essere più conosciuti (15.000 copie vendute), data la fenomenale copertina paracula del solito Krüger. Il primo lato è occupato dai 10 minuti della suite dedicata al mitico supereroe che, sebbene in veste assai dimessa, aveva già fatto la sua comparsa su “Hell’s Animals”. Quindi altre tre tracce sul lato B, tra le quali l’autoironica e fracassona “Germans”, una stilettata thrashissima (con la acca) in odore di Nuclear Assault. I Risk continuano a flirtare col thrash.
III – Arrivati al massimo delle possibilità si cambia pelle. La rinascita.
Puntualissimi, ad un anno dal precedente full-length, i Risk tornano nei negozi con “Dirty Surfaces”. Scimmia, Hippo, Cocco, Piranho e Ratman se la vedono addirittura con lo squalo, ma eroicamente la scimmia gli fa un bel dito medio sul muso, mentre un’onda alta 5 metri incornicia la scena. “Dirty Surfaces” arriva a chiudere una fase, quella dei primi Risk, nella quale album dopo album hanno costruito una propria solidità e fisionomia, e che in questo disco vengono sublimate al massimo delle potenzialità. “Dirty Surfaces” è il meglio dei Risk in ogni aspetto, produzione, songwriting, aggressività, melodie, tecnica (25.000 le copie vendute, è l’apice anche commerciale della band, e si va in tour con i Running Wild). Un gran pezzo dopo l’altro per tre quarti d’ora di assoluto godimento e divertimento all’insegna di una discreta varietà di combinazioni, comprese tra le due ali estreme, lo schizzatissimo up-tempo “Pyromaniac Man” e la semi doomish “Blood Is Red”. A fianco della scanzonata ironia delle loro mascotte, i Risk scrivono anche testi seri e sentiti, come ad esempio “Warchild” (i bambini e le guerre), “Blood Is Red” (il razzismo) o “Bury My Heart” (i nativi americani a Wounded Knee).
“The Reborn” è una ripartenza per i Risk. Stavolta aspettano due anni e il disco che danno alle stampe spiazza abbastanza il loro pubblico (per quanto limitato numericamente potesse essere). Dimenticatevi la caciara del “Daily Horror”, dimenticatevi lo speed metal che spesso e volentieri aveva fatto capolino nelle loro partiture, dimenticatevi le risate a sganascio e dimenticatevi i figli della giungla in copertina (visto che non c’è più Sebastian Krüger, ma arriva al suo posto Andreas Marschall). I Risk sono cambiati, hanno mutato pelle e coraggiosamente sparigliano le carte. Le danze si aprono con la lunga e strutturata “Last Warning”, una cavalcata che cresce con gli ascolti. Alla prima infatti si rischia di non cogliere l’essenza, la complessità e la profondità dell’album (un concept sull’uomo, imparentato con religione e filosofia), fatto di micro accumulazioni e stratificazioni sottili, affatto eclatanti.
“The Reborn” è un disco prog nello spirito anche se non nella forma. Forse tornano in auge gli anni dei Faihful Breath, ma mediati dall’esperienza fatta intanto con i primi tre album a marchio Risk (dunque l’immediatezza del metal in 4/4) e con un nuovo afflato derivante addirittura dagli Iron Maiden. Da registrare anche un cambio in formazione, con l’avvicendamento di Christian Sumser per Thilo Hermann (che timbrerà poi il cartellino anche con Running Wild e Grave Digger negli anni successivi). “The Reborn” è forse l’album più “alto” ed ambizioso dei Risk, il divertimento fa spazio alla riflessione senza che però la band perda mordente o carisma per questo, anzi guadagnando un fascino che solo i comici che si danno a ruoli drammatici sono in grado di ottenere. E si va in tour con i Raven.
IV – Hybris o sincera esigenza di sperimentazione? Il sasso è lanciato troppo lontano e il giocattolo si rompe.
Qualcosa sta accadendo in casa Risk, i ragazzi quasi non si riconoscono più. Appena 5 anni sono passati da “The Daily Horror News” ma qui siamo al cospetto di una band pesantemente rivoluzionata. “The Reborn” era stato un esperimento temerario ma riuscito, e forse i fans sarebbero anche stati disposti a seguire la band su quel tracciato. Ma manco il tempo di abituarsi che i Risk fanno un’altra piroetta. Altro che Iron Maiden, qui c’è l’onda lunga del “Black Album” dei Metallica. “Turpitude” è qualcosa di completamente diverso. Toni dark, rallentati, un artwork criptico e spersonalizzante, delle vocals che vanno a cercarsi filtri, effetti e raddoppi. Cosa diavolo vogliono fare i Risk? Le atmosfere si fanno viscose, asfissianti, serissime, quasi depressive, dove cacchio è finita la giungla di re George e la sua corte di bestioline cartoonesche?
In tutta sincerità l’album non è neppure tutta questa orrendevolezza (sebbene non sia nemmeno di grandissimo impatto), ma è privo del minimo tiro, e soprattutto è il disco sbagliato per la band sbagliata nel momento forse giusto, quello in cui il bisogno di introspezione post edonismo anni ’80 trovava terreno fertile un po’ ovunque. I Risk non hanno riscontri felici da pubblico e critica, e non hanno nemmeno le spalle sufficientemente larghe per continuare su questa strada. Tornare indietro sarebbe impensabile, riproporre le sonorità di “Dirty Surfaces” significherebbe farsi ridere dietro, mentre tutti son intenti a pontificare controvento con i capelli spettinati e la camicia di flanella. Che fare? Semplice, darci un taglio e chiuderla lì prima di far danni maggiori. I Risk appaiono svuotati, non c’è nessun travaso verso altre band, la storia finisce così, dopo una manciata di buoni album che però non hanno fatto la storia. Risk, operai del metal come decine di altre band, una carriera senza neppure un videoclip ufficiale e nessuna reunion all’orizzonte. L’incarnazione dei loser perfetti.
Discografia Relativa
- 1988 – The Daily Horror News
- 1989 – Hell’s Animals
- 1989 – Ratman (EP)
- 1990 – Dirty Surfaces
- 1992 – The Reborn
- 1993 – Turpitude