Tutto si può dire dei Princess Pang di Jeni Foster tranne che fossero avidamente intenzionati a perseguire fama, successo e denaro a prescindere. Una decisione, una sola e semplice decisione, presa su un palco di Birmingham, li ha cancellati per sempre, senza appello e senza pentimenti. Dopo, la clessidra non ha fatto altro che ricoprirne il nome con sabbia incessante. Un lustro di vita, un album, undici canzoni, e qualche sparuto rocker ai quattro angoli del globo a rievocarne le gesta.
Contenuti:
1. New York/Stoccolma, andata e ritorno in business class
2. Jeni crea, Jeni distrugge
Gli altri si arrangiano
3. Successo a tutti i costi? No grazie
4. Hybris o sincera esigenza di sperimentazione? Il sasso è lanciato troppo lontano e il giocattolo si rompe
1 – New York/Stoccolma, andata e ritorno in business class
La leggenda, ed anche qualche pagina internet, narra che tutto ebbe inizio l’ultimo giorno del 1984, quando in un locale di Manhattan Jeni Foster, ex Rox e Breakout, incontra Rozen “Ronnie Roze” Johansson, bassista svedese a cui sta per scadere il visto per gli States. I due si piacciono subito, a tal punto da progettare una band assieme, ma il tutto deve necessariamente avvenire in Europa, causa ufficio dell’Immigrazione americano. E’ grazie all’interessamento di un’amica di Rozen che arrivano altri membri per il gruppo, ben due chitarristi (Stefan “Sterta” Byrstedt e Andy Tjernon), mentre alla batteria si avvicendano in diversi prima dell’insediamento di Peter “Trunk” Forsberg. Non ci vuole molto per coniare un nome per il gruppo, Princess Pang salta fuori da un sogno di Jeni. Se davvero vogliono scommettere sul futuro di quel sogno, l’America è il posto dove farlo, non certo il Vecchio Continente. Nel 1986 il quintetto vola quindi a New York, ma poco dopo Forsberg sta già prenotando un biglietto di ritorno per la Scandinavia. Rozen non si fa scoraggiare e chiama in soccorso l’ex sodale Brian Keats (drummer degli Angels In Vain, nelle cui fila entrambi hanno militato), con una fissa per il punk. Si narra addirittura di una sua fantomatica partecipazione live nei Misfits durata appena l’arco di una canzone, il tempo di sfracellarsi giù dal palco completamente ubriaco. A ruota, pure Byrstedt decide di mollare la presa, ma anziché tornare a casa fa rotta verso la Francia. Jeni e Ronnie prendono la cosa molto sul serio, e vanno a cercare nuovo sangue fino a Stoccolma, all’Hard Rock Cafè per la precisione, dove arruolano il finlandese Jay Lewis come chitarrista (già cantante per una band di nome Sarcofagus e membro della primissima formazione degli Oz).
Il primo show della formazione dei Princess Pang comprendente Foster, Roze, Keats, Lewis e Tjernon, ha luogo nel dicembre 1987; ci vogliono solo sei mesi perché le esibizioni dei nostri siano studiate con certosina attenzione da manager, etichette e un’audience locale che si sta seriamente affezionando a questa band emergente. La gavetta dà i suoi frutti visto che – come in un percorso predestinato già scritto – la band arriva al debutto discografico nel 1989 su Metal Blade, label con la quale la scintilla scatta a seguito di un concerto al The Ritz di New York. Metal Blade non è affatto l’unica ad aver mostrato interessamento per i Princess Pang, ma è il marchio che la band sceglie perché ritenuto più autentico e sincero nei propri confronti (e certamente, oltre alla sincerità, non deve esser mancato un buon assegno). Il vinile dato alle stampe comprende in larga parte le composizioni apparse sui due demo già pubblicati. Due i singoli estratti, ed i relativi videoclip realizzati, “Trouble In Paradise” e “Find My Heart A Home Now”. La produzione è affidata a Ron Saint Germain. Bad Brains, Sonic Youth, Living Colour, Jean Michel Jarre, Tool, Soundgarden, U2, R.H.C.P., Killing Joke, Kraftwerk, Whitney Houston, Diana Ross, Michael Jackson, Jimi Hendrix, 14 Grammy vinti dagli album a cui ha lavorato, 60 dischi tra oro e platino; queste alcune delle sue credenziali. E non è che l’inizio, poiché al debutto segue un tour con Space Ace Frehley e i Mr. Big. Inondati di successo, i Pang salpano pure alla volta di Albione, per una serie di show con i Wolfsbane di Blaze Bayley.
II – Jeni crea, Jeni distrugge. Gli altri si arrangiano
Non è chiaro cosa accada di preciso, ma le tensioni tra la Foster da una parte ed il resto della band dall’altra esplodono tanto furiose quanto inaspettate, al punto che durante un concerto a Birmingham Jeni abbandona il palco prima della fine dell’esibizione. I commilitoni, orfani della Principessa, sono costretti a terminare le date britanniche con Lewis dietro il microfono. La frontwoman è tornata negli States senza ripassare dal Via. Che caratterino! Se qualcuno sulle prime pensa che si tratti del solito, tipico, classico, bizzoso litigio di rockstar wannabes, una roba a cui non attribuire alcuna importanza poiché appartenente alla normale fisiologia propria di infantili e arroganti teste di cocco, destinata a ricomporsi con la stessa frivolezza ed inconsistenza con cui è scaturita dal nulla, beh, quel qualcuno ha fatto male i conti perché Jeni Foster ha realmente, letteralmente, definitivamente mandato a quel paese la band, niente di più e niente di meno. Da parte loro i Princess Pang cercano di tirare a campare inventandosi qualche pezza di rammendo, ma il giocattolo semplicemente non va più, se ne accorgono rapidamente e la favola finisce senza alcun happy end disneyano.
Jeni Foster è cresciuta tra le Hawaii e la California, è bionda, molto bella ed ha un talento artistico, praticamente il sogno vivente di un qualsiasi frequentatore dei telefilm Mediaset degli anni ’80 (allora Fininvest), da Magnum P.I. a Simon & Simon, da Riptide a Charlie’s Angels (fino ai ’90s di Baywatch naturalmente). A metà della decade fa tappa a New York, la città dove tutto può e deve succedere, e rimane attratta dalle suggestioni gothic della scena più in voga del momento. Per qualche motivo Rozen Johansson riesce a stregarla e per poco più di un lustro questa alchimia sembra promettere qualcosa di veramente grande. Poi tutto finisce, si smonta come panna montata, senza che una Federica Sciarelli di turno sappia dirci i perché e i percome, e soprattutto senza che nessuno sappia veramente che fine faccia la Foster, una che se proprio la carriera di cantante doveva girar male, di certo avrebbe potuto fare la modella o l’attrice (da notare anche una vaga somiglianza con Emmanuelle Seigner e Patricia Arquette), senza il minimo sforzo e col massimo risultato.
C’è chi giura che nel 2000 da qualche parte a Seattle abbia formato i Devachan con Scott Mercado dei Candlebox e Aaron Kremer e Patrick Strole dei Blind Tribe. Prima di allora si sarebbe occupata di bambini affetti da autismo nel New Nersey. Byrstedt, Rozen e Forsberg avrebbero invece fondato gli Stockholm Showdown nel 2001, pubblicando il debutto “Last Call To Paradise” l’anno successivo. Keats avrebbe fatto il turnista per Sylvain Sylvain dei New York Dolls, Susanna Hoffs delle Bangles, Dave Vanian dei The Damned, e per i Raging Slab e i Doppler (dal punk allo sleaze glam, proseguendo poi per il southern rock ed il nu metal, niente male!). Dopo un tentativo con Jay Lewis nei Diamondbacks, Tjernon si sarebbe dato all’edilizia, mentre Lewis avrebbe collaborato con gli Skin ‘N’ Bones e Graham Bonnet (Rainbow, Alcatrazz), prima di far ritorno in patria, dove sarebbe poi diventato il bassista della pop band Yö, con la quale incide 8 album (affogati in doppi e tripli platini carpiati).
III – Successo a tutti i costi? No grazie
I Princess Pang sono stati archiviati con un unico lavoro dato alle stampe. Punto. Le carriere dei vari membri, eccezion fatta per il finnico Lewis, non hanno altrimenti conosciuto sentieri dorati, e insomma tutta la parabola di questi musicisti si è conclusa con un nulla di fatto ed un vecchio vinile da far vedere a figli e parenti il giorno del Ringraziamento, per testimoniare al posto di un polveroso album fotografico il quarto d’ora di celebrità che li ha investiti lustri e lustri addietro. Due cose intrigano della vicenda dei Princess Pang, il fatto che l’album non fosse affatto il parto modesto di una band mediocre, e la furiosa lite che avrebbe spezzato in un colpo solo quella creatura appena nata. Nei 41 minuti, suddivisi in 11 tracce, non ci sono filler vistosi ma composizioni sempre sentite e (proprio per questo) accattivanti per l’ascoltatore. I Princess Pang non verranno ricordati come coloro che hanno rivoluzionato l’hard rock americano, ma come uno “one shot” autentico e genuino, questo si, lo possiamo dire. “Trouble In Paradise” mette in moto il luna park come fossimo in un album dei Dangerous Toys di Jason McMaster. “South St. Kids” raccoglie l’eredità delle Runaways e una band come le 4 Non Blondes anni dopo avrebbe fatto carte false per averla nel proprio repertorio. “No Reason To Cry” ha quell’incedere losangelino capace di fondere una tradizione che va dai Great White ai White Sister e ai Guns ‘N’ Roses (come anche la ballad “Baby Blue”). Suggestioni ancheggianti e sbarazzine alla Poison o Warrant neppure possono mancare, ma la cifra dei Pang è la concretezza stradaiola, niente fuffa da profumeria. La tosta “Scream And Shout” ne è un esempio. Jeni non aveva la voce roca da sacerdotessa del blues, né faceva acuti da orgasmina cotonata, possedeva semplicemente una voce perfetta per il rock, corposa, diretta e con qualche crudezza lasciata libera di uscire allo scoperto di tanto in tanto.
Assieme ad una lista impressionante di altre musiciste e band con qualche tratto comune (Bad Romance, Aina Olsen, Lisa Dominique, Blacklace, Chacko, Lenita Erickson, Haven, Tang, Annica Wiklund, Teri Tims, D.C. Lacroix, Headpins, Bad Sister), elementi femminili in formazione, pochi album pubblicati, un profilo sostanzialmente underground, etc., i Princess Pang sono stati per un periodo di tempo irrisorio un gruppo credibile e “potenziale”. Poi un buco nero, chiamato di volta in volta music biz, difficoltà economiche, dipendenza da alcol e droghe, egoismi, egocentrismi, sfiga cosmica – scegliete voi contro quale golem farle combattere – ha decretato l’inabissamento precoce di queste formazioni. Nonostante una produzione discografica in alcuni casi neppure inferiore in termini quantitativi e/o qualitativi, i monicker su menzionati non hanno potuto godere e non hanno saputo sfruttare ganci mediatici e sensazionalismi glamour appannaggio di ensemble come Vixen, Lita Ford, Femme Fatale, Phantom Blue, Lee Aaron, Pat Benatar, Robin Beck, Alannah Myles, finendo con l’essere solo un code number da mettere in fila su qualche scaffale. E se semplicemente non avessero voluto?