Nella paleo archeologia della borchia ci si può imbattere nelle antiche vestigia di un sogno necromantico. Nel decennio a cavallo tra lo scorso secolo e il nuovo, in quel di Monza un bardo ed una fattucchiera diedero corpo e forma alla storia di Evillot. Guerrieri, spade, battaglie, profezie, magia, ma anche l’inferno dantesco, il Gethsemane cristiano, Lucifero, l’antica Grecia e gli eroi arturiani; tutto era convogliato nella loro mistica visione, uno squarcio nella storia che durò il tempo di un batter d’occhio. Quando l’alito del drago si ritirò, era come se non fosse mai accaduto.
Contenuti:
1. Flying in a blue dream (1994 – 1999)
2. The song of men (2000 – 2002)
3. Lonely is the way of the necromancer (2003 – 2004)
1 – Flying in a Blue Dream
Chi si ricorda dei monzesi Power Symphony? Nel sottobosco del metallo italiano a cavallo del millennio c’erano anche loro. Formatisi lungo i ’90 dal connubio tra Marco Cecconi (chitarra) e Michela D’Orlando (voce), dopo un primo e unico demotape autointitolato del 1995 approdano al debutto discografico con Northwind Records (label con base operativa a Tortona). Il 1999 è l’anno di “Evillot”, la partenza di una narrazione che attraverserà tutta la loro pur breve discografia (ogni album ha avuto un capitolo dedicato). Il biglietto da visita è di tutto rispetto, un digi-cd apribile, con artwork derivato da Luis Royo (una delle sue tante fantasy eroine seminude ad alto tasso di erotismo), testi e foto con la band vestita per una sessione di Dungeons and Dragons. Il nucleo della formazione comprende anche Daniele Viola (al basso) oltre Cecconi e D’Orlando, ma la line-up allargata agli altri contributori conta complessivamente ben 6 unità. Batteria, seconda chitarra e keyboards sono aggregate. Quando esce l’album è già vecchio di quasi due anni, essendo stato registrato, missato e masterizzato tra il ’97 e il ’98, nonché prodotto dalla band stessa con risultati più che dignitosi. Quella di “Evillot” non è una produzione di alto livello ma personalmente ho sempre apprezzato la patina underground che lo caratterizza, capace di aggiungere qualcosa di peculiare alle brumose atmosfere fantasy della band. Tra i credit i Power Symphony sciorinano una serie di omaggi e ringraziamenti che in qualche maniera dipingono già il loro pantheon; dagli amici e colleghi Lacuna Coil, Moon Of Steel, Cappanera, Extrema e Node, ai Morgana LeFay, agli Iced Earth, e ai Blind Guardian.
“Evillot” è un ottimo album, grintoso ma ricco di ambientazione, coniuga con grande inventiva e visionarietà metal ed un immaginario fantasy dai risvolti dark, notturni, malmostosi e sensuali. Michela ha una timbrica estremamente personale e riconoscibile, lontana dal cliché delle frontwoman fatalone alquanto in voga in ambito metal, ma nemmeno eccessivamente ruvida e muscolare come una Lether Leone o una Doro Pesch. La sua voce ci porta nel mondo dei Power Symphony i quali, pur inserendosi in un filone codificato, quello dell’heavy/power con accenti epic, sa diversificarsi sfoggiando tante sfumature molteplici. C’è il folk, c’è la melodia, ci sono passaggi più sinfonici ed operatici (anche se, a dispetto del nome, il tratto sinfonico non è affatto quello principale della band), financo spunti thrash, indubbiamente un’attitudine doom. “Evillot” non è banale e ciò che mi ha subito catturato dell’album è indubbiamente il suo puntare molto sulle atmosfere, senza aver paura di accelerare o rallentare al bisogno, percorrendo schemi e pattern ritmici decisamente eterodossi per il cosiddetto “power metal”; i Power Sympphony amano le atmosfere oscure, sospese, tenebrose, non esitano a guardare cosa si cela nell’antro oscuro di stregoni maligni e millenari intenti a rimestare liquami avvelenati e manipolatori nei loro calderoni sacrali.
“Evillot” è un album da ascoltare ma anche da leggere – con i suoi rimandi letterari – e da immaginare, lasciandosi avviluppare dalla sua visione di mondi alternativi situati da qualche parte nel multiverso. Ogni rallentamento, ogni linea melodica, ogni ritornello dei Power Symphony emana un magnetismo sinuoso, viscoso, che ti imprigiona come una ragnatela appositamente ordita. Se questo album nel 1999 fosse stato pubblicato da una band tedesca o americana il feedback sarebbe stato amplificato dieci volte. Un totale di 51 minuti declinati attraverso 7 tracce dal minutaggio mediamente lungo, compreso tra i 6 e 12 minuti. Non una scelta “friendly” per il popolo power, abituato a immediatezza e solarità, praticamente l’opposto del concept Power Symphony.

II – The Song Of Men
La mia conoscenza della band risale all’incontro con “Lightbringer” (Pavement, 2000). Sarà proprio l’entusiasmo dovuto a questo secondo album che mi porterà ad approfondire tutto l’approfondibile sui Power Symphony e a recuperare anche l’esordio su Northwind. Su qualche rivista cartacea dell’epoca leggo la recensione del disco (forse Flash, forse Ulisse Carminati) e mi faccio l’idea che potrebbe rientrare nella mia sfera d’interesse. Nella preistoria di allora era (ancora) possibile andare presso il proprio negozio di musica di fiducia e passare le ore ad ascoltare le nuove uscite, per poi decidere cosa acquistare (o non acquistare). Per la modica cifra di 35.000 lire (non esattamente un prezzo popolare per un cd nel 2000) mi portai a casa “Lightbringer”, evidentemente appagato da quanto avevo appena scoperto, una nuova band italiana decisamente accattivante e convincente sotto parecchi punti di vista, prodotta nientemeno che da Joey Vera. Ricordo che l’unica cosa che un po’ mi deluse sulle prime fu la durata, appena 36 minuti, quasi un EP allargato, il che sostanzialmente si traduceva in un costo di circa 1000 lire al minuto. La qualità doveva assolutamente essere alta, e per Dio lo era! Bellissima copertina (ad opera di Travis Smith, negli anni a venire sarà l’autore di artwork per Amorphis, Cradle Of Filth, Devin Townsend, Fleshgod Apocalypse, Katatonia, Opeth, Overkill, Sadus e ovviamente Nevermore), libretto con testi e foto della band. E poi c’era la musica.
Ciò che ha sempre un po’ penalizzato i Power Symphony a mio avviso è stato il monicker scelto, una sorta di manifesto programmatico sul genere che l’ascoltatore si sarebbe dovuto aspettare una volta messo il dischetto nel lettore. Una scelta maldestra poiché per quanto i Power Symphony abbiano sia una componente power che sinfonica, il loro sound è anche altro, direi soprattutto altro, a partire da un songwriting decisamente personale e non incastrato negli stereotipi di genere. Epic e folk appartengono in qualche modo alla famiglia allargata tanto del power quanto del symphonic, ma sono gli accenti dark e doomish dei nostri a spiazzare potenzialmente una platea magari troppo pigra per abbracciare un tale scarto sonoro. “Lightbringer si pone come una sorta di evoluzione di “Evillot”, complessivamente il songwriting è più snello, ancora oscuro ma non più così oscuro, ugualmente potente ed evocativo. Nella lista dei credits, oltre alla messe di band italiane compagne di (s)ventura sui palchi e nel music business tricolore, si affaccia un nuovo nome, quello dei Nevermore. Assieme ai Lacuna Coil, la band di Loomis, Sheppard e Dane si rivela centrale per capire dove stanno andando a parare i lombardi.
All’indomani del mio impazzimento per “Lightbringer” mi metto in contatto con la band, invio loro i miei apprezzamenti e chiedo aiuto per rintracciare una copia di “Evillot” poiché mi erano capitate diverse traversie. Mi pare di ricordare che inizialmente lo ordinai in negozio ma il disco dopo svariati tentativi non arrivò mai, allora lo richiesi alla casa discografica e nuovamente accadde qualcosa, andò perduto o esaurito, qualcosa del genere. Demoralizzato mi rivolsi alla band, la quale come premio fedeltà e testardaggine me ne inviò una copia a proprie spese. Facile immaginare quanto il mio amore per i Power Symphony si elevò a potenza per un gesto del genere. Nel 2002 arriva il momento di un nuovo EP, “Futurepast”, stavolta pubblicato autonomamente dalla band su propria etichetta, la Evillot, e con un artwork di copertina che mi ha sempre ricordato molto le immagini fiabesche dei dischi Lana Lane. Quattro tracce inedite , seppur intervallate nel mezzo della scaletta dalla cover di “Blood Of My Enemies” dei Manowar, che avrebbero dovuto anticipare il successivo full-length. L’ascolto di “Futurepast” si rivelò per me più controverso.
III – Lonely is the way of the necromancer
Fuori dai denti, ero molto preoccupato che i Power Symphony potessero subire un’eccessiva influenza dai Lacuna Coil, come stava accadendo a parecchie band. Quei riferimenti ai colleghi meneghini nonché ai Nevermore lasciavano intravedere una certa fascinazione per l’avanguardia che si faceva largo in lungo e largo nel metal. All’epoca la band di Cristina Scabbia era in giro con “Comalies”, quindi in effetti tutto il peggio che i Coil avrebbero poi saputo tirar fuori in carriera era ancora da venire, e tuttavia il trend era già in auge, le scimmiottature si moltiplicavano a vista d’occhio, anche dove fino al giorno prima regnavano tradizione e ortodossia. I Power Symphony erano genuinamente attratti da sonorità moderne, non c’era ruffianeria nel loro evolversi, ma il punto era che la band portava addosso un vestito che l’aveva connotata in modo assai pregnante sin lì. Il monicker, l’immaginario fantasy, l’aggancio al power e all’epos erano aspetti preponderanti del progetto di Cecconi e D’Orlando, sebbene sin dall’inizio avessero mostrato una certa esuberanza quanto a personalità.
Riascoltate col senno di poi, le tracce di “Futurepast” non erano così sbilanciate verso il futuro, l’ancoraggio al sound dei Power Symphony era ancora evidente (compresi i testi), ma qualcosa stava cambiando sottotraccia, melodie, ritmiche, atmosfere, crudezza e concretezza si annunciavano tra i solchi. Ricordo di aver sofferto lo stesso timore quando nel 2007 i Theatres Des Vampires pubblicarono “Desire Of Damnation”, un doppio album sotto forma di compilation con ben quattro nuovi inediti (proprio come i Power Symphony). Nel loro caso l’ammiccamento ai Lacuna Coil fu assai più vistoso e ricordo di aver scritto alla band implorandola di non trasformarsi nel milionesimo clone dei Lacuna Korn….ops, pardon. Certo, il sottoscritto era un grandissimo scassaminchia per queste povere band, una specie di chihuahua attaccato al polpaccio. Ottima la rendering di “Blood Of My Enemies”, decisamente nelle corde di Cecconi e della D’Orlando. Per quanto mi riguarda, le prime due tracce in scaletta (“Nine Moon” e “Infinte Machine”) si rivelano decisamente più cariche rispetto alla coppia di quelle restanti, rendendo l’EP un po’ altalenante.
Le cose in casa Power Symphony non devono andare benissimo, perché se è vero che due anni dopo arriverà un terzo full-length, è altrettanto vero che quella pubblicazione sarà sostanzialmente postuma e celebrativa. “Mother Darkness” sarebbe dovuto essere il terzo lavoro annunciato, invece diventa l’epitaffio, messo in circolazione solo attraverso il download su Last.fm, nessuna release fisica. La band cessa le attività subito dopo, senza formalismi, semplicemente i Power Symphony si eclissano. La scaletta comprende due tracce già apparse su “Futurepast” (guarda caso “Infinite Machine” e “Nine Moons”) oltre ad altri 7 nuovi pezzi e due remix alternativi. In tutta sincerità non sono mai riuscito a reperire l’album e dunque non l’ho potuto ascoltare, anche se mi avrebbe fatto assai piacere; quindi non posso dire che piega avesse preso la band all’altezza del 2004. Sta di fatto che i Power Symphony chiudono lì la carriera. Della D’Orlando si legge online che si è dedicata alla sua passione per la storia delle arti marziali di connotazione continentale (la cui sigla è HEMA, ovvero Historical European Martial Arts), unendosi ad un ordine chiamato le Lame Scaligere, specializzandosi nella spada. Su Youtube è tuttora possibile reperire un suo canale sul quale posta video nei quali suona l’arpa. Cecconi è il CEO di un’azienda di software ma soprattutto… si è sposato con Michela. Plot twist!
Sia all’epoca che successivamente (basta guardare Metal Archives) i Power Symphony sono stati funestati da pessime recensioni, con punte di accanimento, denigrazione e cattiveria francamente incomprensibili. Ho letto recensioni talmente cariche di frustrazione da pensare che chi le abbia scritte fosse davvero una persona alquanto infelice e problematica. Al netto dei gusti personali, non si capisce il portato di certe critiche che assomigliano più a insulti gratuiti basati sulla totale mancanza di oggettività e misura. Ma tant’è, il bello di internet è che chiunque può scrivere cosa vuole, compreso il sottoscritto le cui farneticazioni a molti appariranno esattamente tali. Io credo che i Power Symphony meritassero e meriterebbero tutt’oggi un ascolto meditato e riflessivo. Se la delusione nasceva dallo scoprire che non assomigliavano né ai Labÿrinth, né agli Angra, né tanto meno agli Skylark, tanto per citare nomi coevi in voga in quegli anni, allora non c’è molto da aggiungere, sebbene la modalità con la quale si formulano critiche dovrebbe sempre essere guidata dalla logica, dalla razionalità, da un’analisi adeguata e conforme. Spesso non è stato così per i Power Symphony, ma chi ha avuto la fortuna di ascoltare ed acquistare i loro dischi sa perfettamente quale tesoro custodisca in casa.
