Paul Samson umanamente piaceva a tutti, gli veniva attribuito un grande senso dell’umorismo, lavorare con lui era divertente ma allo stesso tempo sapeva essere professionale. Questa è l’opinione condivisa da chiunque abbia incrociato la sua strada. Tecnicamente era un chitarrista bravo e preparato; certo, siamo nel campo dei chitarristi di feeling, come Eric Clapton o Mick Ralphs, non in quello degli alieni come Steve Vai o Joe Satriani. Il suo profilo era quello dell’underdog, perennemente sottovalutato, nonostante tra i prime mover della NWOBHM (assieme a Iron Maiden, Def Leppard e Saxon) i Samson siano stati una delle poche band ad aver pubblicato una discreta manciata di lavori uscendo fuori dal mucchio. Quella genia di fanti lontani dall’aristocrazia metal, ma che il più delle volte costituisce il nerbo più solido e compatto che permette ad un esercito di tenere il campo e forse anche vincere la guerra.
Contenuti:
1. Un lungo preambolo
2. Appena nati e già sopravvissuti (1977 – 1979)
3. Con i bicipiti d’acciaio (1980)
4. Shock and Storm (1981 – 1984)
5. Nato libero e bluesman (1985 – 2006)
6. Thunderstick
1 – un lungo preambolo
La storia del metal è piena di eroi minori che non ce l’hanno fatta, che ce l’hanno fatta un pochino, che sono arrivati ad un passo dal farcela, che hanno messo un piede nel successo e poi tutto gli è franato addosso (per colpa, per sfortuna), a fronte di blasoni monumentali ed ingombranti che hanno occupato tutti i posti disponibili in prima fila, quasi sempre per merito, talvolta anche senza. Quella fetta di pubblico molto attenta ed affezionata alle seconde (terze e quarte) linee, ai “minori”, alla manovalanza operaia del metal che ha macinato musica senza guadagnare né soldi né fama, viene spesso etichettata come “nerd” – che poi fondamentalmente sta per “autistica” – rivolta in modo ossessivo alla ricerca del “gruppo da taschino” (come ebbe a dire una volta Lars Ulrich), ovvero quel gruppo che conoscono solo loro, che coltivano come un vanto personale e che, non appena diviene di dominio (troppo) pubblico, abbandonano nauseati. Era il modo per giustificare – perlopiù a se stesso – la messe di rifiuti e disamore subita dai Metallica all’indomani delle scelte scellerate prese negli anni ’90. Se non scatta la su menzionata qualifica di nerd, c’è sempre pronta quella di “boomer”, vuoi perché oramai basta diventare maggiorenni per vedersela affibbiata, vuoi perché spesso e volentieri chi guarda indietro e si preoccupa di spolverare l’argenteria chiusa da troppo tempo nella credenza ha giocoforza qualche anno sulle spalle, si ricorda di cosa c’era prima o perlomeno ha interesse a recuperarlo e riassaporarlo, magari mettendolo in prospettiva diacronica con il presente. Si chiamerebbe “evoluzione”, il metal come ogni cosa ha pur sempre una propria fenomenologia e come tale si può esaminare sotto una prospettiva evolutiva (indipendentemente dai gusti personali).
Un lungo preambolo per dire che si, sciòori e sciòore… si parla di Paul Samson, il più ammirevole carpentiere di Britannia da che la Regina Elisabetta siede sul trono di Albione. Un po’ come per i Flotsam & Jetsam, attraverso i quali è transitato Jason Newstead – e dunque per anni sono stati ricordati solo in associazione con i Metallica, tipo riflesso di Pavlov – i Samson di Paul Samson vengono citati quasi esclusivamente per essere stati la band dalla quale proveniva Bruce Dickinson prima di diventare la sirena ufficiale degli Iron Maiden. E chissà quanto Paul ha benedetto o maledetto tale marchio. A conti fatti lo avrà visto come una fortuna, quel poco di visibilità che la sua band ha ricevuto è derivata anche e soprattutto di riflesso, dalla Vergine Di Ferro; sebbene non debba essere stato semplice vedere cannibalizzata la propria musica, la propria vita, la propria anima (perché la musica per un musicista quello è) da quell’unico marginale dettaglio. Dickinson, che all’epoca come anche i sassi sanno si faceva chiamare Bruce Bruce, ha albergato nei Samson appena tre anni, dal ’79 all’81, il tempo di due dischi, una briciola nei 5 lustri di vita della band. Un quarto di secolo, 8 studio album, quattro live ufficiali, un miliardo di singoli (come usava nella proletaria NWOBHM, che poteva più facilmente permettersi dei 7” anziché dei 12”, volgarmente detti 33 giri), qualche compilation – a cui prestare sempre una certa attenzione per via della presenza di tracce inedite, cover e versioni alternative – e, purtroppo, anche materiale postumo (altre raccolte e l’album “P.S….”).
II – appena nati e già sopravvissuti
Chissà com’era il Norfolk nel 1953, l’estremo oriente della Gran Bretagna, quella punta nel sud est che guarda ai Paesi Bassi. Paul nasce a Norwich, una città non proprio secondaria nell’Inghilterra che fu, dopo Londra la seconda per grandezza dal Medioevo fino alla Rivoluzione Industriale; sede del Norfolk & Norwich Festival sin dal 1824, una manifestazione che per molti anni è stata dedita alla musica puramente classica e che poi si è aperta a spettacoli di varia natura, dalla musica contemporanea alla danza, dalle arti visive al circo e agli eventi per bambini. Paul l’avrà sicuramente vista, come ogni buon figlio di Norwich. All’età di 15 anni Sanson (il suo vero cognome era con la enne prima delle esse) ha già una band, si chiama The Innocence e comprende Stewart Cochrane, Phil Stranders e Martin Kirrage. La prima di una lunga serie, come spesso accade ai musicisti prima che si assestino su di una formula giusta e definitiva (accadrà nel ’77, quando ha 24 anni). Intanto nel ’76 Paul prende il posto di Bernie Tormé negli Scrapyard, è così che conosce John McCoy che diverrà un suo compagno di strada anche dopo. Con l’avvicendamento la band cambia nome in McCoy ma sorprendentemente è proprio lo stesso McCoy ad allontanarsi (diventando il bassista di Ian Gillan ed orbitando anche nella galassia degli Atomic Rooster). Al suo posto arriva Chris Aylmer, il sound engineer del gruppo. E’ lui a suggerire a Paul di fare la stessa scelta di McCoy, intestarsi la band, anche perché non aveva più senso mantenere il nome di un musicista dimissionario. E’ sempre Aymler a segnalare Clive Burr come batterista, avendolo avuto come compagno d’armi in una precedente formazione chiamata Maya. Paul contatta Stewart Cochrane proponendogli di unirsi al team (come bassista, Aylmer sarebbe passato alla chitarra ritmica) tuttavia, al di là di una sola data live nel marzo del ’78, questo formazione a quattro non prende forma.
Il trio Samson/Aylmer/Burr lascia la propria firma su due singoli, “Mr. Rock & Roll” e “Telephone”, entrambi licenziati da Lightning Records, entrambi nel 1978 (mancava ancora un anno ai “Soundhouse Tapes”…). Laser Records, con base a Londra, sottoetichetta di Lightning, si incarica di dare alle stampe il primo full-lenght dei Samson, “Survivors”. Le postazioni operative sono già cambiate, alle pelli non c’è più Clive Burr, il quale ha scommesso su un’altra band emergente…. Dopo aver audizionato ben 60 possibili batteristi, il sostituito è individuato in Barry Graham Purkis, che si fa chiamare Thunderstick e ha la peculiarità di esibirsi dal vivo indossando maschere bondage (dette “gimp mask”), non esattamente praticissime per un musicista rock sul palco, ma indubbiamente di grande impatto visivo e provocatorio. Un personaggio alquanto sui generis (di cui mi occuperò più avanti). McCoy compone con Paul tutto il materiale dell’album, lo produce e finisce pure col suonare le tracce di basso. “Survivors” è un piccolo grande traguardo perché nel ’79 i Samson sono una delle pochissime band che “ce l’hanno fatta”. A far cosa? A pubblicare un disco per intero e non solo un singolo o una manciata di canzoni, loro hanno un “long playing” vero nei negozi, roba forte ed è successo tutto molto in fretta, appena un anno dopo i due 45 giri. Tra boogie, blues e rock, il profumo degli anni ’70 ne permea abbondantemente i solchi, un esordio che molti “metallari” farebbero fatica a valutare di un qualche interesse per loro, certamente ancora distante dal metal conclamato; non a caso risucchiato senza tanti complimenti in quel calderone vago e indistinto della cosiddetta New Wave Of British Heavy Metal, capace di spaziare dai Venom ai Def Leppard, dai Tank agli Shiva, dagli Handsome Beasts ai Runestaff, band profondamente diverse tra loro, persino inconciliabili ma riunite sotto un’unità di tempo e luogo.
III – con i bicipiti d’acciaio
Viene il magone a pensare che 2/3 della line-up di “Survivors” non esiste più, è andata al creatore (e pure Aylmer l’ha raggiunta). L’album ha avuto due copertine, quella del ’79 con la band in cima ad una pila di corpi celebri della storia (imperatori, papi, dittatori, etc.), dunque Paul, Chris, John e Barry come dei “sopravvissuti” ai dispensatori di guerre e mal governo; e quella della ristampa Thunderbolt dell’83, con una testa bianca di caprone su sfondo nero e con logo (completamente diverso) rosso. Guarda caso l’anno prima era uscito “Black Metal” dei Venom la cui copertina è praticamente identica, e già “Welcome To Hell” offriva il medesimo concept. Una scelta grafica francamente incomprensibile per i Samson, sideralmente alieni e distanti da cattivismi sbruffoni e parafernalia esoterici; Paul Samson era un chitarrista pragmatico e concreto, senza fronzoli, totalmente rivolto alle due decadi passate. Il suo modo di suonare ne ha sempre riflettuto lo spirito, zero voglia di impressionare, solido, ispirato, genuino. Sono convinto che quella scelta di “marketing” l’abbia accettata senza alcun reale entusiasmo. Con l’arrivo degli anni ’80 i Samson non si fanno trovare impreparati ed anzi raddoppiano, Gem Records (divisione della RCA) pubblica nel giugno “Head On”, forse il disco più famoso della band assieme al successivo “Shock Tactics”. Perché proprio questi due? Per il loro effettivo valore? Può darsi, certamente sono ottimi dischi, ma soprattutto sono quelli nei quali canta Bruce Dickinson prima di andare a raggiungere Clive Burr in quella certa band emergente di cui sopra (con il quale incrocerà la propria strada solo nel 1982, su “The Number Of The Beast”). Se poi ci aggiungete che “Thunderburst” mostra una certa familiarità con “The Ides of March” (che però uscirà un anno dopo su “Killers”), appare evidente come fra travasi di musicisti e di musica l’Inghilterra fosse diventata già troppo piccola per entrambe le band.
Thunderstick sale in cattedra, anzi in copertina, brandendo un’ascia e minacciando apertamente il pubblico… in effetti, a pensarci bene, questo artwork non stona poi troppo rispetto alla ristampa col caprone di “Survivors”, anche se i Samson vanno letti sempre con un certo soggiacente sense of humour (basti scorrere testi e titoli di qualche loro canzone, prima tra tutte “I Wish I Was The Saddle Of A Schoolgirl’s Bike”). A posteriori, in molti si sono avvicinati a questo album attratti dalla copertina bellicosa, convinti magari di avere a che fare con dei nuovi Raven, Avenger o gli stessi Venom; “Head On” invece non va in quella direzione, non è ancora heavy metal tout court (ma fondamentalmente con Paul Samson non accadrà mai), anche se irrobustisce il sound rispetto all’esordio. La scaletta è una sfilata di pezzi notevolissimi, mi verrebbe da dire imperdibili, e soprattutto estremamente divertenti. Dickinson ha certamente maggior personalità dello stesso Paul dietro il microfono, anche se rimango convinto che la sua timbrica non sia mai stata quella “esatta” per il calibro dei Samson, non a caso Bruce si è poi rivolto ad una metal band, mentre i Samson fondamentalmente oscillavano tra boogie, hard rock e blues. La cosa risulta ancora più chiara ascoltando i pezzi di “Survivors” ricantati da Dickinson. Siamo dalle parti degli albori di band come Saxon (“Saxon”) o Judas Priest (“Rocka Rolla”, “Sin After Sin”), acts che poi si rivestiranno di metal scintillante diventando paladini del genere, mutazione che ai Samson invece non accade.
“Con “Head On” i Samson rafforzano la loro residenza nel condominio della NWOBHM e lì restano confinati almeno fino all’82. L’album raggiunge la posizione n. 34 nella Chart UK, tuttavia non è ugualmente un periodo spensierato per i Samson che incappano in diverse beghe legali con il proprio management. Dell’80 è anche la partecipazione al cortometraggio Biceps Of Steel di Julian Temple (già regista di The Great Rock ‘n’ Roll Swindle e UK Subs: Punk Can Take It, nonché poi del film con Bowie Absolute Beginners), che tuttavia verrà reso pubblico 23 anni dopo, quando Paul è già morto. La storia vede una sorta di “super roadie” combattere dei buttafuori senza cuore in tuta arancione che cercano di impedire ai fans di godere del rock ‘n roll. L’eroe cade vittima di una fanciulla malvagia che lo seduce e gli taglia i capelli (come Sansone). E proprio come Sansone (Samson > Sanson-e), il roadie per tutta risposta fa crollare due torri di amplificatori (con tutti i filistei… ah no). Il super roadie manco a dirlo è impersonato da Thunderstick e la band si produce in due canzoni, “Hard Times”, “Vice Versa”, praticamente due giganteschi videoclip, tre anni prima che John Landis diriga il video “evento” di Michael Jackson, “Thriller”.
IV – shock and storm
Nel frattempo esce “Shock Tactics” (’81), la RCA mette a disposizione Tony Platt in consolle e l’album beneficia di una produzione eccellente. L’artwork è di stampo surrealista ma efficacissimo e rimane in mente a primo sguardo, anche se va in direzione completamente diversa da “Head On”, più da band prog. La scaletta si apre con la cover di “Riding With The Angels” di Russ Ballard (l’avrete ad esempio sentita anche nella versione più ruvida degli Heretic, sull’ep dell’86 “Torture Knows No Boundary”), una fiammata che detta la linea del disco. Una track-list varia ed equilibrata che mette in mostra l’enorme potenziale della band ed il gusto compositivo di Paul (ok certo… anche le doti vocali di Bruce Dickinson). “Shock Tactics” viene considerato “IL” disco dei Samson, quello che tutti citano e conoscono (tra quelli che li conoscono), nonché il trampolino di lancio di Bruce verso i Maiden, come se tutto il lavoro, l’amore ed il talento contenuti in quei solchi fossero stati unicamente funzionali alla carriera di Dickinson. Tante volte mi sono chiesto quanto sarebbe stata diversa la storia dei Samson senza di lui, quanto sarebbe stata davvero più ammaccata senza una figura così ingombrante… “what if”. E’ indubbio che questo sia il capitolo più vicino al metal dei Samson, già con il successivo “Before The Storm” sarà tutto un altro discorso. Il management è sempre croce e delizia per la band, soprattutto croce. Date live raffazzonate con abbinamenti improbabili e inciampi di ogni tipo fino a che si appura che la label è praticamente alla bancarotta. Naturalmente anche questo travaglio avrà rafforzato la propensione di Dickinson a cambiare aria. La sua ultima esibizione live con la band è al Reading Festival del 1981, registrata dalla BBC e poi trasformatasi nell’omonimo live album pubblicato nel 1990.
Oltre Dickinson, i Samson perdono pure Thunderstick, già convintosi di essere talmente grande da poter stare in piedi per conto proprio. Vuole qualcosa di estremamente più glamour di una band operaia come i Samson, lui guarda ai Kiss, ad Alice Cooper, allo shock rock e magari anche a David Bowie, agli Sweet e Gary Glitter. Dickinson ricorda che la band navigava nei problemi, innanzitutto quelli imputabili a label e management, ma anche avere un batterista che si versava sulla testa pinte di birra emettendo grugniti e viveva perennemente nei panni di un alter ego immaginario (per altro piuttosto sinistro ed inquietante) non aiutava a guadagnare credibilità e stabilità. I Samson reclutano Pete Jupp al posto di Thunderstick e Nicky Moore in sostituzione di Bruce Dickinson. Nel novembre ’82 esce su Polydor “Before The Storm” con una copertina molto più epica della musica contenuta nei solchi. Anzi, sul versante prettamente borchiato la band fa un leggero passo indietro, complice la separazione da Bruce, e recupera un po’ di vena bluesy che era stata stritolata su “Shock Tactics”. Sotto questa luce l’artwork virile rimanda più all’estetica dei Molly Hatchet che ai Manowar. Alle tastiere in qualità di ospite c’è Ian Gibbons dei The Kinks.
Come per la coppia discografica precedente rappresentata da “Head On” e “Shock Tactics”, anche “Before The Storm” ed il successivo “Don’t Get Mad Get Even” (Polydor, 1984) sembrano andare mano nella mano, due album abbastanza omogenei tra loro, figli della medesima line-up, pubblicati dalla stessa label e che ritraggono la band in un periodo stilisticamente “organico”. Tra l’82 e l’84 i Samson escono fuori dai radar della NWOBHM, che oramai langue esanime, Paul ricolloca la band in territori che hanno più a che fare col rock che con il metal, sebbene oramai quella patina rimanga appiccicata sulla carlinga dell’aereo ritratto sulla copertina di “Don’t Get Mad”. Il buon riscontro della prima parte di carriera è servito a far circolare il nome del gruppo che infatti ora vende qualche copia in più e può permettersi molti più concerti rispetto al periodo con Dickinson come frontman. “Before The Storm” e “Don’t Get Mad Get Even” sono due album discreti, meno spumeggianti e taglienti dei predecessori con Bruce, ma di gran mestiere, traboccanti feeling e autenticità (il vero marchio di fabbrica delle corde di Paul). Tutto bene quindi? Manco per idea, l’interesse intorno a band come i Samson a metà degli ’80 è già quasi del tutto spento, del resto sembrano già dei vecchi fuori tempo massimo nel 1985, attorno a loro il metal impazza e soprattutto va sempre più veloce ed indurendosi, i Maiden sono all’altezza di “Powerslave”, Paul ha le fattezze di un dinosauro. A qualcuno va meglio (vedi Gary Moore, per dire) ma non a Paul, è la storia della sua vita, se qualcosa può andar male… ci andrà. La band si scoglie.
V – nato libero e bluesman
Paul fa un po’ di tutto, si cimenta come produttore, va a Chicago a suonare il blues, prova a riesumare i Samson con diverse formazioni. Una di queste sono i Paul Samson’s Empire, con cui va in tour (in UK) come supporting act degli Iron Maiden. Sempre nel 1986 pubblica un album spesso attribuito ai Samson ma che di fatto è un suo lavoro solista. L’equivoco è comprensibile, del resto la band è sempre stata intestata a lui, non sembra esserci una grande differenza tra un disco dei Samson ed uno di (Paul) Samson. Si tratta di “Joint Forces” (che segue di un anno il best of “Head Tactics” di Capitol Records, e nell’85 era uscito anche il profetico live album “Thank You And Goodnight”). La cosa interessante è che la formazione che suona sull’album è suppergiù sempre quella, Moore al microfono, McCoy al basso, Chris Shirley e Edgar Patric si alternano alla batteria. Ci sono poi le Rock Goddess al completo coinvolte in qualità di ospiti, le sorelle Turner alle backing vocals, la bassista Dee O’Malley, il tastierista Jo Julian. Anche in questo caso doppio artwork, uno di stampo spaziale (per Raw Power) ed uno che ritrae semplicemente Paul e la sua Gibson SG (per Scratch Records). L’album a mio parere è molto bello, non si discosta troppo da quanto prodotto dai Samson come ensemble in passato, contiene diversi ottimi pezzi, degni del repertorio classico del chitarrista inglese, con qualche suggestione più hardrockeggiante del solito.
Questi input vengono poi confermati ed amplificati nel successivo album a marchio Samson (solista o come band oramai poco importa, ma per gli amanti dell’archivistica, si tratta di un album solista), “Refugee”, licenziato da Communiqué Records nel 1990. Paul ricorre a musicisti con i quali non ha mai lavorato prima, un folto parterre di connazionali perlopiù sconosciuti, che hanno militato in formazioni altrettanto semisconosciute o del tutto sconosciute, una squadra da dopolavoro ferroviario ma tenace e determinata, secondo l’indole del buon Paul, primo tra gli ultimi o ultimo tra i primi, a seconda della prospettiva che più vi aggrada. “Refugee” è un lavoro clamorosamente bello, un colpo di coda che evidenzia una estrema vitalità da parte del chitarrista e che spazza via un po’ della polvere che gli anni ’80 avevano depositato sui suoi amplificatori. Paul torna nel presente, svecchiando il sound e spendendo un’altra delle sue sette vite da gatto, in effetti la sesta… cioè la penultima. Chi storce la bocca lo fa perché “Refugee” non è un album heavy metal, e pazienza ce ne faremo una ragione. Per dire, nello stesso anno esce “No Prayer For The Dying”, l’ortodossia metal, ma non esiterei un attimo dovessi scegliere da che parte propendere…
Per quanto Paul possa brillare qualitativamente per ciò che mette nei propri dischi, rimane sempre relegato in background. Quando leggete una recensione che lo riguarda di quegli anni, trovate sempre la premessa che l’ascoltatore è arrivato a Samson passando per gli Irons, che magari li ha sentiti nominare in relazione agli Irons e che beh, i dischi con Bruce Dickinson ok, ma gli altri non sono da considerarsi propriamente “essenziali”. C’è sempre qualche altra band più meritevole da attenzionare o qualche altro disco per il quale aprire il proprio portafogli. E per quanto Paul si sia dato fare, i magazine non hanno mai fatto a gomitate per averlo in copertina (mentre Thunderstick col suo bel mascherone c’è riuscito). Così lo ritroviamo mestamente nel 1993, alle prese con un album autointitolato (sempre per Communiqué), un’operazione che solitamente si compie ad inizio carriera, come sorta di battesimo, o magari quando un nuovo corso, una nuova rinascita deve essere evidenziata. Nel caso di Paul l’album suona beffardamente come un commiato (inconsapevole): questi erano i Samson. Il fido Chris Aylmer torna ad occuparsi del basso, mentre alla batteria c’è Tony Tuohy (già in “Refugee”). L’album è puro blues rock, senza infingimenti, caldo, bello, sudato, amorevole. Prendere o lasciare. All’alba dei ’90, dopo “Refugee”, Paul tenta una reunion con Thunderstick e Aylmer, vengono scritte delle canzoni ma problemi prevalentemente finanziari non mettono a terra il progetto. Per qualche data di supporto alle Girlschool in Germania si esibiscono i Paul Samson’s Rogues, con una line-up ancora diversa, ma il tutto confluirà poi nell’album “Samson” del ’93, evidentemente senza l’apporto di nessun vecchio commilitone.
Ci vuole Tokyo e ci vuole il nuovo millennio perché il quartetto Samson/Aylmer/Thunderstick/Moore torni assieme su un palco. Thunderstrick ha perso il suo treno, non è andato da nessuna parte, ed il ritorno all’ovile è perlomeno un contratto sicuro. La stessa line-up si esibisce pure al Wacken Open Air del 4 agosto 2000, mentre il concerto del maggio al London Astoria per celebrare il 25ennale della NWOBHM viene riversato su disco diventando il “Live in London”. Può darsi che questa formazione avrebbe prodotto anche novità in studio, tuttavia il cancro di Paul mette fine alla speranza il 9 agosto del 2002. Nel 2007 toccherà ad Aylmer. Per dirla tutta, Clive Burr nel 2013 sarà invece vittima di complicanze dovute alla sclerosi multipla. Nicky Moore omaggia il suo amico allo Sweden Rock Festival del 2004, esibendosi come “Nicky Moore plays Samson”, un ultimo saluto all’amico Paul. Nel 2006 Angel Air Records pubblica “P.S…”, Paul Samson, o se preferite Post Scriptum. 54 minuti che sarebbero dovuti diventare il nuovo album di Paul (intitolato però “Brand New Day”, come la seconda traccia in scaletta). La produzione del disco viene terminata tra mille difficoltà tecniche ed emotive da John McCoy. Il suono non è impeccabile, si sente che si tratta di versioni demo, ma è tutto ciò che rimane della musica a cui Paul stava lavorando prima di morire, anzi mentre moriva. E che ve lo dico a fare, ascoltare l’album ad occhi chiusi fa sognare.
VI – Thunderstick
“Parte uomo, parte bestia, parte mistero”, così amava farsi definire il signor Graham Purkis, più giovane di un anno di Paul Samson e la cui vera identità venne rivelata solo dopo aver lasciato i Samson. Nel ’77 siede dietro le pelli degli Iron Maiden, due anni dopo è con i Samson. Si sarà pentito? Ci resta fino a che non sente frustrato il suo desiderio di esibirsi in modo sempre più teatrale, indossando maschere, suonando la batteria dentro gabbie di metallo (caro Tommy Lee non hai inventato nulla….), in mezzo a fiumi di alcol e fuochi pirotecnici. La mescolanza di un impianto visivamente horror, di una musicalità che fonde rock e pop, e di un biglietto da visita rappresentato da una bella vocalist (possibilmente anche dotata), rappresenta la formula del progetto Thunderstick. I film della Hammer, il mito di Jack lo Squartatore e l’era Vittoriana, l’abominevole Dr. Phibes, La Bella e la Bestia, il Fantasma dell’Opera, il BDSM, Frankenstein e creature varie sono l’universo nel quale smanaccia e sgomita Purkis, una visione grottesca e sovraeccitata ai limiti del cartoon, un luna park degno del London Dungeon che molti turisti annualmente visitano nella capitale inglese. In una trama del genere la formazione funziona naturalmente come le porte girevoli di un albergo, i musicisti si avvicendano e solo la Regina sa quante diverse vocalist abbia cambiato Thunderstick. Tuttavia il concept non funziona come Purkis vorrebbe; sulle prime l’effetto shock attira il pubblico, ma quello metallaro rimane poi deluso dal sound troppo “leggerino”, mentre quello non metal rimane inorridito dal cattivo gusto, e per di più ci si mettono le femministe a stigmatizzare le photo session (pesantemente “cringe”) nelle quali le donne vengono dominate ed abusate, per non parlare delle esibizioni live, perdendo di vista il fatto concreto che i Thunderstick erano pur sempre una delle pochissime band dell’epoca ad avere una cantante donna. Suo malgrado, dopo appena un Ep (“Feel Like Rock ‘n’ Roll”, 1983) ed un full length (“Beauty And The Beasts”, 1984), entrambi gradevoli, il batterista mascherato è sconfitto dal music business. Accade nell’88 quando depone le bacchette. Raccolte postume celebreranno l’estro di Thunderstick, fino all’improbabile ritorno nel 2017 con l’album “Something Wicked This Way Comes” (grazioso, retrò, “light”, con una malcelata propensione al musical, come è sempre piaciuto a Thunderstick) ed alcuni singoli a seguire (solo in formato digitale) tra il 2020 ed il 2021. Ne avete sentito parlare? Ecco…appunto.
Discografia Relativa
- 1979 – Survivors
- 1980 – Head On
- 1981 – Shock Tactics
- 1982 – Before The Storm
- 1984 – Don’t Get Mad, Get Even
- 1986 – Joint Forces
- 1990 – Refugee
- 1990 – Live At Reading ’81 (live)
- 1993 – Samson
- 20006 – P.S… (postumo)
THUNDERSTICK
- 1983 – Feel Like Rock ‘n Roll? (Ep)
- 1984 – Beauty And The Beasts
- 2011 – Echoes From The Analogue Asylum (compilation)
- 2017 – Something Wicked This Way Comes
- 2021 – Torn ‘n’ Twisted… (single)