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Overkill 1993 – 1996

GLI ANNI DEL DISORDINE

Gli anni più difficili di tutta la carriera. Un biennio in partiolare (’93 – ’94) nel quale gli Overkill davano l’impressione di non sapere più dove andare a parare. Un passato glorioso alle spalle ed un futuro incerto davanti, mentre il presente offriva spunti tutt’altro che rassicuranti. E però quelli sono stati anche gli anni del coraggio e della sperimentazione (in)cosciente per gli Overkill, due tratti poi purtroppo paurosamente ridimensionati nel loro sound.

Contenuti:

1. Poker d’acciaio (1985 – 1989)
2. L’oroscopo (1990)
3. Impressioni di Settembre (1993)
4. E ora qualcosa di completamente diverso (1994)
5. Manierismo vs libertà (1995 – 1996)
6. Sfogliare nostalgicamente l’album di famiglia

1 – Poker d’acciaio

Tra i più amati trasversalmente dai metallari urbi et orbi, gli Overkill hanno la fama di essere duri e puri, integralisti del metallo, fedeli alla linea, sempre coerenti, di quelli autentici insomma, metal to the metal e via, pedalare. Tra il 1985 e il 1989 hanno pubblicato quattro signori album, uno più bello dell’altro, in un crescendo che sembrava non doversi mai arrestare, non avere un limite ultimo. Già con “The Years Of Decay” pareva fisiologicamente impossibile che la band potesse ulteriormente superarsi, arrivando a scrivere qualcosa di oltre, di ancora più forte, incisivo, sbalorditivo, malevolo, potente.

Tra quei dischi degli Overkill delle differenze, delle sfumature, delle venature diverse ci sono, tuttavia il senso granitico ed inossidabile di corpo metallico che trasmette quel poker di dischi è molto accentuato, quasi fosse un unico concepimento declinato poi in quattro tempi. Da “Raise The Dead” (che apre “Feel The Fire”) a “E.vil N.ever D.ies” (che chiude “The Years Of Decay”) è un flusso continuo ed ininterrotto di odore acre di morte, nichilismo e violenza, tale da lasciare soltanto vittime sul campo, falciate via da un mietitore privo di rimorsi. Pane al pane e vino al vino, gli Overkill raccontano la realtà per quello che è, una palude di dolore, amarezza, affanno e sopraffazione. E thrash metal.

“The Years Of Decay” è un lavoro incredibilmente vario e maturo, eppure cattivo al contempo. “Timo To Kill” e “I Hate” sono feroci. “E.N.D.” è tra le vette di brutalità raggiunte dalla band, tranquillamente in grado di poter competere con gli Slayer sul loro stesso terreno. “Playing With Spiders/Skullcrusher” è più doom del doom, è la canzone del Destino per antonomasia, è la sublimazione dei Sabbath e poggia su un riff portante che non scorderò mai più fino all’ultimo dei miei giorni (proprio per questo è intrinsecamente doom). “Elimination” ha groove, quando storicamente il groove era ancora una roba esaltante e non una pastura da camionisti redneck. “Birth Of Tension” è un’altra canzone “onomatopeica”, nel senso che il suo titolo traduce in modo spettacolarmente fedele le sensazioni che trasmette, tensione palpabile, nervi scoperti, una corda d’acciaio sul punto di spezzarsi. “Who Tends The Fire” è imponente, superba, maestosa, epica. “Nothing To Die For” è metallo straightforward. La title track è capace di mortificare gli effetti di qualsiasi antidepressivo vi abbia prescritto il dottore, è disperazione, mestizia, rassegnazione, impotenza. Aggiungeteci un artwork favoloso ed una produzione cruda e pulitissima, capace di elevare a potenza la carta vetro che Bobby Ellsowrth ha in gola, il basso zigrinato di D.D. Verni, la chitarra affettatrice di Bobby Gustafson e il drumming cardiochirurgico di Sid Falck.

overkill i hear black

II – L’oroscopo.

Si poteva realisticamente chiedere di più? No, e infatti non arriva di più, arriva un quasi altrettanto. “Horrorscope”, un gran bell’album che però rimescola qualche carta. Le chitarre diventano due, le trame si rendono leggermente più malleabili, arrotondano le spigolature, trovano un modo per arrivare più suadenti all’orecchio di chi ascolta, senza minacciarlo solo e soltanto di percosse dure dure, come accadeva con “The Years Of Decay”. “Horroscope” è più ricco e barocco, non per questo migliore, ma più “pieno” si. Gli Overkill non mirano ad indurirsi sempre più, vogliono riempire qualche vuoto, mettono un po’ di mastice nelle scanalature. “Horrorscope” è un connubio di power e thrash, con il thrash che prende il posto solitamente riservato al metal. Attenzione, gli Overkill non si danno affatto al “power metal”, ma idealmente “Horrorscope” ha qualcosa in comune con quel filone, sporcato e debitamente stravolto dal background thrash dei newyorkesi (o viceversa).

Il sound del pipistrello alato si intellettualizza un po’ e lo scotto da pagare è un percettibile, seppur lieve, ammorbidimento complessivo. Solo i Celtic Frost sono riusciti ad essere cerebrali senza perdere un’oncia di cattiveria e anidride solforosa. Blitz e Verni rientrano tra i normodotati che per fare filosofia – ancorché borchiata – devono starci a pensare un attimo, e questa vertigine speculativa fa decrescere il tasso di belligeranza. “Horrorscope” tuttavia è un grandissimo risultato che appaga e convince tutti, ma proprio tutti i fans (e ne procura pure qualcuno di nuovo, che si sentiva graffiare troppo dagli spunzoni di “Taking Over” e “Under The Influence”).

Il 1993 però è un bel pezzo in là, è successo di tutto alla musica rock, quella metal poi pare destinata ad essere archiviata nei manuali di paleontologia alla voce “specie estinta”. Il blocco strutturale della band rimane sostanzialmente invariato, giusto Tim Mallare (ex M.O.D.) in sostituzione di Falck. Alla fine però, il risultato del processo compositivo diventa un’altra storia.

III – Impressioni di settembre.

Udite udite, è tutto nero. Lo stilista dei Metallica (che veste chiunque di nero) aveva un fratello che lavorava alla Amplifon, il quale dota gli Overkill di apparecchi acustici che fanno sentire tutto nero. Come si sente in “nero”? Presto detto, Atlantic Records 1993: “I Hear Black”. Undici tra le tracce (nel senso di canzoni) più scontenta-thrashers che la storia ricordi, undici tracce (nel senso di evidenze) di poca lungimiranza da parte di molti metallers, quelli che se rallenti allora è prostituzione. Reato perseguibile ai sensi del codice metallaro redatto in pelle umana (di poser) e inchiostro di sangue (di gente felice e spensierata che ride) da Kerry King.

“I Hear Black” è una scommessa che gli Overkill fanno sulla propria fan-base e che perdono clamorosamente. Scriviamo 11 pezzi (10 più una breve strumentale) che non partano dal presupposto di dover spaccare tutto, che non siano vincolate all’obbligo di digrignare i denti, ma che con uguale autenticità lascino spazio alle nostre vibrazioni, alle nostre sensazioni, tu chiamale se vuoi emozioni. Ovvero quello che gli Overkill nella stagione ’92/’93 – con tutto il mondo che sta cambiando intorno a loro – provano a livello epidermico. Il disagio c’è ancora ma si tenta di elaborarlo in chiave meno rabbiosa e distruttiva, assecondando impulsi più malinconici e riflessivi.

Ne viene fuori uno degli album che più hanno saputo catturarmi all’interno della discografia del gruppo. Non per forza il migliore, nulla che possa togliere scettro e potere al periodo ’85-’89, ma che può concorrere ad armi pari (e mi sto tenendo volutamente basso) con molta della produzione a venire. E’ una questione di empatia, di sintonia, di toccare determinate corde che prescindono del tutto dal tasso di aggressione, violenza e cattiveria (la forma) e che si rivolgono direttamente alla sostanza. “I Hear Black” è cupo? Si, ma in maniera diversa, è una ballata blues dolce ed amarognola, senza asfissie. E’ metal? Si, ma in maniera diversa, meno intransigente e più sottile. E’ thrash? Al 90% no. E’ intenso? Quanto e non meno degli album pubblicati sin qui dalla band. Il verde smeraldo del logo e delle copertine della band scolorisce in un ocra autunnale che rende plasticamente la stagione di sfiducia mista a mitezza che permea la nuova visione del mondo da parte degli Overkill. Il tepore di una giornata di settembre, lontanamente imparentato con il bollore della calura estiva, e che proprio per questo ne porta con sé una memoria languida e nostalgica.

Rock e grunge sono variabili che entrano in gioco nelle sessioni di composizione degli Overkill. No, “I Hear Black” non è neppure un album grunge, ma anche quell’influenza arriva nella sala prove della band. I Metallica hanno dimostrato che si può non aver paura di decelerare e che curare produzione ed arrangiamenti come farebbe magari una grande star del pop internazionale non è reato, è professionismo ed amore verso la propria musica. E gli Overkill hanno assimilato quell’insegnamento.

overkill wfo

IV – E ora qualcosa di completamente nuovo.

In questo tipo di approccio esangue, liquido, “aggraziato” – mi si passi il termine – “I Hear Black” è strettamente imparentato con “Cuatro” dei Flotsam And Jetsam, che condivide esattamente le stesse premesse (e gli stessi esiti). Si potrebbe quasi parlare di album gemelli (“Natural Enemies” va con “Dreaming In Columbian”, “Swatting At Flies” con “I Hear Black”, “Wading Through The Darkness” con “Shades Of Grey”, “The Message” con “Spiritual Void”, “Never To Reveal” con “Weight Of The World”, “Hypodermic Midnight Snack” con “Just Like You”, e via discorrendo, in una sorprendente corrispondenza di amorosi sensi), nonché ovviamente di parentela di secondo grado con il Black Album.

Ci mettono 16 mesi gli Overkill a far uscire un nuovo lavoro e devono essere stati 16 mesi durissimi. Bastonati senza interruzione tanto dai giornalisti quanto dal pubblico, Blitz e soci non sanno bene che pesci prendere; i blackened Overkill non sono stati apprezzati, è chiaro che il difetto principale che viene imputato al gruppo è il poco mordente, l’annacquamento imperdonabile del thrash, e così i nostri – coda tra le gambe – tornano parzialmente sui propri passi. Se a distanza di un anno e poco più fai uscire un album radicalmente diverso dal precedente, che era già radicalmente diverso dal precedente, i casi sono due: o suoni nei Voivod, o mi stai dicendo che non credi affatto nel penultimo disco, lo stai bocciando, ti sei pentito e fai pubblica ammenda. Il che risulta abbastanza sgradevole per chi lo ha apprezzato (ed ha creduto alle tue convintissime parole di allora), ed allo stesso tempo risulta sgradevole anche per chi apprezza il nuovo lavoro, perché verrebbe da pensare che domani sarà questo ad essere denigrato al cospetto del prossimo. Insomma, perdi credibilità, perché il sospetto di calcolo ed insincerità arriva forte e chiaro, più di tutte le schitarrate e le rullate a mitraglia.

Fatto sta che gli Overkill cercano di riprendersi una fetta di fans con “W.F.O.”, un disco per certi versi strano e difficile da stringere alle corde per affibbiargli un’etichetta unica ed ultimativa. E’ chiaramente l’elaborazione di un percorso (per altro ancora in divenire), non un approdo finale. Senza avere ben chiaro dove andare a parare, Blitz e Verni sanno solo che devono allontanarsi il più possibile dal pantano di “I Hear Black”, dare l’impressione di essere di nuovo attraversati da una scarica di 220 volts ed aver (ri)trovato la retta via. Quindi innanzitutto durezza, velocità, groove e confezione thrash. Tuttavia “W.F.O.” non riprende esattamente da dove si erano interrotti “The Years Of Decay” o “Horrorscope”, è già una rilettura 2.0 del sound Overkill, come se il virus che ha contagiato la band intorno al 1993 avesse lasciato dei residui, avesse in qualche maniera impresso tracce indelebili nel DNA della band.

“W.F.O.” è un disco che con fatica tenta di riguadagnare terreno, si sente che lo fa con le unghie e coi denti, quasi strisciando ventre a terra tra mille difficoltà. La prima tra tutte è la Produzione abbastanza scellerata, che peggiora tutto, ogni strumento, togliendo eloquenza alle composizioni. Non è affatto un album immediato, anzi, personalmente l’ho afferrato dopo un bel po’ di ascolti. Sulle prime mi ha infastidito come suonavano gli strumenti, poi cosa suonavano; il primo ostacolo non è possibile rimuoverlo, il secondo si impara ad aggirarlo col tempo. Mi sono reso conto che – sempre senza parlare di capolavoro, come già accaduto nel caso di “I Hear Black” – “W.F.O.” non è così irrilevante e scarso come lo si dipinge. E’ un lavoro sofferto, nel quale però gli Overkill ragionano, provano, propongono, si sbattono insomma, a costo di sbagliare anche qualche colpo. E’ importante tenerlo a mente perché questo atteggiamento è destinato a sparire per molti anni in casa Overkill.

V – Manierismo vs libertà creativa

Stavolta ci mettono un po’ di più a leccarsi le ferite e lasciano passare un biennio prima di ripresentarsi nei negozi di dischi. “The Killing Kind” è una specie di bignami. Sfrondato completamente il sound da sperimentazioni, velleità, astruserie e qualsiasi altro orpello potesse distogliere l’attenzione dal raggiungimento dell’obbiettivo puro e semplice, diretto ed immediato, il nuovo disco è l’esaltazione dell’essenziale. Gli Overkill tornano a fare gli Overkill, a seguito di una vistosa cura dimagrante. In questo senso “The Killing Kind” è un disco un po’ furbetto che dà avvio al periodo del “manierismo” overkilliano, ovvero circa un decennio nel quale gli Overkill sempre più pigramente (e pavidamente) rinunciano a scrivere musica per libera ispirazione e si fanno guidare dal marchio della casa, lo preservano, lo coccolano, lo replicano in mille modi e maniere, stando bene attenti a non uscire dal seminato e a vendere il prodotto che tutti si aspettano che gli Overkill vendano, né più né meno. Almeno queste sono le intenzioni, perché il meno c’è, ed è quello di produrre album addomesticati, manipolati, decorativi, privi di qualcosa di schietto e spontaneo da dire.

“The Killing Kind”, iniziatore di questa genìa che si spinge almeno fino a “ReliXIV” (ma direi anche oltre….), rimane a mio parere il più riuscito della serie, quello perlomeno con i pezzi migliori, dove il manierismo non soppianta ancora del tutto buoni spunti e sapiente mestiere. I cinque album successivi (non uno, non due….cinque) vanno col pilota automatico, suonando Overkill al 100% senza riuscire però a trasmettere molto altro che l’aderenza al marchio DOP e facendo slittare il monicker della band tra quelli che suonano un po’ datati.

All’altezza di “Immortalis” (2007) dentro la scatola Overkill ci troviamo solo Blitz e Verni, gli altre tre sono comprimari, pescati un tanto al chilo dall’undergound borchiato. Non perché siano musicisti scarsi, ma perché sono chiamati unicamente ad occupare delle caselle vuote, senza null’altro a pretendere. “Immortalis”, “Ironbound”, “The Electric Age”, “White Devil Armory” percorrono strade parallele. Per ciascuna uscita sui magazine specializzati e online si scatena la ridda di recensioni che si divide più o meno equamente in due fazioni belligeranti e contrapposte: 1) “il solito compitino degli Overkill“; 2) “il disco della rinascita degli Overkill“. E’ curioso ma è andata davvero così. Personalmente posso dire che sicuramente si tratta di release che rialzano un pochino le quotazioni del gruppo (rispetto al periodo ’97 – ’05) e che nella propria track list contengono alcuni episodi degni di nota, tuttavia non mi sentirei di ritenere nessuno dei quattro un album della “rinascita”, sostanzialmente sempre fermi al “manierismo” di cui sopra, semplicemente affinato e raffinato col passare degli anni fino alla sublimazione.

overkill killing kind

VI – Sfogliare nostalgicamente l’album di famiglia

Scoccia ammetterlo ma un album degli Overkill per me è diventato sinonimo di accontentarsi; se lo prendi per il verso giusto, può regalare una cinquantina di minuti di rimpatriata in famiglia, anche se i tuoi cari sono visibilmente invecchiati ed acciaccati. Inutile ricordarsi di quando lo zio ti portava ai campetti a giocare a calcio, o la nonna trascorreva interi pomeriggi a preparare leccornie succulente per poi magari ammollarti pure una banconota per il gelato, oggi devono pensare alla sfilza di medicine da prendere a scadenze regolari, alle visite mediche da prenotare di continuo, alla scarsa pensione con cui devono far quadrare il bilancio, i tempi scoppiettanti in cui riempivano le tue giornate e le tue aspettative sono passati. Gli vuoi bene e gliene vorrai per sempre, ma i ricordi sono un crudele dito puntato contro la decadenza del presente, the years of decay.

Ascoltare “White Devil Armory” e pretendere di sentirci dentro “Feel The Fire”, oltre che sbagliato è una costruzione mentale tutta a carico del fan irriducibile. Passati i 30 anni di carriera e giunti al 18esimo album (venti se, con vezzo, vogliamo considerare anche l’EP “Fuck You” e il cover album “Coverkill” come addendi della numerazione), gli Overkill non devono dimostrare più niente né sorprendere il mondo, il loro meglio lo hanno dato e nessuno può e-li-mi-nar-lo (come recita una loro famosa canzone). Stupisce un po’ la selva di applausi scrocianti ad ogni ennesima pubblicazione, ma in questo i nostri sono in buona compagnia, si pensi a Saxon, Iron MaidenJudas Priest, eroi sempiterni che il fan non accetta di veder invecchiare, neanche davanti a certificazioni in carta bollata dell’INPS.

A me la nostalgia per quella manciata di anni difficili della band rimane. Perché parlar bene di “Under The Influence” o “The Years Of Decay” è vincere facile, è ovvio che siamo tutti accomunati dall’esaltazione per i dischi migliori. Il periodo oscuro è venuto dopo, ma quegli Overkill erano combattenti e hanno attraversato la valle buia con coraggio e spirito tenace, provando a far qualcosa e a proporre nuove formule e ricette. Non è andata bene e sono tornati baracca e burattini da dove erano partiti, non essendo però più gli stessi, perché qualsiasi esperienza, anche negativa, ti forma e si segna. “I Hear Black” a casa mia continua a troneggiare al cospetto di tanti scialbi lavori venuti dopo, album arresisi ancora prima di battagliare, contraffatti sulle aspettative, sul “brand”, forse financo alimentari, tanto qualcuno pronto a farsi venire la tracheite a forza di ovazioni incondizionate di giubilo si trova sempre.

E’ che gli Overkill fanno simpatia, non hanno mai fatto i pagliacci, sono tra quelli che hanno mantenuto un profilo basso e hanno continuato a macinare, sempre e comunque, da operai devoti della catena di montaggio. Mai nulla di eclatante (a parte un infarto), solo dedizione alla musica. Una carriera onorevole e meritevole, e con così tanti dischi nel carniere è anche normale che ognuno dica la sua.

Discografia Relativa

  • 1993 – I Hear Black
  • 1994 – W.F.O.
  • 1996 – The Killing Kind

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