Tra il 1983 ed il 1986 i Manilla Road di Wichita, Kansas, pubblicano quelli che verranno considerati i loro migliori album di sempre: “Crystal Logic”, “Open The Gates”, The Deluge”. Tre capolavori che detteranno la linea in ambito epic metal e definiranno lo “stile Manilla Road”. Cosa succede immediatamente dopo? Qual è la storia e l’accoglienza riservata agli album successivi? Ubi maior minor cessat dicevano i latini e dunque, parafrasandone la locuzione, se quelli erano i migliori Manilla Road i minori non possono che inchinarsi al loro cospetto e cedere il passo. Ma quanto sono stati realmente “minori” i dischi dopo il 1986?
Contenuti:
1. I migliori album della nostra vita (1980 – 1986)
2. Thrash e horror, in due parole: la Mistificazione (1987)
3. Minor throat (1988 – 1990)
4. Dal circo ad Atlantide (1991 – 2002)
1 – I migliori album della nostra vita
Se banalmente fate un giro su Metal Archives, Bibbia enciclopedica ineludibile per chiunque mastichi heavy metal, vedrete che l’intera discografia dei Manilla Road non scende sotto la soglia minima del 73% come indice qualitativo di valutazione, con una media del 90,5% su una discografia di 18 album in studio compresi tra il 1980 (“Invasion) e il 2017 (“To Kill A King”). Non sono molte le band così longeve e produttive che possono vantare un feedback altrettanto solido e gratificante da parte del pubblico. Ed infatti il giudizio (composito, va detto) di Metal Archives è sin troppo generoso, soprattutto pensando al secondo tempo della carriera della band, quello radicato negli anni 2000. Ma i Manilla Road sono sempre stati visti come un culto religioso più che come una semplice band, se esiste l’epic metal è anche per merito loro. Non mi voglio avventurare in disamine fondative che non sono l’obbiettivo di questo articolo, ma basti ricordare che Manowar, Cirith Ungol e Virgin Steele (siamo intorno al 1981/1982) muovono i primi passi con album che gravitano ancora molto in ambito hard rock (esattamente come i Manilla) e che poi progressivamente irrobustiscono il proprio sound cingendolo di cinte murarie più concretamente metal e idealmente “epiche”. Il 1984 vedrà un’infornata di parecchi album gravitanti attorno o dentro il genere, come “Battle Cry” degli Omen, “And The Cannons Of Destruction Have Begun” degli Warlord, “Into Battle” dei Brocas Helm, “The Last In Line” di Dio (che un anno prima si era cimentato con il debut “Holy Diver”), senza contare che a cavallo tra i ’70 e gli ’80 gli scandinavi Heavy Load avevano già pubblicato tre album ai quali molti blasoni successivi faranno necessariamente riferimento (e anche che, più in generale, il rock anni ’70 degli Uriah Heep, dei Led Zeppelin e dei Rainbow aveva già dato indicazioni preziose al riguardo). Album dopo album l’epic metal va costituendo la sua fisionomia, piazzando robuste fondamenta in terra statunitense. Nel Kansas verrebbe da pensare che i maschi abili e arruolabili avrebbero dovuto dedicarsi prevalentemente a colt e cinturoni anziché ad alabarde e cotte di maglia, e invece Mark Shelton – nativo di Wichita – è la dimostrazione che le cose stavano diversamente.
“Invasion” esce nel 1979 ed è il frutto innanzitutto dell’amicizia tra Shelton (detto “Shark”) e il concittadino (nonché bassista) Scott Park. Entrambi amano la musica rock che quel decennio che sta per concludersi ha prodotto in modo così copioso e abbondante, e mettono assieme le rispettive competenze alle sei e alle quattro corde per formare una band ed esibirsi localmente. Per i concerti si succedono diversi batteristi finché Rick Fisher diventa quello istituzionale, a ben tre anni di distanza dalla nascita ufficiale dei Manilla Road. Il riscontro di pubblico è discreto, tanto dal vivo quanto a livello di airplay radiofonico (sempre inteso a livello locale). La Roadster Records sente odore di qualità e dopo l’ennesimo concerto ricco di rock ed entusiasmo agevola la band nell’incisione di un album d’esordio. Inizia l’Invasione. Gli sforzi live per supportare l’album si intensificano, idem la distribuzione radiofonica; per la cronaca, “Invasion” deterrà per otto anni il record di presenza nella playlist di una radio della zona (la KMUW-FM). Tutto va secondo i piani e Roadster Records si rende disponibile alla produzione di un seguito. Fedele ai titoli brevi e icastici, la band dà alle stampe “Metal”, lavoro del tutto coerente con il debutto e che tuttavia già mostra una progressione dei Manilla dall’hard rock verso – appunto – il metal. La circolazione del disco aumenta esponenzialmente grazie anche alla firma di appositi contratti distributivi. La band travalica i confini regionali per esibirsi anche altrove, come ad esempio nel vicino Oklahoma. I riscontri sulla carta stampata sono positivi e la Shrapnel Records di San Francisco offre uno slot alla band all’interno della propria compilation di imminente pubblicazione “U.S. Metal #3”. I Manilla Road timbreranno il cartellino con l’inedita “Flaming Metal System” (poi recuperata ed inserita nella scaletta del successivo “Crystal Logic”); il bello è che “U.S. Metal #3” viene distribuita anche in Europa, si tratta dello sbarco in Normandia per i Manilla (pacifico e gioioso), l’Europa è pronta ad accogliere dei nuovi beniamini.
I quattro anni compresi tra il 1983 ed il 1986 costituiscono quello che viene ritenuto il periodo aureo dei Manilla, la fase in cui pubblicano probabilmente i loro migliori album di sempre, sicuramente tre capolavori in fila, nonché tre pietre miliari di quello che viene considerato il sottogenere del cosiddetto epic metal. “Crystal Logic”, “Open The Gates” e “The Deluge” arrivano uno dopo l’altro ingigantendo esponenzialmente le quotazioni del gruppo. A titolo personale, reputo “Crystal Logic” il migliore del trittico nonché il mio album preferito dei Manilla Road ma, che propendiate più per questo o per quello, è indubbio che quei complessivi 130 minuti di musica circa siano stati consegnati alla storia del metal come una delle parentesi più significative di sempre dell’heavy rock americano (e mondiale). Tre album davvero enormi per songwriting, potenza, suggestione, forza evocativa (meno per produzione magari), sospesi tra saghe arturiane, tanta letteratura (Lovecraft, Robert E. Howard, Arthur Conan Doyle, Edgar Rice Burroughs), rimandi biblici, riferimenti storici (Shelton ha sempre amato particolarmente la Storia come insegnamento di vita, per non ripetere gli errori del passato…. vano proposito, ahimè), e mille altri rivoli rigorosamente fantasy, avventurosi nonché pregni di virilissima mitologia. In questo quadriennio i Manilla Road canonizzano il proprio sound, lo caratterizzano definitivamente con tutti i trademark che da quel momento in poi gli verranno attribuiti e fungeranno da calderone inesauribile al quale verranno ad approvvigionarsi molte altre band, anche a parecchi meridiani e decenni di distanza. Heavy metal, digressioni rockeggianti di stampo seventies con alcune propensioni persino verso la psichedelia ed il prog, improvvise accelerazioni ed altrettanto repentine decelerazioni, un timbro acido della chitarra elettrica a cui fanno da contraltare arpeggi di una poesia e di un lirismo armonico struggenti; ciliegina sulla torta, la voce nasale e insidiosa di Shelton, pura narrazione letteraria applicata alla musica, tanto da fargli guadagnare la nomea di “bardo” dell’heavy metal.
II – Thrash e Horror, in due parole: la Mistificazione
Dunque, cosa succede immediatamente dopo la pubblicazione “dei migliori album dei Manilla Road“? Beh intanto Rick Fisher nell’84 ha lasciato lo sgabello della batteria venendo sostituito dal più dinamico e tecnico (e propenso al metal) Randy Foxe a partire da “Open The Gates”; così come quell’album segna anche il trasloco dei Manilla sotto le insegne della francese Black Dragon Records, fondata nello stesso anno e che poi nell’85 consoliderà il proprio roster dando alle stampe album del calibro di “Symphonies Of Steel” degli Exxplorer, “Call Off the Dogs” degli Steel Vengeance, “Master Of Disguise” dei Savage Grace, “Freedom’s Rise” dei Liege Lord, e nel 1986 titoli come “Graceful Inheritance” degli Hier Apparent, “Epicus Doomicus Metallicus” dei Candlemass, “Crack Of Doom” dei sottovalutatissimi D.C. Lacroix. Storpiando il nome di una nota band hardcore punk americana, ha inizio quello che potremmo definire il periodo “minor throat” dei Manilla Road, circondando il sostantivo “minor” con tutte le virgolette cautelative del caso. Prescindiamo un attimo dai gusti, dalle sensibilità e dalle inclinazioni soggettive e personali; agli atti del grande libro mastro della storia del metal, il sestennato che va dal 1987 al 1992 è considerato universalmente “minore” nell’ambito della biografia dei Manilla Road, comprende quattro album che portano avanti l’epica della band tra alti e bassi (gestionali prima ancora che musicali). Tra “The Deluge” e “Mystification” passa in realtà appena un anno, una manciata di mesi, non c’è un senso di iato o una frattura così profonda tra le due release, bensì una certa continuità che vede i Manilla regolarmente impegnati a progredire passo dopo passo, come accade nella vita di qualsiasi band.
Di fatto però qualche cambiamento inizia invece ad avvertirsi, più o meno consapevole. Attorno a Shelton e compagni il movimento speed-thrash guadagna accoliti e consensi. Nel 1987 gli Slayer sono già arrivati a “Reign In Blood”, i Megadeth hanno scatenato le ire (e le invidie) dell’inner circle dei Metallica con l’ottimo “Peace Sells…”, gli Exodus dopo “Bonded By Blood” si sono un po’ persi con “Pleasures Of The Flesh” e per gli Anthrax è l’anno di “Among The Living”; questo solo per rimanere ai Big Four del thrash. Ecco che allora, dopo tre album fantastici, relativamente omogenei a livello di sound (anche se ogni sfumatura interna viene via via sviluppata ed elevata a potenza), “Mystification” si apre con una bordata di violenza belluina come “Up From The Crypt”, un pezzo inaspettato e feroce (per gli standard dei Manilla Road), e non sarà l’unico a (ri)vestire l’heavy metal della band di urgenza speed/thrash, ci sono ad esempio anche “Valley Of Unrest” e “Death By The Hammer”. Al contempo, a livello lirico le atmosfere si intorbidiscono, abbeverandosi in lungo e in largo dalle visioni allucinate e tenebrose di Edgar Allan Poe. Non sfuggirà ad esempio che brani come “Haunted Palace”, “Valley Of Unrest”, “Spirits Of The Dead”, la title-track e “Masque Of The Red Death” fanno direttamente riferimento ai racconti dello scrittore di Boston (mentre “Children Of The Night” guarda a Howard). L’album contiene alcune delle più belle tracce di tutta la discografia dei Manilla, perlomeno a mio gusto; difficile resistere al canto delle stelle di “Dragon Star” o al misticismo della title-track, per altro simili come concepimento e struttura, collocandosi a metà strada tra delle epicissime e sognanti ballate e delle intense cavalcate metalliche in crescendo.
Ho sempre fatto fatica a retrogradare “Mystification” dietro il tris di eccellenza “Logic/Gates/Deluge” che lo ha preceduto temporalmente; forse non è all’altezza di quegli album, non so dirlo in modo lucido e definitivo, ma è comunque un lavoro eccellente, con alcuni momenti davvero “larger” che escono fuori dai confini della sua scaletta per protendersi oltre, rivaleggiando con tutta la discografia della band. Un lavoro dal fascino enorme (che verrà distribuito in America dalla Roadster e in Europa dalla Black Dragon), anche grazie a tonalità ora più ombrose e decadenti, che non inficiano affatto la qualità dei Manilla (da sempre comunque dediti ad un fantasy di stampo “heroic”, dunque più plumbeo, drammatico e accigliato), ora più arcane, oniriche e misteriose. Nondimeno “Mystification” trasuda ugualmente un’epicità enorme, affatto ridotta o contenuta; tuttavia il groove che il terzetto erige con gli strumenti, la sinergia quasi “spiritica” di testi e musica, aggiungono un’ulteriore colore al sound della band che qui si tinge di spunti orrorifici ed evidenzia innegabili accenti thrash. Saranno proprio questi aspetti a far storcere la bocca ai puristi che non si ritroveranno granché in una simile sterzata, nettamente percepibile ma non così dirimente da sconvolgere la fisionomia della band. Certo, siamo alquanto distanti dalla spensieratezza di “Feeling Free Again”, per dire, in molti non coglieranno che d’ora in poi queste due anime saranno destinate a convivere nel songwriting della band, dandosi reciproca cittadinanza, prevalendo l’una sull’altra, emergendo in superficie o scorrendo carsicamente sotto l’ordito del pentagramma di Shelton. “Mystification” gode pure di una ottima produzione (all’epoca i Manilla cambiarono studio di registrazione, trasferendosi a Memphis), benefit che la band non avrà spessissimo ad accompagnarla, anche questo contribuisce ad aumentare il senso di forza e potenza che quelle canzoni sono in grado di esprimere a tutt’oggi. Un lavoro che emana autenticità e sincerità a prescindere dall’etichetta che stampa e audience hanno deciso di attribuirgli ora come allora.
III – Minor throat
Di nuovo, appena un anno per dare alle stampe l’ennesimo capitolo discografico di una band che evidentemente si sente feconda ed ispirata. “Out Of The Abyss” segue lo stesso schema di “Mystification”, l’album si apre con un pezzo veloce, tirato e sanguinario (letteralmente, visto che si ispira alle gesta del “ripper” per antonomasia, ovvero mr. Jack di…) “Whitechapel”. L’incipit in qualche misura fotografa plasticamente lo stato dell’arte. I Manilla Road hanno perso mordente, soprattutto in Europa, i loro tre album “d’oro” rimangono idolatrati urbi et orbi ma questo scivolamento verso il thrash ha scontentato più fans di quanti ne abbia entusiasmati. La produzione trasforma le chitarre in lame seghettate, pezzi come “Black Cauldron” o “Midnight Meat Train” sono thrash più nel sound e nelle intenzioni che nell’effettiva resa, ma questa attitudine basta ed avanza a deteriorare l’humus attorno a Shelton e ai suoi band-mates. I Manilla Road entrano in modo conclamato nel periodo dei loro dischi “minori”. Shelton prova a ricordare al suo pubblico che già in diversi dei vecchi album la band aveva pigiato sull’acceleratore (vedi “Heavy Metal To The World”, “Taken By The Storm”, “Friction In Mass”, etc), ma la excusatio non petita allarga il buco anziché tapparlo, e poi “Whitechapel” ha un registro vocale davvero agguerrito e slabbrato, come mai prima d’ora (del resto stiamo parlando di uno sbudellatore seriale…). Tutto il disco vede una prova di forza di Shelton al microfono che in certi frangenti rivaleggia con i falsetti di Rob Halford e persino di King Diamond. Shark si spinge talmente oltre che si rompe addirittura una corda vocale (già dall’84 soffriva di laringite cronica per lo sforzo durante le registrazioni di “Open The Gates”).
Va anche detto che in questa fase i Manilla Road si ritrovano spesso e volentieri a condividere i palchi con band thrash metal, il che comporta una continua esposizione a determinate sonorità (e ad un certo pubblico che accorre in massa proprio per ascoltare quelle sonorità). Questo significa dolo consapevole da parte di Shelton? Lui non l’ha mai vista così, semmai si è trattato di una naturale e fisiologica propensione dei Manilla Road dovuta ad uno specifico contesto storico ed ambientale. La cornice fa il quadro, o perlomeno lo influenza. “Out Of The Abyss” comunque comincia a vender bene (grazie pure all’ottimo marketing delle Leviathan Records di David Chastain, con cui i Manilla Road vanno in tour negli States), a dispetto della critiche ricevute. L’album rappresenta il punto più estremo della spedizione dei Manilla Road nei reami del thrash (pur sempre contemperato da epic anthems come ad esempio “Return To The Old Ones”, “War In Heaven” e “Helicon”), proseguire oltre avrebbe comportato oltrepassare scientemente il punto di non ritorno, per mutar pelle definitivamente in una band thrash metal. Anche per quanto riguarda i testi si insiste su cinema e letteratura horror da Poe a Howard, da Romero al Sam Raimi di Evil Dead. Shelton è soddisfatto del platter ma nel suo concetto di continua evoluzione e progressione della band il prossimo disco deve nuovamente rappresentare un cambiamento.
“The Courts Of Chaos” (1990) viene pubblicato in America da Leviathan come album solista di Mark Shelton ed esclusivamente su formato cassetta. Il problema è rappresentato dalla Black Dragon che non gode di nessun appiglio negli States, anzi risulta piuttosto sgradita, non ci sono distributori disposti a farsi carico dei suoi prodotti a causa di una pessima reputazione guadagnata sul campo. L’escamotage per uscire dallo stallo è cedere alla richiesta di intitolare l’album al mentore della band. In Europa invece Black Dragon gioca in casa e pubblica il disco senza censure. L’artwork pare uscito da un libro di Howard su Conan, uno scenario dichiaratamente heroic fantasy, cupo ed epico. La scaletta si apre con una strumentale di oltre quattro minuti (non a caso intitolata “The Road To Chaos”), una intro ricca e generosa decisamente diversa dal modus operandi di “Mystification” e “Out Of The Abyss”, e che sulle prime evoca le atmosfere horror di un film tipo Phantasm; ma intorno ai 2 minuti e 40 secondi la chitarra esplode fragorosa come il vulcano Krakatoa e in un attimo Shelton ci accoglie nella sua magione, naturalmente situata in Manilla Road, numero civico 666, Wichita (Kansas). “Dig Me No Grave” è la prima vera canzone dell’album, semplicemente ottima. L’impronta thrash si è già edulcorata, bisogna arrivare a “From Beyond” – quarta in scaletta – per risentire certe accelerazioni borderline con l’aggressività di “Out Of The Abyss”. Non mancano momenti più rudi (vedi l’attacco di “Vlad The Impaler”) ma complessivamente “The Courts Of Chaos” si riposiziona un passo indietro rispetto a l’Abisso, pur avendo fatto tesoro della sua lezione.
A mio parere è anche un disco nettamente superiore e, sebbene non possa magari competere con gli anni 1983-1986, mostra i Manilla Road in uno stato di forma più che discreto, ipnotici e carismatici come sempre. Col tempo ho davvero imparato ad apprezzare tantissimo questo lavoro, gli album post 1986 vengono sempre presentati con la postilla che “però rispetto a Crystal Logic, Open The Gates e The Deluge….” ok, sarà magari anche così, ma sorbole che razza di “dischi minori” che erano in grado di partorire i Manilla Road. Non c’è da buttar via proprio nulla in scaletta, come col maiale; la title-track e “The Book Of Skelos” sono due capolavori nel tipico stile epico della band, “Dig Me No Grave” è una opener con tutti i crismi, e per 44 minuti ci si può seraficamente beare della scrittura della band senza un minimo calo d’ispirazione. Col senno di poi, “The Courts Of Chaos” arriverà proprio a chiudere la parabola classica dei Manilla Road, una più che degna e coerente conclusione rispetto al percorso iniziato nel 1980. La macchina verrà rimessa inaspettatamente in moto nel 2001 – 11 anni dopo – con quell’insperato “Atlantis Rising” regalatoci da Iron Glory Records che mette assieme Shelton, Scott Peters alla batteria (quasi omonimo di Scott Park), Bryan Patrick al microfono (storico roadie della band arrivato in soccorso delle corde vocali di Shelton) e Mark Anderson al basso (in servizio negli anonimi groove metallers di Wichita, Grand Facade).
IV – Dal circo ad Atlantide
Nel mezzo però c’è un oggetto misterioso rispondente al titolo di “Circus Maximus” (1992). Se ai tempi di “The Courts Of Chaos” ai Manilla si preferiva il brand Shelton per la pubblicazione di un nuovo album (perlomeno in terra statunitense), nel volgere di un paio d’anni la situazione si rovescia e il nuovo project di Shelton (che lui battezza Circus Maximus) viene forzatamente ammantato da Black Dragon dal marchio dei Manilla Road per garantirsi la vendita di un minimo di copie sicure. Di fatto i Manilla come li abbiamo conosciuti non esistono più, Shelton si accompagna a musicisti totalmente diversi, ma accetta obtorto collo di pubblicare il nuovo materiale con il monicker storico, sebbene quanto contenuto in quei solchi abbia poco a che vedere con lo stile dei Manilla. E questo “mezzuccio” suonerà inevitabilmente come una fregatura agli orecchi di molti estimatori della band. D’accordo, Metal Archives riesce a dare un 73% anche a questo album (con due recensioni a far media, un 65% e addirittura un 80%…. quindi “Crystal Logic” cosa meriterebbe?), ma bisogna innanzitutto tener presente che “Circus Maximus” è un titolo dei Manilla Road solo figurativamente, viene pigiato a forza nella loro discografia ufficiale ma sostanzialmente non lo è. Personalmente sono stato anni senza averlo, poi per completismo (e ad un prezzo stracciato) l’ho acquistato. L’artwork fa già intuire che non sarà il classico album dei Manilla Road. “Throne of Blood”, “No Sign From Above” e “Forbidden Zone” sono gli episodi meno lontani dalla band madre, anche perché sono quelli più direttamente ascrivibili a Shelton. La formazione comprende poi Andrew Coss (basso e keyboards) e Aaron Brown (batteria), che si spartiscono le tracce rimanenti (rispettivamente 5 e 3), cantandole anche. A suo modo questo circo mescola tante cose, US metal, doom, persino aor, c’è una discreta sperimentazione non tanto in termini “progressivi” ma per l’ardire di assemblare un potpourri di materiale che c’azzecca poco in sé. L’impressione è quella di ascoltare tre diversi Ep riuniti in un’unica stampa, con i pezzi di Coss (la cui voce ricorda un po’ quella di Tony Hadley degli Spandau Ballet) che rimandano ad atmosfere più light e squillanti, quelli di Brown assai più muscolari, pacchiani e minacciosi, e nel mezzo Shelton con le sue canzoni (anche discrete) ad evocare bagliori dell’antica gloria perduta dei Manilla. Un album eccessivamente disomogeneo e dispersivo, c’è chi lo ritiene colpevolmente sottovalutato, chi non lo vuol nemmeno sentire nominare; io dico che a tratti risulta gradevole, per buone parti è trascurabile, ma in ogni caso la storia dei Manilla Road non passa da “Circus Maximus” e certamente all’epoca deve aver fatto legittimamente preoccupare i fan sul futuro della band (che in realtà era già bello che concluso).
Come è noto, ci vorrà una decade perché Shelton torni a sfoderare convintamente lo spadone. “Atlantis Rising” si rivela un mezzo miracolo, è un buon album (verrebbe da dire ottimo considerando come ci si arriva e come si era ridotta la band sul finire del secolo precedente). Sconta purtroppo una produzione abbastanza mediocre ma anche a questo, tutto sommato, il pubblico dei Manilla Road è sempre stato abituato. Shelton non naviga nell’oro dopo tanto tempo di inattività durante il quale ha pure messo su famiglia e marmocchi, quindi si approvvigiona di mezzi caserecci di registrazione digitale e fa un po’ tutto per conto suo con il supporto di Randy Foxe. Il batterista avrebbe dovuto registrare le sue parti di batteria per l’album ma si fa attendere per un tale tempo che Shelton alla fine opta per una drum machine. Foxe rischia addirittura di far saltare la partecipazione della band al Bang Your Head, una prestigiosa rentrée sulle scene a tutti gli effetti. I rapporti di Shelton e Foxe si chiudono qui e il buon Mark assembla una formazione adeguata per l’occasione. Recuperato un bassista ed un vero batterista torna in studio e finisce alla bene e meglio la registrazione di “Atlantis Rising”. Nel 2001 si può legittimamente sperare che il nome dei Manilla Road torni a splendere, se non proprio all’altezza dei suoi album migliori, quantomeno con dignità e rispetto. La line-up messa in piedi da Shelton è di livello, molto più affidabile e comprensibile di quella di “Circus Maximus”. E dopo una sorpresa così gradita ne arriva subito un’altra, nel 2002 la label americana Monster Records pubblica un dischetto a titolo “Mark Of The Beast” che altro non è che l’album che i Manilla Road scrissero dopo “Invasion”. Dalle liner notes del cd ci viene reso noto che la band rimase pesantemente insoddisfatta del risultato, accantonando completamente il progetto e dedicandosi alla scrittura di quello che poi sarebbe diventato “Metal”. Ci vogliono 20 anni perché quei demotape vengano ripuliti e pubblicati per la prima volta (sebbene fossero comunque circolati sotto forma di bootleg col titolo “Dreams Of Eschaton”, che sarebbe dovuto essere il nome del disco).
Rimane incomprensibile come i Manilla abbiano deciso di cestinare quel materiale trattandosi di 10 tracce di assoluto pregio, affatto inferiori a “Metal” (anzi); così come non si spiega il perché l’album sia stato rifiutato in toto, senza nemmeno che parzialmente questa o quella canzone venisse recuperata o rielaborata per dischi successivi. Fatto sta che a caval donato non si guarda in bocca e, al di là di una resa sonora da demotape, diventa finalmente possibile appropriarsi di quel materiale dopo tanti anni di oblio. E’ anche vero che un mese prima di “Mark Of The Beast” Iron Glory pubblica il nuovo album di inediti della band, “Spiral Castle”. Le recensioni che circondano il monicker dei Manilla sono sempre positive, a tratti estremamente positive, dunque anche questa undicesima fatica in studio viene salutata da un tripudio quasi unanime. Per quanto mi riguarda non solo “Spiral Castle” si dimostra inferiore ad “Atlantis Rising” ma dà un po’ la cifra di questa seconda parte di carriera della band negli anni 2000. Fino al 2017 Shelton pubblicherà altri 6 album per poi doversi purtroppo piegare alla falce del mietitore il 27 luglio del 2018. Si tratta di un corpus robusto e denso che non svergogna in alcun modo la tradizione dei Manilla Road, a suo modo la onora e la difende, ma non ci sono nuovi album che valgano gli antichi. Il songwriting di Shelton è sempre più contorto, arzigogolato, ripiegato su se stesso, a tratti progressivo (nel modo più deleterio e noioso). “Mysterium” e “The Blessed Curse” sono i due lavori che preferisco tra tutti quelli prodotti dopo “Atlantis Rising”, con alcuni episodi davvero notevoli all’interno delle rispettive scalette e direi che i Manilla Road del XXI secolo li ricorderò prevalentemente per quegli album, oltre ovviamente a “Mark Of The Beast” (che tuttavia in realtà risale ad un’altra epoca storica). Ecco, se ripenso a come sono stati – e vengono tutt’ora – considerati “minori” lavori come “Out Of The Abyss” e “The Courts Of Chaos” mi viene da dire che andrebbe decisamente riconsiderato il giudizio su quei dischi e su quel periodo storico della band; l’accecante bagliore derivante da “Crystal Logic”, “Open The Gates” e “The Deluge” li ha messi sin troppo in ombra, ma il tempo è galantuomo ed è lì, sulla soglia, elegante e armato di savoir faire che vi invita a rimetterli ancora una volta sul piatto e disporvi all’ascolto.
Discografia Relativa
- 1987 – Mystification
- 1988 – Out Of The Abyss
- 1990 – The Courts Of Chaos
- 1992 – The Circus Maximus