Amati come nouvelle vague del thrash metal americano (1986 – 1990), detestati come traditori dell’ortodossia (1992 – 1995), ignorati come periferia dell’Impero (1997 – 2012). E poi riammessi a corte (2016) come sudditi che si sono pentiti ed hanno ripreso la retta via. Quello dei Flots è un percorso comune ai vari Megadeth, Kreator, Anthrax, persino Metallica, un’altalena emotiva, una sfida combattuta a colpi di album con dei fans che spesso non si sono dimostrati all’altezza della band. I Flotsam più di chiunque altro hanno subito lo sfregio di attraversare il deserto in totale solitudine, nell’indifferenza generale, nonostante continuassero tenacemente a pubblicare dischi di assoluta qualità e valore ma macchiati del peccato originale di derogare dai binari di “Doomsday For The Deceiver” e “No Place For Disgrace”. Solo quando hanno chinato il capo e sono rientrati docilmente nel recinto le recensioni sono tornate ad essere positive, le vendite hanno ripreso a salire, i Media ad adularli (pur sempre con un sottofondo paternalistico di rimprovero per gli anni dell’eresia), i fans a sciogliersi in brodo di giuggiole. Lesson learned… dal 2016 i Flots non hanno più smesso di fare thrash come normato dalle Sacre Scritture metalliche. Ma quand’è che esattamente hanno venduto l’anima, prima o dopo?
Contenuti:
1. Un’altra promessa del thrash americano (1986 – 1990)
2. Il vento di Ponente che spira da San Francisco (1992 – 1995)
3. I Flots chi…? (1997 – 2001)
4. Thrash timido (2005 – 2010)
5. Le murene fanno il passo del gambero (2012 – 2016)
1 – Un’altra promessa del thrash americano (1986 – 1990)
Con “Doomsday For The Deceiver” (1986) i Flotsam And Jetsam vengono battezzati come una promessa del thrash americano, il primo album è un’eruzione vulcanica, il secondo “No Place For Disgrace” (1988) consoliderebbe l’ottima impressione ma nel frattempo è già successo qualcosa che distoglie l’attenzione, il loro bassista Jason Newsted se n’è andato nei Metallica (ma ha comunque contribuito al songwriting di “No Place”). C’era tanta simpatia nei loro confronti, il mondo li aveva ben accolti e già pregustava un’altra dose di buona musica ma poi perde di vista il fuoco, si fa abbindolare da questo avvicendamento di formazioni, non vede la bistecca e si concentra sull’insalata. Di colpo i Flots diventano “la ex band di Newsted“, una specie di retrocessione da “giovane promessa” a “ragazzi di quartiere” tra le cui fila militava “il nuovo bassista dei Metallica“. Accantonati senza tanti convenevoli, i Flotsam non contano più niente, sono ai margini, nulla di più che un trampolino di lancio per bassisti dotati. E attorno al volgere del decennio come sono messi i vari competitor? I Metallica sono in transito tra “…And Justice For All” e “Metallica”; i Megadeth si avviano verso quello che viene ritenuto dai più il loro capolavoro, “Rust In Peace”; i Testament hanno appena pubblicato il fantastico “Practice What You Preach” e lo bisseranno a breve con “Souls Of Black”, un album un po’ di riciclo ma sempre tostissimo; gli Slayer dopo aver distrutto tutto con “Reign In Blood”, e ricostruito a sorpresa con il più riflessivo ma persino più teso e minaccioso “South Of Heaven”, si avviano a chiudere la fase aurea della loro prima metà di carriera con “Seasons In the Abyss”; gli Anthrax sono stati cazziati per “State Of Euphoria” (che è un eccellente album), si stanno leccando le ferite e contano di darsi un tono più serioso con l’imminente “Persistence Of Time”; gli Exodus hanno deliziato le platee con “Fabulous Disaster” ma sono anche un po’ a corto di idee, le migliori che rimangono le stanno infilando (un po’ alla rinfusa) nel prossimo “Impact Is Imminent”. Nel 1988 i Metallica hanno dato la sveglia a tutti, la scena americana non può e non sa prescindere da quel climax di “technical thrash” aggrovigliato e venato di progressioni che è stato “…And Justice For All”, benché i Metallica siano già avanti, altrove, persi in mugugni monocromatici e riflessioni esistenzialiste. I Flotsam a loro modo si adeguano, respirano quell’aria, sentono quel vento tra i capelli e si mettono alla prova, è il momento del loro album “tecnico”, tuttavia sottovalutano un aspetto, o forse semplicemente non hanno nessuno strumento concreto per contrastarlo, la spada di Damocle di Newsted in servizio nei Metallica, messo in vetrina nelle foto di retro copertina di “…And Justice” ma poi nemmeno fatto suonare come si deve (secondo una perversione tutta dentro le teste marce di Ulrich e Hetfield).
I Flots si aspettano l’attenzione che il nuovo “When The Storm Comes Down” secondo loro merita. La produzione è di Alex Perialas, la label è la MCA, due prime volte per i Flots. Prima e ultima nel caso di Perialas e c’è un perché, in parecchi si scagliano contro il suono della batteria, del rullante di Kelly Smith in particolare (Ulrich non ha inventato nemmeno questa polemica…). Incredibilmente secco, alla maniera di Stewart Copeland, c’è chi lo chiama “fustino di Dixan”. Perialas non è l’ultimo dei cretini, ha già prodotto i S.O.D., i M.O.D., tutti i dischi dei Testament sin lì, i Nuclear Assault di “Game Over”, gli Overkill di “Under The Influence”, gli Anthrax di “State Of Euphoria”, gli Holy Moses di “The New Machine Of Liechtenstein”, oltre ad aver comunque messo mano come ingegnere del suono a un bel grappolo di album seminali da “Kill’Em All” a “Violence & Force”, da “Feel The Fire” a “Spreading The Disease”. Io all’epoca mi dilettavo con la batteria e quel suono mi faceva letteralmente impazzire, quando registrai il demo della band con cui suonavo chiesi espressamente al tecnico del suono di avvicinarsi il più possibile al rullante di Smith, quindi figurarsi quanto può avermi turbato quel tipo di percussione. E comunque, digressioni personali sulla batteria a parte, “When The Storm Comes Down” si presenta nel 1990 come un signor album di thrash tecnico che richiede tutta l’attenzione del caso, 49 minuti abbondanti di saliscendi emotivo e “meccanico” che non lascia nulla al caso. Una sterzata stilistica piuttosto evidente rispetto agli album che chiudevano gli anni ’80, ora i Flots suonano molto moderni, chirurgici, meno caldi magari ma taglienti come la prua di una nave rompighiaccio. Praticamente solo un pezzo ha un ritornello riconoscibile come tale, “Suffer The Masses” (per il quale infatti viene tratto un videoclip), il resto è chiuso, opprimente, pieno di punte, spigoli e chiaroscuri degni del miglior cinema espressionista tedesco. Anche a livello di testi, si apprezza il tuffo nella concretezza, nel pragmatismo, nella realtà, rispetto alla paccottiglia “evil” dei primi due album. Se parlassi di disco più maturo qualcuno di sicuro si offenderebbe, eppure fondamentalmente “W.T.S.C.D.” ha il taglio della maturità dei Flots, una band solida che può rivaleggiare con chiunque senza aver nulla da temere, persino all’indomani della perdita di una bassista di grande personalità e statura come Newsted. Di contro, il feedback che la band riceve è deludente e a ciò si aggiunge nuovamente l’inciampo della perdita del bassista, Troy Gregory se ne va nei Prong, con i quali i Flots avevano appena sostenuto il tour.
II – Il vento di ponente che spira da San Francisco (1992 – 1995)
All’epoca del quarto capitolo della loro storia il mondo discografico è cambiato, siamo nel ’92 il metal pare un delitto e si avvia ad essere un relitto, se vieni dal decennio precedente sei una cariatide (il corrispettivo dell’odierno boomer), ti devi inventare qualcosa per sopravvivere e stare a galla, del resto i Metallica hanno segnato la via, il loro Black Album ha sentenziato che c’è vita fuori dal denim & leather (e pure soldi, Mtv e i negozi di Armani e Versace). Chi più chi meno, tutte le band thrash mangiano la foglia e vengono largamente influenzate dall’azzardo dei Metallica. Chi lo condivide convintamente, chi lo sposa opportunisticamente, praticamente solo gli Slayer proseguono imperterriti e quasi indifferenti a martellare senza soluzione di continuità (e con loro i Tankard, ma solo per il torpore dovuto al perenne stato di ubriachezza). Anthrax, Megadeth, Overkill, Testament, Xentrix, Kreator… si aggiungono continuamente nuovi nomi alla lista di gruppi che optano per un cambio di sonorità; laddove non si tratta di un vero e proprio alleggerimento, perlomeno si accetta l’idea che il thrash non debba essere esclusivamente duro e puro. I Coroner con “Mental Vortex” a loro modo semplificano, i Sodom con “Better Off Dead” aprono un infinitesimale pertugio alla melodia, i Destruction con “Cracked Brain” aggiungono un bel po’ di sfumature e di tecnica al loro “teutonic thrash” asfittico e tupa-tupa oriented, gli Annihilator con “Set The World On Fire” compiono il loro passo più avanzato nell’hard rock, gli Exodus provano a sperimentare con “Force Of Habit, i Risk accettano delle copiose influenze classiche di stampo maideniano su “The Reborn”, i Sacred Reich certificano nero su bianco la libertà creativa in una canzone come “31 Flavours”, qualcuno si perde per strada non capendo più in che direzione deve andare (Nuclear Assault, Sepultura).
A Phoenix, Arizona, i Flotsam And Jetsam (con Jason Ward al posto di Gregory) dicono la loro con “Cuatro”, un album che infrange parecchi cuori, soprattutto quelli dei thrashers più duri a morire e a mollare, indisponibili verso il minimo cedimento. “Cuatro” invece risente pesantemente delle influenze grunge del periodo – ad esempio, Chris Cornell è tra i crediti per la scrittura di “The Message” – pur non essendo in alcun modo un disco grunge. E’ un album semplicemente magnifico ma poco digeribile se non si accettano compromessi, la voglia di rinnovarsi e provare qualcosa di nuovo che permeava la band e lo zeitgeist nel quale era immersa. L’eterno dibattito del “cavalcare la moda” avrà la risposta che deciderete di dargli, personalmente penso che sia più che fisiologico che un artista risenta del clima che lo circonda, possa venirne influenzato (persino inconsapevolmente), ne assorba odori, colori e vibrazioni, senza per questo cercare spudoratamente di cavalcarlo o sfruttarlo commercialmente. In particolar modo se stiamo parlando di musicisti sensibili, open-minded e affatto interessati all’ortodossia in quanto tale. I Flotsam, come molti altri loro colleghi (non tutti magari, ma parecchi), in quegli anni vogliono vestirsi di abiti nuovi ed esprimersi attraverso contaminazioni mai sperimentate prima. Il loro sound rallenta e si addolcisce, tuttavia non perde né in oscurità né in tasso tecnico. “Natural Enemies”, “Never To Reveal”, “Are You Willing” mantengono saldo il ponte con l’aggressività precedente (per altro strategicamente dislocate in scaletta ad inizio, metà e fine) ma, in mezzo a questi punti cardinali, si dibattono composizioni estremamente sofferte, cupe, introverse, tormentate, che calano la band all’interno del decennio che sta attraversando come una tessera del Tetris. Eppure, dopo ripetuti ascolti, tutto si può dire tranne che “Cuatro” non sia un album meritevole ed ampiamente degno del monicker che porta.
Le vendite calano e caleranno ancora con il successivo “Drift”, ultimo titolo per MCA che poi chiuderà il contratto, decisamente insoddisfatta degli incassi. Questo album, che spacca esattamente a metà gli anni ’90, è probabilmente l’allontanamento più vistoso dei Flots dal thrash, è un lavoro rischioso e coraggioso al contempo, e quasi sempre questo in ambito metal si traduce in una disfatta. “Drift” è dedicato a Jeff Ward, fratello di Jason, con un passato in Nine Inch Nails, Ministry, Revolting Cocks e Lard. La malinconia è indubbiamente un tratto saliente di questi 42 minuti, sospesi tra il grigio di uno stato d’animo insalubre e angosciato, ed il nero di una rabbia che non esplode mai a pieno potenziale, bensì scorre carsicamente producendo tensione costante, trattenuta con le briglie ma chiaramente percepibile tra le righe di pezzi come “Empty Air”, “Smoked Out”, “Destructive Signs”, “12 Year Old With A Gun”. A questo punto i Flots sono dei reietti conclamati, il marchio del tradimento gli è stato appiccicato addosso come una lettera scarlatta, troppo poco alternativi per piacere agli anni ’90, troppo poco thrash per piacere ai metallari più conservatori. I Flots sono in una terra di mezzo, un esercito senza patria, che vaga combattendo battaglie in cui nessuno crede e a cui nessuno è interessato, soldati che perseverano nell’onorare il proprio nome pur nell’indifferenza generale. Eppure tolte le fette di prosciutto dai timpani e depositate sul pancarré, “Drift” verrebbe fuori come un album di grandissima classe ed eleganza, la prova di una band che ha tante frecce diverse al proprio arco e intelligentemente ha deciso di non scoccare sempre e solo la stessa.
III – I Flots chi…? (1997 – 2001)
Il responso alquanto negativo produce un effetto sulla band, il successivo “High” prova a rimettere in fila gli elementi, concedendo un qualche ripensamento in merito all’anima profonda dei Flotsam And Jetsam. Per qualcuno è una mezza vittoria, la prospettiva opposta indica giocoforza una mezza sconfitta. Come giudicare l’ammissione di colpa della band che nei credits del disco recita “lesson learned, it’s ok to be metal“, è una lezione imparata costruttivamente o loro malgrado? E’ l’esito di una riflessione spontanea e genuina o è piuttosto un approdo obbligato, rassegnato? Il font usato per il lettering dei titoli delle canzoni riproduce molti loghi famosi, tributando omaggio alle band che hanno forgiato lo spirito dei Flotsam, dagli Irons ai Twisted Sister, dagli Slayer ai Van Halen, dai Judas Priest ai Kiss e via dicendo. Il sound di “High” è (nuovamente) un compromesso, se per un verso si torna ad iniettare metal nelle vene della creatura, dall’altro certamente non si può parlare di ritorno al thrash di fine anni ’80; “High” è più quadrato, roboante, a tratti giocoso e ammiccante persino al rock ‘n’ roll, si libera di velleità progressive ed alternative (anche se c’è una stupenda cover dei Lard in chiusura di scaletta) ma mantiene ugualmente l’intenzione di derogare all’intransigenza del metal coi paraocchi. I Flotsam vogliono continuare a ragionare quando scrivono e suonano musica, l’assalto all’arma bianca è un approccio sterile che non li rappresenta (più). Stiamo parlando senza ombra di dubbio un buon album, piacevole, divertente, frizzante, però questa sua convergenza verso gli auspici del pubblico, della label (la Metal Blade che li accoglie), e la sofferenza verso il martellamento denigratorio ed incessante da parte degli addetti ai lavori, fanno si che la versatilità e la longevità dell’album si attestino qualche punto al di sotto dei precedenti “Cuatro” e Drift” a mio parere, anche se qualsiasi metallaro si sarà sentito decisamente meno in colpa di ascoltare “High” rispetto a quelli. Che tutto non sia all’insegna della massima serenità lo si capisce anche dall’abbandono di Michael Gilbert e Kelly Smith, rispettivamente chitarra e batteria, rimpiazzati da Mark Simpson e Craig Nielsen poco dopo la pubblicazione dell’album.
Nel 1999, oramai agli sgoccioli del decennio terribile, i Flotsam proseguono la loro marcetta di riavvicinamento alle radici, ma avviene per centimetri e non per grandi falcate. “Unnatural Selection” si spinge ancora un pezzettino più in là verso il thrash, ne mima le sonorità, abbonda di aggressività rispetto ai lavori recenti, ma è più una questione di attitudine che di songwriting. Tuttavia è l’ennesimo buon album dei Flotsam, sempre solidi comunque si muovano, seppur penalizzati da una produzione non eccellente che appiattisce un po’ la sezione ritmica. L’artwork di copertina grida rabbia e frustrazione, il sound è notevolmente snello ed asciutto ma riesce con abilità a non fossilizzarsi mai in qualcosa di eccessivamente prevedibile o evanescente, anzi. Un album concreto e diretto, senza svolazzi, se si eccettua “F**kers” che è più uno sfogo nevrotico che una vera e propria canzone, e la conclusiva “Welcome To The Bottom” che si occupa di congedare lo spettatore con una certa sofficità psichedelica; un lavoro più attento dietro la consolle di registrazione avrebbe donato ancora più potenza a questo fazzoletto di pezzi già grintosi di suo. Il pubblico è moderatamente contento, non ci si deve più vergognare di citare la band tra le proprie simpatie, ma è anche vero che nessuno pensa ai Flotsam del 1999 come ad un punto di riferimento, né in ambito metal tantomeno in quello thrash, sono dei lord decaduti che vivacchiano, qualcuno li ha definitivamente abbandonati da tempo, altri li seguono a distanza, con circospezione, aspettando solo ed esclusivamente un ritorno al passato mitico.
Di biennio in biennio i Flots avanzano sommessi e sottotraccia ma sempre presenti, nel 2001 arriva “My God”, disco numero otto, una cifra considerevole, di peso, per una band. “My God” è una versione più calda, meglio prodotta e in generale un po’ più ricca e matura di “Unnatural Selection”, siamo sempre su quel versante thrash/non-thrash, croce e delizia per tutti i fan che vorrebbero il “back to roots”, un profilo che accosta la band allo U.S. metal robusto e virile, anche se non necessariamente sparato a pallettoni. Come un cavallo di Troia, i Flots si affidano sempre ad aperture sperimentali e melodiche che non mancano mai nel loro songbook, elevandosi grazie ad esse di qualche spanna sopra la concorrenza meno fantasiosa. Si pensi all’effetto straniante di “Weather To Do”, a cui fa da contraltare invece la ruvidezza di “Frustrate”. “Killing Time” gioca con ritmiche funkeggianti, “Camera Eye” con linee vocali quasi hip hop, “Trash” o la stessa title-track fanno riaffiorare alla mente soluzioni armoniche e melodiche care ad esempio agli Alice In Chians (l’incubo dello spettro del grunge che non abbandona mai del tutto le vedove dei vecchi Flotsam). Ma nei solchi di “My God” c’è tutta l’arsura e la polvere del deserto che vediamo in copertina, c’è quel senso bellicoso di guerriglia, l’irrequietezza di una band che ha attraversato una decade affatto semplice, è sopravvissuta a se stessa e ai propri fan, dimostrando una impressionante ed invidiabile sete di musica e di ricerca, concetto che qualcuno avrebbe volentieri barattato con un po’ di velocità in più. Ma per ora i Flots resistono.
IV – Thrash timido (2005 – 2010)
A questo punto la band ha oltrepassato i 2000, è ancora viva e vegeta, con una carriera considerevole alle spalle ed un futuro… beh, quale futuro? Eric Andrew Knutson, a mio giudizio uno dei migliori, dei più espressivi ma anche dei più sottovalutati cantanti partoriti dalla scena americana, dentro e fuori dal thrash, pare gettare la spugna. E’ stanco e insoddisfatto di quanto poco abbiano raccolto i Flots, di quanto non siano stati compresi, di quanto gli venga continuamente rimproverato di non essere vetero testamentari o di quanto venga loro ricordato di essere “solo” la band di provenienza di Jason Newsted (che nel frattempo sta lasciando i Metallica, completamente bolliti all’altezza del 2001). Eric fonda gli A.K. Corral e si dedica al country per disintossicarsi, nel frattempo i Flots perlomeno dal vivo si affidano all’usato sicuro di James Rivera. Potrebbe essere la fine dei Flotsam o una catarsi ma in nome di cosa e verso cosa? L’allarme rientra quando Erik A.K. torna sui propri passi e ritrova stimoli e motivazioni. Un periodo sabbatico che in qualche modo riforgia la band, la ricompatta e la proietta verso il nono disco, “Dreams Of Death”, il cui titolo echeggia vistosamente una delle tracce più note di tutta la loro carriera, contenuta in uno dei dischi più amati dei Flots, “No Place For Disgrace”. Il solo annuncio lascia presagire un ritorno al thrash come Dio comanda. La commozione generale rimane strozzata in gola quando il 26 giugno 2005 “Dreams Of Death” esce allo scoperto per Crash Music. Un concept album basato sugli incubi di Eric che, sebbene piazzi in apertura due tracce abbastanza arrembanti come “Straight To Hell” e “Parapsychic, Paranoid”, non si discosta in modo sostanziale dall’ultima parte di carriera dei Flots, pur recuperando certe atmosfere un po’ retrò. L’album è di gran qualità ma non è avvolto in una coperta di di filo spinato, borchie e cinturoni di proiettili a punta. Una canzone come “Look In His Eyes” può rappresentarne la sintesi ideale dell’attuale, facendo convivere egregiamente energia (nelle strofe) e melodia (nel chorus). La band è convinta e determinata, se non altro ha ritrovato la completa fiducia in se stessa, ma l’accoglienza che riceve “Dreams Of Death” non è particolarmente diversa dal solito. E’ pur vero che gli anni ’90 sono finiti, non c’è più la smania di contrapporre necessariamente ciò che non è metal (e che quindi odora di nuovo) con ciò che è rigorosamente metal (e che quindi è sacro per assioma), una formula ibrida ed estremamente matura come quella dei Flots trova meno severità ed intransigenza, ma va anche candidamente detto che il quintetto viene oramai percepito come una band per vecchi nostalgici, senza però lo standing prestigioso dei nomi di primissimo piano come Irons, Metallica o Megadeth. Metal Blade pare correre in soccorso dei Flots ristampando “Doomsday For The Deceiver” in doppia versione, in occasione del ventennale, con annesso dischetto remixato e rimasterizzato digitalmente (e con l’aggiunta nel packaging di due vecchi demo e di un dvd di materiale live raro e di interviste).
Dalla Crash Music alla Driven Music del chitarrista dei Korn Brian “Head” Welch, i Flots non escono dalla ruota del criceto fatta di alternanza di album e tour, giungendo al titolo a due cifre della loro discografia, “The Cold”, il numero 10. Se la ristampa di “Doomsday” aveva nuovamente illuso qualcuno, “The Cold” prova a stare nel mezzo, mettendosi in evidenza come un album piuttosto aggressivo e financo furioso in certi passaggi ma comunque lontano dalle sonorità degli esordi. Si avverte semmai una certa coloritura vagamente Nevermore in pezzi come “Take”, “Blackened Eyes Staring”, “Falling Short” che, se da un verso contribuisce ad indorare la pillola ad una certa porzione di audience, dall’altra mette addosso ai Flotsam un cappotto che non è il loro e in qualche maniera ne trasfigura la fisionomia. Spunti dark, venature progressive, un umor nero che è chiaramente avvertibile lungo tutta la scaletta in titoli come “ipocrita”, “il freddo”, “nuvola nera”, “meglio morto”… ai Flotsam insomma non gira per il verso giusto. “The Cold” diventa così un lavoro interlocutorio, di passaggio, non risolleva le sorti della band e non le affossa, sta lì, col suo mimetizzarsi con sonorità non completamente autoctone per i Flotsam ma comunque interpretate con la consueta competenza e con il temperamento mai venuto meno dal 1986 in poi.
V – Le murene fanno il passo del gambero (2012 – 2016)
Di tutte le release post 1990 “The Cold” è forse quella che mi entusiasma di meno, gli preferisco senz’altro il successivo “Ugly Noise”, che vede il ritorno di Ed Carlson al posto di Mark Simpson, e di David Smith al posto di Craig Nielson. Il disco viene realizzato con le donazioni dei fans, secondo il metodo del fundraising e la band devolve anche parte del ricavato in beneficienza. Nonostante tutto, qualcuno che ancora ama i Flots c’è perché “Ugly Noise” si concretizza, e c’è persino il contributo come songwriter di Jason Newsted, che rimane esterno alla band. Si tratta di un album affatto facile o docile, anzi davvero sfidante (penso ad una traccia bellissima ma enormemente rischiosa come “Run And Hide”), ed è ovviamente un album che nella migliore delle ipotesi passa sotto silenzio, altrimenti viene stigmatizzato con acredine, come se i Flotsam proprio non volessero ravvedersi continuando a peccare di blasfemia nonostante gli accorati moniti del Tribunale dell’Inquisizione. Eppure, se ascolto “Rabbits Hole”, “Rage”, “Cross The Sky”, “Motherfuckery”, la title-track, penso molto semplicemente che si tratta di materiale più che degno di attenzione. “Ugly Noise” chiude formalmente il periodo dei Flotsam “stranieri in terra straniera”, nel 2014 ri-registreranno “No Place For Disgrace”, un’operazione che solitamente aborro (basti pensare all’imbarazzo delle ri-registrazioni dei Manowar) ma che, nel caso dei Flots, si rivela l’eccezione che conferma la regola. L’album vive di nuova vita, è rispettato e non stravolto, effettivamente potenziato rispetto al 1988 ma totalmente integro nel suo spirito originario. I tempi sono maturi per il ritorno all’ovile dei figlioli prodighi, è tempo di rassegnarsi…. pardon, rivendicare le origini thrash della band. E’ un nuovo inizio, 3/5 della formazione si rinnovano, ed il titolo è semplicemente “Flotsam And Jetsam”, più chiaro di così… le murene stanno per fare il passo del gambero, all’indietro. Un coro pressoché unanime di “finalmente!” si leva dal globo terracqueo, i Flotsam sono stati riconsegnati alla madrepatria thrash. L’album è un concentrato di 61 minuti di vetero thrash come si aspettava da tre lustri, adesso la sete atavica può finalmente placarsi, l’ascia di guerra può essere sotterrata. Recensioni tutte positive, vendite in risalita, Media adulanti, fans in brodo di giuggiole… “The End Of Chaos” (2019) e “Blood In The Water” (2021) non possono che proseguire sullo stesso binario, garantendo una vecchiaia, se non agiata, almeno tranquilla ai Flots.
Tre album ben fatti, suonati da musicisti di comprovata classe, professionalità ed esperienza, sicuramente gradevoli; tuttavia, per quella che è la mia modesta opinione, sono lavori a cui manca verità, spontaneità, dischi che non possono essere definiti “fan-service” in modo tranchant e spregevole, ma che certo tengono parecchio in considerazione i desiderata di pubblico e stampa, e che non mettono più in luce la voglia di combattere contro i mulini a vento. Quella è un’epoca finita, basta colpi di testa e sperimentazione, i Flotsam diventano come Immobil Dream, solida realtà, pragmatismo, nel bene e nel male. Lo stesso percorso dei Megadeth (che però alternano materiale di pregio ad altro trascurabile), dei Kreator (che quasi si trasformano nei Blind Guardian e nei Running Wild), dei Metallica (che da padroni diventano garzoni, inseguendo i propri epigoni nonché il fantasma della loro gioventù artistica e – così facendo – impilando una serie di prove discografiche persino imbarazzanti), degli Anthrax (tristemente ripiegati sul rigattiere Joe Belladonna). Mi sento di dire che rispetto ai colleghi menzionati i Flotsam hanno mantenuto più qualità e dignità, se la loro inversione ad “U” mi ha deluso per quanto riguarda l’aspetto ideale, devo tuttavia concedere ai ragazzi di essersi attestati su livelli sempre interessanti musicalmente parlando, anche se per me quelli del ritorno al “vero” thrash sono album meno stimolanti di quelli nei quali si avventuravano in mare aperto senza bussola ma con un coraggio da leoni ed una voglia di fare che se li mangiava vivi. E’ stato bello finché è durato ed è stato esaltante poter stare al loro fianco sfidando ogni preconcetto. Rimango affezionatissimo a quella che, a conti fatti, è una delle mie band preferite, dalla quale non sono mai stato veramente tradito; all’interno della loro discografia soggettivamente si può preferire questa o quella fase, ma sull’integrità dei Flotsam And Jetsam penso non ci possa essere discussione alcuna. Grazie ragazzi, di cuore!
Discografia Relativa
- 1990 – When The Storm Comes Down
- 1992 – Cuatro
- 1995 – Drift
- 1997 – High
- 1999 – Unnatural Selection
- 2001 – My God
- 2005 – Dreams Of Death
- 2010 – The Cold
- 2012 – Ugly Noise