I primi misconosciuti tre album dei Journey di Neal Schon e Greg Rolie. Il successo megagalattico ottenuto nell’era Perry li ha come cancellati dalla discografia della band. Errore, meritano elogi a dismisura.
Contenuti:
1. Le tappe di un Viaggio sensazionale: Carlos Santana, il Golden Gate, l’approdo nello Spazio (1973 – 1975)
2. La band merita, il pubblico non coglie, la label freme, la band cede. Una storia come tante. E poi arrivò l’uomo della lotteria (1976 – 1980)
1 – Le tappe di un Viaggio sensazionale: Carlos Santana, il Golden Gate, l’approdo nello Spazio
Dici Journey e ti rispondono “ah si, quelli di Lovin’, Touchin’, Squeezin’, Any Way You Want It, Don’t Stop Believin’…” (certificata come la traccia più venduta del catalogo iTunes), universalmente esplosi e conosciuti per quella imponente mistura di rock, pop, romanticismo e dolcificante che gli ha garantito milioni di dollari, oltre che milioni di dischi fisicamente venduti in un’era pre musica digitale e poi anche downloadati (la Recording Industry Association of America ne ha contati 47 in patria e almeno 75 in tutto il mondo). Icone assolute del rock statunitense, esondati nella cultura popolare di massa attraverso citazioni e omaggi in ogni Media esistente, film, serie televisive, cartoni animati, videogame, colonne sonore di eventi sportivi, etc. Riferimento di musicisti e colleghi ad ogni latitudine geografica e musicale, dai Dream Theater a Mariah Carey. Se ci fate caso però sembra che la band californiana, fondata a San Francisco nel 1973, abbia esordito con “Infinity” nel ’78, album che garantì il platino e scaraventò qualche singolo in classifica (“Lights”, “Wheel In The Sky”). Dopo arrivarono “Evolution”, “Departure” e gli anni ’80, e fu l’Osanna nei cieli, la consacrazione a firma definitiva ed ultimativa del rock a stelle e strisce. Classici partoriti come fossero noccioline e la santificazione in diretta minuto per minuto su tutti gli impianti hi-fi dello zio Sam. Kurt Cobain, per dire, elesse “Evolution” a suo album preferito del 1979 (Cobain, uno che con i Journey c’entra come Donatella Rettore ad una cena sociale del Rotary Club). Eppure i Journey esistevano anche prima di “Infinity” e anzi, di album ne avevano già pubblicati tre.
Fu il manager di Santana, Herbie Herbert, a presiedere alla nascita dei Golden Gate Rhythm Section, allora formati da Neal Schon (allievo di Santana) alla chitarra e Greg Rolie a tastiere e voce, a cui poi si aggiunsero Ross Valory al basso, George Tickner alla chitarra ritmica e il batterista dei The Tubes, Prairie Prince. Fu un roadie a suggerire alla band il monicker Journey, la prima esibizione con quel titolo arrivò nel gennaio del ’74 a New York, un live set che conquistò la Columbia Records. Quel contratto fruttò l’omonimo esordio del gruppo nell’aprile del ’75. Il drummer Prince figurava sul demo propedeutico all’album ma, giunti in studio di registrazione, dietro le pelli si sedette Aynsley Dunbar (nome che ritroverete nei dischi di Frank Zappa, David Bowie, Lou Reed, Michael Schenker, Sammy Hagar, Leslie West, Whitesnake ed un altra decina di artisti a dir poco). I credits del platter sono ben distribuiti tra i vari musicisti, rendendo plasticamente l’idea del lavoro collettivo rappresentato da questa prova discografia. “Journey” è probabilmente l’album più progressivo della band, una serie di tracce in cui l’aspetto esecutivo e strumentale è assai più in evidenza di più di quello vocale.
Si segnala da subito una delle principali e più seducenti caratteristiche dei Journey, la capacità di scrivere canzoni complesse facendole arrivare “facili” all’orecchio dell’ascoltatore. Il flusso sonoro ci restituisce melodie e dinamiche strutturali immediate e apparentemente lineari, decisamente morbide ed accattivanti, eppure ciò che i Journey stanno suonando non lo è affatto. Il talento (enorme) di questi musicisti sta nel creare complessità ma ammantarla di semplicità, una magia che è riuscita a pochissimi (ad esempio i Rush o i Blue Oyster Cult). Ne è ulteriore testimonianza il minutaggio del disco, appena 37 minuti, con singole canzoni che variano dai 3 ai 6. L’amalgama riunisce jazz, rock, fusion, progressioni ora eleganti ora dolci, ora elettriche ora sognanti, che non si traducono in una somma di elementi ma in una moltiplicazione esponenziale di valori.
II – La band merita, il pubblico non coglie, la label freme, la band cede. Una storia come tante. E poi arrivò l’uomo della lotteria
Un artwork delizioso ed una musica divina non bastano per compiere il miracolo. La gente non si accorge della nascita di una nuova band sensazionale, ma i Journey non demordono e a gennaio del ’76 pubblicano “Look Into The Future”. Tickner abbandona un attimo prima delle registrazioni lasciando Schon come unico chitarrista del combo. Il secondo lavoro viene raccontato dai Media come molto meno progressivo e commercialmente più attento a soddisfare il pubblico. Forse ad un primo (distratto) ascolto questa potrebbe essere l’impressione, ma “Look Into The Future” è tutto fuorché un album privo di spunti progressivi. Forse persino più cerebrale del debutto, sebbene al momento opportuno sappia sfociare abilmente in melodie languide e caramellose che richiamano l’attenzione dell’ascoltatore troppo svagato e poco avvezzo ad un sound così elegante e aristocratico. La miscela rimane invariata, omogeneizzando pop, fusion, jazz e rock; complessivamente “Look Into The Future” è meno esplosivo di “Journey”, ma dimostra ugualmente quali e quante qualità abbia la band californiana. “I’m Gonna Leave You” risulta ispirata direttamente ai Kansas di “Carry On Wayward Son” mentre “It’s All Too Much”, per quei pochi che lo ignorassero, è una cover dei Beatles di “Yellow Submarine”, qui iniettata di elettricità come fosse parte del songbook della NWOBHM come i Diamond Head di “Canterbury” o i Witchfynde di “Lords Of Sin”.
Al ritmo di uno l’anno, “Next” segue “Look Into The Future” nel ’77. Non viene accolto benissimo dalla stampa musicale e nel tempo si è andato guadagnando lo status di anello debole della catena formata dalle prime tre release della band. Destino curioso visto che “Next” è un grandissimo album, che se non equivale il debutto poco ci manca. La scaletta si apre con la liquida e voluttuosa “Spaceman”, a dar filo da torcere alla “Starman” di David Bowie. Un’entrata morbida e delicata nell’universo dei Journey, che a lungo andare si rivela tutt’altro che banale e monocromatico. Questi primi Journey continuano nel loro percorso ibrido, mantenendosi sul crinale che vede da una parte il pop e dall’altro il rock progressivo, con tutte le sue cangianti dinamiche strutturali. “Nickel And Dime” è una traccia strumentale di rara bellezza e, al contempo, di una sotterranea complessità fatta di controtempi. “Next” segna l’approdo e la fine di un’era, a suo modo e suo malgrado probabilmente, incarnata da Greg Rolie. Durante le date live del tour viene affiancato da Robert Fleischman, songwriter che aiuterà la band su “Infinity”, anche se poi, come raccontano i libri di storia, il microfono passerà nella auree mani di Steve “Mida” Perry, una specie di totem della buena suerte per i Journey, i quali con lui conosceranno fama e successo imperituri. Rolie pare il capro espiatorio perfetto, l’insuccesso commerciale dei primi due album spinge addirittura Schon, Valory e Dunbar a prendere lezioni di canto per sostenere con armonie vocali il lavoro solista di Rolie, come fosse un quaquaraquà qualsiasi.
Dopo il ’79 le tracce di “Next” verranno abbandonate anche dal vivo e incredibilmente “Spaceman” e “Here We Are” non verranno neppure mai suonate on stage. La Columbia non nasconde il suo disappunto per le scarse entrate derivanti da questo terzetto di dischi e chiede alla band una sterzata stilistica e qualche provvedimento nei confronti di Rolie. Infatti i Journey prontamente gli affiancano Fleischman e mirano a band pop-rock alla Boston e Foreigner come bersaglio per rimodellare più accessibilmente il proprio sound. Il ’77 non è ancora finito che Fleischman viene scaricato e al suo posto viene ingaggiato Perry. Nel gennaio del ’78 esce “Infinity” e la fisionomia dei Journey del triennio ’75 – ’77 viene spazzata via come una foglia esposta al vento autunnale. I Journey diverranno quelli di Perry e di album come “Evolution” e “Escape”, il viaggio verso una nuova frontiera varca la soglia del punto di non ritorno, per Rolie non c’è più posto. Il tastierista cantante lascia nel 1980. L’anno precedente il manager Herbert aveva allontanato Dunbar (il quale migra verso la Starhip dei Jefferson); il suo posto viene preso da Steve Smith. Rolie prosegue indipendentemente, pubblicando album solisti (sui quali ospita Neil Schon, a testimonianza di un rapporto che non si era interrotto bruscamente).
Lo iato tra i primi Journey e quelli di Perry si farà non più cicatrizzabile, per il mondo intero la band diventa quella della seconda fase, il mark II, ed i primi tre lavori vengono colpevolmente eclissati e dimenticati. Personalmente vi invito ad una loro riscoperta perché ne vale davvero la pena; talvolta sono le band stesse – consapevolmente o meno – a danneggiare i propri dischi, il fruscìo tonante delle banconote ne indirizza e influenza la capacità di una lucida analisi del proprio operato. Per noialtri di qua dalla barricata però, che non dobbiamo controllare l’estratto conto della banca delle Cayman, un oggettivo metro di giudizio per valutare serenamente “Journey”, “Look Into The Future” e “Next” può rimanere, e a tutt’oggi è un bel sentire.
Discografia Relativa
- 1975 – Journey
- 1976 – Look Into The Future
- 1977 – Next