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Johnny Electric and the Samboras

THE ROAD TO BON JOVI

Storia di come i primi due album dei Bon Jovi siano diventati del tutto irrilevanti nella loro discografia e di come invece, sulla lunga distanza, abbiano accusato lo scorrere del tempo meno di ogni altra loro produzione.

Contenuti:

1. Da John con l’acca a Jon senz’acca. I prodromi del successo (1975 – 1983)
2. Un debutto coi fiocchi, ma chi se lo ricorda? (1984)
3. Il grande mistero di un vulcano inesploso (1985)
4. La tesi (1986 – 1987)
5. La rendita di posizione (1988 – 1989)

1 – Da John con l’acca a Jon senz’acca. I prodromi del successo

Papà parrucchiere di Sciacca (Agrigento), mamma coniglietta di Playboy di origini tedesco-russe, John Francis Jr. nasce nel New Jersey, porta sempre i capelli lunghi e a 7 anni riceve la sua prima chitarra. A 13 fonda gli Starz, che diventano subito i Raze per via degli Starz veri. Doveva essere il protagonista di Footloose – e a quanto si dice la Paramount avrebbe addirittura rivisto la sceneggiatura in chiave rock n roll pur di averlo – ma non ne volle sapere, intendendo fare la rockstar nella realtà. Il primo mattone del Bon Jovi’s building lo pone nell’84, quando la Mercury (costola Polygram) produce il debutto della sua band (mettendo in consolle suo fratello Anthony Bongiovi e Lance Quinn).

Un forte aiutino glielo aveva intanto dato la stazione radiofonica locale The Apple, che da tempo aveva inserito il brano “Runaway” nella propria programmazione. Si trattava di una versione demo del solo John, ma quando dal New Jersey “Runaway” sbarcò a New York, sempre via radio, e conseguentemente il riscontro di pubblico crebbe esponenzialmente, attorno al futuro carismatico leader si costituì una vera e propria formazione. Dapprima fu la volta del tastierista David Bryan (accreditato come David Rashbaum), il quale suggerì i nomi di Alec John Such al basso e Tico Torres alla batteria (uno che aveva suonato con Chuck Berry e che aveva all’attivo già 26 registrazioni in studio a vario titolo).

All’epoca Bongiovanni si accompagnava con Dave Sabo alla chitarra, che poi era il suo vicino di casa. Sabo non aveva alcuna veste ufficiale nella band ma lui e John si erano vicendevolmente promessi di darsi una mano per il successo. Per la registrazione dell’album arrivò una pedina fondamentale per i futuri Bon Jovi, Richie Sambora (e Sabo diventò The Snake, solo che anziché entrare nel mondo del wrestling professionista, con quel nome fondò gli Skid Row, sempre assicurandosi un frontman acchiappa ragazze di bell’aspetto). Sambora aveva suonato come turnista live per Joe Cocker, aveva una sua band (i Mercy) ed era stato audizionato per entrare nei Kiss. Non solo, aveva inciso un album con una band chiamata Message, che era stata messa sotto contratto dalla Swan Song Records dei Led Zeppelin (e che però il disco non lo pubblicò mai, tant’è che poi se ne fece carico la Long Island Records, dandolo alle stampe postumo nel ’95). I Bon Jovi, assemblati per benino, consegnano il loro “Talk Tough” alla Mercury, la quale prontamente lo ribattezza Bon Jovi. Boom: dischi d’oro e di platino come se piovessero, 2 milioni di copie negli States, quasi il doppio in tutto il mondo. Sui nomi John non ci ha mai preso parecchio. Il gruppo lo avrebbe voluto chiamare Johnny Electric, ma sempre nei corridoi della Mercury pensarono di seguire l’esempio dei Van Halen, intitolandogli direttamente ogni cosa, monicker, album e togliendo un’acca a John (e lui lì per lì rimase pure scontento).

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II – Un debutto coi fiocchi, ma chi se lo ricorda?

Il disco viene gradito senza ombra di dubbio dal pubblico, eppure se interpellate i Bon Jovi supa-dupa fans vi dicono ancora oggi che sì, è un album carino, per carità, è il primo della loro band preferita e quindi non se ne può proprio parlar male ma tuttavia è un lavoro acerbo, incerto, troppo stereotipato, vincolato a determinati cliché dell’epoca, forse anche sin troppo ruvidino e poi poco elegante. Nulla di neanche lontanamente paragonabile a “Slippery When Wet” e “New Jersey”, i dischi dei Bon Jovi con la D maiuscola. Col tempo questa nota mi è suonata sempre più stonata. Come la maggior parte dei rock addicted mi sono avvicinato ai Bon Jovi proprio con quei due album e ho poi esplorato tutto il resto (oddio, a un certo punto ho smesso, con l’arrivo del 2000 i Bon Jovi sono diventati meno interessanti di Paola e Chiara). Più approfondivo la discografia, più ascoltavo e riascoltavo la produzione del gruppo, più si radicava in me la convinzione che proprio “Bon Jovi” (e con esso il successivo “7800° Fahrenheit”, ma ce ne occuperemo tra poco) non fosse affatto un disco appartenente alla categoria “vabbè, è il primo, che pretendevi….” ma anzi, una raccolta di materiale capace di mantenere freschezza e vitalità inalterate a distanza di anni, cosa non accaduta per molti altri album del gruppo.

“Bon Jovi” è un disco semplice, lineare, diretto al punto, nient’affatto appesantito dalle produzioni faraoniche dei Bon Jovi degli anni più glamour. Un lavoro argentino, smagliante, naturale e zampillante come acqua sorgiva, estremamente spontaneo. Appartiene agli anni in cui è stato prodotto, indubitabilmente; certo non suona come un album dei 2000, ma il suo essere agée lo rende comunque meno pesante, barocco e sovrabbondante di un “New Jersey”. Rock adamantino, “Bon Jovi” ha un retaggio settantiano ancora evidente, è un disco che vuole prendersi le autostrade, non le classifiche; vuole accecare per il nerbo e per l’entusiasmo, non per il luccichio dei pastrani sfoggiati on stage e nelle infinite foto promozionali. Insomma a mio parere – lo si è capito – è un gran bell’album e meriterebbe di risalire parecchio nella considerazione della gente, sia dei fans accaniti (oramai accecati e sfiniti dai Bon Jovi saliti sul tetto del mondo tra l’86 e l’88), sia di quelli che non hanno osato sciropparsi altro dopo l’indigestione delle varie “You Give Love A Bad Name”, “Wanted Dead Or Alive”, “Bad Medicine”, per non parlare di tutte le ballad arrivate dopo.

III – Il grande mistero di un vulcano inesploso

A convincere le platee che i veri veri Bon Jovi sono quelli dall’86 in poi ci ha pensato la band stessa, la quale rimuove completamente dal proprio curriculum l’incisione del secondo album “7800° Fahrenheit”, la cui scaletta non trova praticamente mai posto dal vivo per oltre 20 anni (non che il debut invece venisse saccheggiato dal vivo), ed il cui materiale è stato retrocesso snobisticamente dai Bon Jovi nella categoria “non all’altezza di quanto prodotto successivamente”. Come no….oggi anche solo la metà di un “7800° Fahrenheit” risolleverebbe i Bon Jovi dalla fetida risacca stagnante nella quale si sono infognati, adatti oramai ad andare in tour spalla a spalla con Michele Zarrillo e Gianluca Grignani. Vero è che questo disco costò una fatica immane alla band, che di ritorno dal tour del primo album si riposò letteralmente appena quattro giorni prima di iniziare a comporre il nuovo materiale. Jon e Richie confezionarono i brani in tre settimane e il solito Tony Bongiovanni lo produsse in sei, col beneplacito della Mercury. Ritmi da catena di montaggio. Ben quattro i singoli estratti, col poco lusinghiero risultato di diventare l’album meno venduto di sempre a marchio Bon Jovi e il più bistrattato. Considerando che il titolo alludeva alla temperatura di eruzione all’interno di un vulcano, di esplosivo ci fu ben poco. E pensare che è proprio sulla copertina di “7800° Fahrenheit” che viene battezzato per la prima volta il logo ufficiale della band.

Doc McGhee era il manager dei Bon Jovi sin dal primo disco, era lì quando le vendite schizzarono oltre ogni più rosea previsione, ed era lì quando i ragazzi se ne andarono in tour con Scorpions (negli States) e Kiss (in Europa). Ed era lì anche quando fu il turno di “7800° Fahrenheit”, senza che neanche lui sapesse spendere una parola per rincuorare la band quando i giudizi si fecero immeritatamente severi e negativi. “7800° Fahrenheit” non riscosse lo stesso successo commerciale (né di critica) di “Bon Jovi”, anche se perlomeno proseguirono i tour di spessore, visitando Giappone ed Europa, e supportando i Ratt in patria. Con questa seconda prova in studio i Bon Jovi cercarono in qualche maniera di raffinare la propria proposta (sempre tenendo conto della gran furia con cui dovettero assemblare i pezzi); “7800° Fahrenheit” è meno irruento del suo predecessore, un pochino più laccato e addomesticato nelle melodie e nel sound, flirta più vistosamente col pop e mette a verbale la prima ballad ufficiale dei Bon Jovi, “Silent Night”. Il perché sia la band che i fans abbiano additato questo album come la peggior cosa nata sotto quel monicker rimane (per me) un mistero. Personalmente lo gradisco assai, lo torno ad ascoltare sempre molto volentieri, con più leggerezza dei due straplatinati album successivi (e tralascio ovviamente la produzione dei ’90 e 2000, praticamente mai all’altezza).

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IV – La tesi

La tesi è che i primi due album dei Bon Jovi siano assolutamente validi, marchianamente sottovalutati e che abbiano scontato il mostruoso successo ottenuto dalla band a partire da “Slippery When Wet”, tale da schiacciare e annichilire la produzione precedente, come fosse stata robetta insulsa (e tale anche da concedere sin troppo credito ai Bon Jovi quando negli anni successivi se ne sono usciti con lavori mediocri). Dove sta la differenza fondamentale tra i primi due album e i successi interplanetari pubblicati rispettivamente nel 1986 e nel 1988? Nella scaletta, nella presenza/assenza di filler e nella furbizia palpabile. “Slippery When Wet” venne scientificamente costruito a tavolino: Bruce Fairbairn e Bob Rock a puntellare la produzione, Desmond Child (croce e delizia dei metallari) al songwriting, 26 milioni di copie vendute, 15 settimane in cima alle charts americane. Un album che non lesina belle canzoni (talvolta davvero spettacolari, “Raise Your Hands”, “Livin’ On A Prayer”, “Wanted”) ma che rivolta come un calzino i Bon Jovi e incide pesantemente sulla loro fisionomia. Come una sorta di Bruce Springsteen sparato nel multiverso dimensionale del rock duro (“I’d Die For You”, “Wild In The Streets”), Jon Bon Jovi trova la quadratura del cerchio, perdendo la genuinità degli esordi (quando era “acerbo”, avete presente?) e costruendo una macchina da guerra, oggettivamente impressionante ma appunto assemblata con tanto di istruzioni per il montaggio. Intendiamoci, non che prima i Bon Jovi andassero a cercare soluzioni anticommerciali degne della Premiata Forneria Marconi, ma adesso il lavorio di alambicchi e provette da laboratorio si fa quasi assordante. E soprattutto l’ascolto stanca abbastanza presto, confermando quanto il debutto omonimo e “7800° Fahrenheit” fossero invece dischi da “maratoneta”, ben più longevi e capaci di reggere la distanza.

“You Give Love A Bad Name”, per dire, scritta da Desmond Child, era stata originariamente cantata da Bonnie Tyler con un diverso testo e sotto il titolo di “If You Were A Woman (And I Was A Man)”. Bellissimo pezzo, anche nella versione della Tyler, che però non riscosse poi questo gran successo e così Child lo riadattò e lo consegnò su un vassoio d’argento ai Bon Jovi. Ci sono tutta una serie di accorgimenti e stratagemmi da scafato ideatore di hits perché il pezzo “lavi il cervello” degli ascoltatori. La concatenazione e ripetizione di strofe, bridge e ritornello sono tutto fuorché casuali o improvvisate, lo schema è pensato a regola d’arte; la chiave in Do minore, i BPM, il chorus che viene ripetuto allo sfinimento fino a che il volume non sfuma, tutta una serie di mosse strategiche e comprovate atte a piantare un chiodo nella testa dell’ascoltatore senza speranza alcuna di potersene liberarsene. Di per sé questo sarebbe il lavoro di un buon songwriter, mi direte, nulla di penalmente perseguibile, ed è verissimo. Dico solo che una tale maniacale ricerca del successo e della giusta sequenza subliminale per accalappiare il pubblico in “Bon Jovi” e “7800° Fahrenheit” non c’era, o perlomeno non si avvertiva così fastidiosamente. Erano album forse più naive ma che trasmettevano genuina sincerità e voglia di accendere gli amplificatori e suonare, tutto lì, senza tante sovrastrutture. E comunque “Never Say Goodbye” è insopportabile.

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V – La rendita di posizione

“New Jersey” aggiunge all’affettazione di “Slippery When Wet” la mancanza di una scaletta equilibrata. Si sarebbe quasi tentati di dire che una volta arrivati a “Born To Be My Baby” l’album è bello che finito. Non è proprio così, “Blood On Blood” e “Homebound Train” sono tracce discrete, e la cowboy song “Love For Sale” è divertente e perlomeno il tentativo di un esperimento diverso, ma il dislivello che si respira all’interno dell’album è importante. Se “Bon Jovi” e “7800° Fahrenheit” non ospitavano al proprio interno dei singoloni straccia classifiche, è altrettanto vero che la loro qualità è più costante, la curva si mantiene pressoché stabile, e complessivamente si dimostrano album più compatti e solidi. “New Jersey” è un grafico impazzito nel quale si passa da picchi vertiginosi a ripidi precipizi con troppa disinvoltura. Sette volte platino, numero uno in America e Inghilterra, nonché primo album americano mai pubblicato anche nell’allora Unione Sovietica; sboroni ed esaltati i Bon Jovi lo misero in cantiere ad una relativa breve distanza dal multimilionario “Slippery”, proprio per provare che erano una band sforna successi e non una tantum. L’idea era addirittura registrare un doppio, ma la Mercury lo volle singolo per paura che il prezzo di due LP avrebbe demotivato all’acquisto. Ancora Bruce Fairbairn in consolle, coadiuvato stavolta dallo stesso Jon. Si narra che il processo di songwriting fu ad altissima tensione; dalla sala prove dovevano uscire nuovi pezzi epocali, do-ve-va-no! Assolutamente. A tal punto che quello che venne prodotto sulle prime battute assomigliava pure troppo al materiale di “Slippery When Wet”. Per dire quanto la ricerca di nuove canzoni fosse libera da condizionamenti e all’insegna della pura ispirazione… Fu solo col sopraggiungere di Desmond “Pronto Soccorso” Child che cominciarono ad arrivare le varie “Bad Medicine” e “Born To Be My Baby”, insieme ad un fiume di ritrovata fiducia. La ballata di turno stavolta è “I’ll Be There For You”, una palla colossale, nonostante tutti i record battuti all’epoca dicano il contrario.

232 date, 16 mesi ininterrotti di vita a bordo di un bus, 22 paesi diversi visitati, il tour mondiale scaturito dall’album è maestoso, con alcuni fiori all’occhiello, tipo l’esibizione al Giants Stadium nel natio New Jersey e la posizione di headliner al Moscow Music Peace Festival nel 1989, un concerto passato alla storia per motivi anche extra musicali.  Comprensibilmente i Bon Jovi muoiono fisicamente ed emotivamente alla fine di questo massacro. Mettendo semplicemente un punto sulla vita condotta sin lì e andando a capo. Riposo e decompressione. Ed anche questo excursus si conclude qui, prima che la band decida di intraprendere una strada che progressivamente l’avrebbe sempre più allontanata dal mondo dell’hard in direzione di un rock assai più tangente al pop e sempre più sgonfio.

Discografia Relativa

  • 1984 – Bon Jovi
  • 1985 – 7800° Fahrenheit
  • 1986 – Slippery When Wet
  • 1988 – New Jersey

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