Tra il 1993 ed il 1996 Steve Harris affronta un divorzio, anzi due, uno dalla moglie e uno da Bruce Dickinson; lungo tutto il decennio deve fare i conti con una pesante flessione nell’interesse del pubblico soprattutto americano verso gli Iron Maiden, che assomigliano sempre più ad un pugile suonato in balia di fans e giornalisti insoddisfatti. Le vendite calano ad ogni disco e lo stesso sembra accadere alla vena creativa della band. Gli anni più difficili del Circo Harris, nei quali Steve sembra sbagliare ogni mossa. In qualche modo gli Iron Maiden ne sono usciti ma il pegno da pagare è stato perdere un pezzetto di anima.
Contenuti:
1. Questa non è un’esercitazione (1988)
2. Hit the road…Steve! (1989 – 1990)
3. La paura fa 90 (1992 – 1995)
4. Remember Tomorrow (1998 – 2000)
5. Como estais amigo
1 – Questa non è un’esercitazione
Quello che segue non intende essere l’ennesimo articolo generalista sugli Iron Maiden, una retrospettiva cerchiobottista, “embedded” e genuflessa per descrivere una band che in 43 anni di carriera e con 17 album a verbale non avrebbe mai commesso un errore, mai sbagliato niente, vergato solo e soltanto pagine di Storia con la S maiuscola, al pari di Leonardo da Vinci, Michelangelo o Dante Alighieri. Il mio proposito, o perlomeno il mio desiderio, è semmai quello di delineare i contorni della Vergine di Ferro – tappa obbligata per chiunque abbia conosciuto e frequentato l’heavy metal – attraverso il filtro del mio diario personale. Il mio rapporto con gli album dei Maiden, con particolare riguardo agli anni ’90 della loro e della mia storia.
Steve Harris è entrato in casa mia nel 1988, per la verità sono io ad essere entrato in casa sua visto che il mio primo vinile con Eddie in copertina, “Powerslave”, lo acquistai in Inghilterra, ad Oxford per l’esattezza, nel corso di una vacanza studio da beato e candido quattordicenne. La sera prima avevo sentito in una rockoteca una loro canzone, tra Bon Jovi a Bruce Sprinsgteen, e mi aveva decisamente colpito. Tra i miei compagni c’era un ragazzo sedicenne già col cuore borchiato, Luca, al quale l’indomani chiesi di mostrarmi in un negozio di dischi quale fosse l’album contenente quella canzone. Si trattava di “Two Minutes To Midnight” e così per qualche sterlina comprai il quinto titolo della discografia degli Irons. Dovetti aspettare di tornare in Italia per ascoltarlo ma quando la puntina dello stereo toccò finalmente il vinile si rinnovò quella sensazione magica di adrenalina ed eccitazione che mi aveva colto alla sprovvista in terra d’Albione. “Powerslave” era “overwhelming” e naturalmente c’era chi lo aveva capito ben prima di me; tuttavia meglio tardi che mai, ed infatti nell’arco di un annetto circa mi rimisi in pari, completando tutto il repertorio allora disponibile della band. Comprai gli album in ordine sparso, come li trovavo nei negozi, subito dopo “Powerslave” fu il turno di “The Number Of The Beast” e l’ultimo in ordine di tempo mi pare di ricordare sia stato “Killers”.
II – Hit the road… Steve!
Il primo vero disco preso in tempo reale fu no “Prayer For The Dying”, perché “Seventh Son” pur essendo uscito nell’88 lo acciuffai con diversi mesi di ritardo, tecnicamente già nel 1989. Venendo da quella settina di album incriticabili, indiscutibili, immacolati ed incredibili, era piuttosto logico aspettarsi un altro lavoro all’altezza dei precedenti, come se il genio della scrittura di mastro Harris e compagni dovesse essere inesauribile. L’entusiasmo era tale che credo avrei digerito anche un album dei Ricchi e Poveri con il logo degli Irons in copertina. Per altro nel 1990 ero nel pieno della mia fioritura metal, avevo scoperto il genere da appena 2 anni, ero onnivoro, mi piaceva tutto, ascoltavo di tutto e compravo di tutto, con buona pace del mio portafoglio foraggiato come potevano dai miei genitori. Glam, thrash, heavy, speed, death, funky, etc, non avevo confini e non volevo steccati, mi sentivo Alice nel paese delle meraviglie, o anche banalmente un bambino in un negozio di caramelle, tutte belle, colorate e appetibili.
Beh, nonostante tutte queste premesse positive, “No Prayer For The Dying” fu invece una delusione. Lo ascoltai e sulle prime ebbi subito una sensazione di calo, ma comunque lo riascoltai e riascoltai ancora, anche perché con i Maiden era d’obbligo, c’era sempre da aggiungere dettagli e scoprire nuovi particolari, musica multistrato. Con quell’album però non accadeva ed anzi ad ogni ascolto perdevo qualcosa, pezzi di euforia, brandelli di ebbrezza. Nell’arco di parecchie ore di ascolto, come per i brevetti dei piloti di aereo, mi resi inappellabilmente conto che l’incanto era scemato, anche i Leonardo ed i Michelangelo potevano toppare e pubblicare un album “normale” come qualsiasi altra band… in verità anche un po’ noioso. La ragione era da imputare prevalentemente al fatto che “No Prayer” fosse concettualmente l’esatto contrario di “Seventh Son”, che nel frattempo era assurto ad uno dei miei dischi preferiti della band (mentre Dickinson ex post ebbe a definirlo “sbagliato”). Per qualche motivo gli Irons si erano convinti che dovessero invertire quella tendenza, alcuni fan si erano detti insoddisfatti dalle dilaganti tastiere (già introdotte in “Somewhere In Time”) e da quelle atmosfere più elaborato, sofisticate e vagamente intellettuali. Steve Harris riteneva che si dovesse tornare ad un sound più autentico, genuino e spontaneo, persino stradaiolo. Meno sofisticazione e più vendite, dato che almeno negli States erano calate vistosamente. Ok, potevo anche sposare una maggiore “verità” (concetto sul quale potremmo discutere) ma il problema di “No Prayer” era la pochezza del songwriting non l’attitudine stradaiola e/o sincera. Col senno di poi pure Dickinson e Harris si sono detti non esattamente entusiasti di quell’album che non riuscì a dare una nuova impennata alle vendite, anzi tutt’altro.
Ci rimasi male, molto male, anche troppo. Pareva che un caro amico mi avesse tradito, avevo 16 anni e non capivo che un qualsiasi musicista dopo sette album superlativi può anche prendersi una pausa dal genio. Per altro, alla luce di quanto i Maiden avrebbero fatto decenni dopo, avrei avuto modo di rivalutare ampiamente ciò che all’epoca mi pareva così orrido e inaccettabile. Fatto sta che me la legai al dito, anche perché contemporaneamente usciva di tutto e c’era da traboccare di felicità per la bellezza che si poteva ascoltare in giro. Solo per stare al 1990, stiamo parlando fra gli altri di “Never, Neverland” (Annihilator), “Persistence Of Time” (Anthrax), “Danzig II: Lucifuge” (Danzig), “Hammerheart” (Bathory) “Piece Of Time” (Atheist), “Act III” (Death Angel), “Lights…Camera…Revolution!” (Suicidal Tendencies), “Left Hand Path” (Entombed), “Harmony Corruption” (Napalm Death), “The Key” (Nocturnus), “Cause Of Death” (Obituary), il debutto omonimo dei Deicide, “The Razors Edge” (AC/DC), “Time’s Up” (Living Colour), “Rust In Peace” (Megadeth), “Beg To Differ” (Prong), “Empire” (Queensrÿche)… appena il 10% di cosa ha avuto da offrire quel singolo anno messo in musica.
III – La paura fa 90
Nel frattempo arriviamo al 1992 e gli Irons tornano alla carica con “Fear Of The Dark”. La prima impressione a caldo è positiva, anche perché la scelta dei singoli è oculata, “Be Quick Or Be Dead” e “From Here To Eternity” sono due bei pezzi; ma più che oculata direi furba perché, a dirla tutta, quelli sono i migliori pezzi dell’album assieme alla title-track. Già con “Afraid To Shoot Strangers”, il terzo singolo, si scende di un gradino, anche due. Lo sconforto vero e proprio mi assale con “Wasting Love”, la prima tanto strombazzata ballad degli Iron Maiden. Beh? Le facevano i Metallica ed i Testament e non potevano farle anche gli Irons? la domanda è mal posta, sulla legittimità nessuno credo avesse da obbiettare, sull’opportunità io perlomeno avevo parecchio da recriminare. “Wasting Love” è un pezzo orrendo che sembra esistere solo a partire dal presupposto che anche gli Iron Maiden volevano la loro ballad da mettere in vetrina perché ora un gruppo metal poteva permetterselo senza essere preso a cassette di ortaggi marci. Già il titolo tradisce l’enorme botta di fantasia, se aveste dovuto scrivere un lentone ed aveste dovuto pensare ad un titolo adeguato che lo identificasse di primo acchito come una ballad cosa vi sarebbe potuto venire in mente? Esatto, “Wasting Love”. Ma banalità a parte, è proprio una canzone che potevano risparmiarsi, che non aggiunge nulla al loro songbook anzi toglie (qualità).
Detto ciò, la scaletta di “Fear Of The Dark” col procedere degli ascolti si dimostra piuttosto discontinua, ci sono troppi alti e bassi, accanto a pezzi pregevoli ci sono dei veri e propri filler, sebbene i die-hard fans dei Maiden non saranno mai disposti a definirli come tali, manco sotto tortura. Però quello è “Fear Of The Dark” (per me, s’intende), un album buono per metà, una release che sarebbe potuta essere un più che discreto Ep ma non il nono altisonante album degli Iron Maiden, ovvero l’heavy metal incarnato. Intanto, è cosa nota, Janick Gers aveva preso il posto di Adrian Smith, non esattamente un cambio alla pari, ma certo non era sua la colpa del declassamento complessivo, in casa Irons non si è mai mossa foglia che Steve Harris non abbia voluto ed approvato, Gers era solo uno messo lì (da Harris) a fare il suo, né più né meno. Con “Fear Of The Dark” siamo a due passi falsi, o meglio uno e mezzo, però a questo punto pare certificato che i Maiden siano in pesante flessione. Per di più il decennio che gli sta ruotando attorno sta sconquassando il metal tradizionale in lungo e largo e loro sembrano via via rintanarsi dentro il fortino dei “padri nobili”, mentre i palchi di mezzo mondo sono flagellati a colpi di grunge/alternative, hardcore interdisciplinare che contamina tutto – dall’hard rock al death – e industrializzazione aggressiva delle fabbriche.
Passa un’eternità e sul nuovo e decimo album dei Maiden si registra un cambiamento epocale, assai più della dipartita di Smith, quella di Dickinson. Vedove planetarie non riescono ad arginare la lacrimazione di fronte alla separazione dall’ugola d’oro del verbo maideniano. Come potrà la band andare avanti senza quell’ugola così carismatica e rappresentativa? Harris vacilla, da prima s’incazza come una scimmia poi arriva persino a mettere in conto l’ipotesi dello stop a tempo indefinito. Pare sia stato l’amico di sempre Dave Murray a dare una scossa di orgoglio e a dire” fanculo, perché dovremmo farci fermare da Dickinson? Si fotta!“. Steve fa il filo a Blaze Bayley, il cantante dei Wolfsbane, che hanno accompagnato gli Irons nel tour di “No Prayer”. Bayley se la gioca al fotofinish con Doogie White, che in verità appare assi più consono al repertorio Maiden, Blaze fa fatica con qualche pezzo di Bruce, anzi appare quanto di più lontano da Dickinson potesse esistere sulla faccia della Terra, e dentro gli Irons qualcuno lo pensa. Ma l’entusiasmo, la verità, la fede che Blaze mette nel credere al miracolo di diventare il nuovo cantante dei Maiden fa il paio con il proposito di Harris di sparigliare le carte e non adagiarsi su un clone di Dickinson (e manco di Di’Anno). Assunto.
Tutto considerato, grandi novità quindi nel songwriting dei Maiden? Si e no. Si perché oggettivamente “The X Factor” suona parzialmente diverso dal materiale precedente, più cupo, più oscuro, più arrovellato ma al contempo anche con delle aperture ai limiti dell’hard rock (non nuove al songbook degli Irons); ma anche no perché il materiale era stato pensato e scritto per Dickinson al microfono, quindi alla fine quello che Bayley deve fare è semplicemente adattarsi, mettersi un vestito che non è il suo e farselo andare in qualche modo. Paradossalmente l’album, per quanto assai più asfittico e ombroso rispetto allo squillante “Fear Of the Dark”, è una boccata d’ossigeno all’interno di una discografia che stava prendendo una gran brutta piega, troppo autoreferenziale e arida di spunti. Richiede tanti ascolti per essere assaporato a pieno, non è perfetto, anzi è decisamente lontano dall’esserlo e qualche lungagnata di troppo c’è, ma nel complesso il pollice è alto. Si sente la voglia di fare, di ripartire, qualunque sia la direzione, non chiarissima nemmeno ad Harris per primo. A dirla tutta però io questo questo disco non lo comprai nel 1995 ma nel 1998, subito dopo “Virtual XI”. Verso metà anni ’90 mi ero proprio scocciato dei Maiden e mi pareva che in giro ci fosse molto di meglio per cui spendere. Quando nel ’98 la band si rifece viva, giunta al secondo album con Bayley, mi ero parzialmente riappacificato con l’insoddisfazione verso Harris e la sua testardaggine di fare sempre le stesse cose, e decisi di provare a scommettere sul nuovo disco, senza di fatto saperne niente, ma solo per soddisfare la curiosità verso lo stato di forma degli Iron Maiden dieci anni dopo il loro ultimo vero capolavoro.
IV – Remember Tomorrow
“Virtual XI” credo sia universalmente ritenuto l’album peggiore della band e io francamente non ho mai capito il perché. Cioè, penso sia sano che ci siano loro estimatori che reputino qualche disco degli Irons meno riuscito di altri, perché quelli che ritengono 17 dischi 17 centri mi sembrano un filo inquietanti, ma non afferro perché proprio “Virtual XI” sarebbe il più nefasto. Siamo sideralmente lontani dallo splendore degli anni ’80 ma, ciò detto, il numero 11 è un onesto disco dei Maiden “da camera”, minore, minimalista, molto pragmatico e concreto. Harris sembra aver capito che non c’è da inventarsi chissà cosa, non sa e non può erigere grattacieli perché idee nuove e fresche nel carniere non ce ne sono; al contempo il bieco riciclo della solita solfa non è (più) dignitoso. Allora prova a giocarsi la carta del Maiden sound scarnificato all’osso, toglie ogni orpello, alleggerisce, snellisce, riduce al cuore pulsante e plasma una track-list quasi tutta di suo pugno che è l’essenziale, senza fuochi d’artificio o specchietti per le allodole. Otto canzoni otto, nude e crude, così come sono. Certo, il minutaggio proprio non ce la fa a contenerlo, oramai la logorrea lo attanaglia e si è attestata come un tratto saliente della band, incisa proprio nel dna degli Irons, ma perlomeno il materiale in sé ha un suo senso ed una sua logica. Diciamo 7 pezzi su 8, perché a me “Como Estáis Amigos”, l’unico brano vergato dal duo Gers/Bayley, non mi ha mai detto granché. Partendo dal presupposto che stiamo parlando di Iron Maiden dalle poche pretese, che giocano al ribasso e cercano sostanzialmente di rimanere a galla, l’album sarà anche modesto ma a me non dispiace. Anzi, ancora oggi pezzi come “Futureal” o “The Educated Fool” suonano freschi e gradevolissimi (“Fear Of The Dark”, per dire, non mi fa lo stesso effetto). E’ ovvio che “The Angel And The Gambler” sarebbe potuta durare la metà se avessero evitato di ripetere il ritornello un miliardo e mezzo di volte, ma su quello Harris proprio non riesce, lui si è da tempo convinto che qualità sia sinonimo di durata, come Christopher Nolan al cinema. Riconciliatomi con gli Iron Maiden in un momento della mia vita in cui ne avevo voglia e bisogno, ho recuperato pure il precedente “The X Factor” apprezzandolo, sebbene le differenze di forma e sostanza con “Virtual XI” ci siano e si sentano tutte.
A battezzare i 2000 arriva il ritorno del figliol prodigo, Dickinson dopo essersi sfogato a colpi di album solisti (non tutti andati benissimo a livello di accoglienza, per la verità) ritorna all’ovile e riprende il suo tran tran con Harris, Eddie e tutti i Maiden. Disco dopo tour dopo disco dopo tour… tutto come prima. Se ne era andato via sbattendo la porta, stanco di fare sempre le stesse cose, cantare sempre le stesse canzoni, incidere sempre gli stessi dischi, obbedire sempre agli stessi diktat di Steve Harris. Tutto prescritto, riprende a cantare le stesse canzoni, vivere la stessa routine disco/tour, incidere sempre gli stessi dischi, obbedire agli stessi diktat di sempre di Harris. Pure Adrian Smith si riaffaccia e Harris decide che Gers deve rimanere, tre chitarre che suonano come due, nessuno ha mai capito a che scopo ma così sarà d’ora in poi per i Maiden. Alla fine della fiera però “Brave New World” è un buon disco, fa sperare che la band possa perlomeno pubblicare materiale dignitoso, magari non all’insegna di una spregiudicata ricerca di novità ed originalità, senza grandi sentori di progresso e futuro, ma perlomeno nel segno della qualità (e dell’esperienza). Con buona pace di Bayley, accompagnato alla porta sul retro senza tanti convenevoli, i ritrovati Iron Maiden con Dickinson alla voce si rimettono in carreggiata e ristabiliscono tutta la loro autorità. In tanti ci cadiamo come pere cotte, alla fine questi vecchi marpioni sanno il fatto loro e, mentre i Metallica sono persi a pubblicare schifezze inenarrabili, i Maiden sembrano dei vecchiardi sornioni che ancora possono dare una zampata (con)vincente. Non sarà così manco per niente, perché il nuovo millennio, benché aperto onorevolmente da “Brave New World”, sarà quello della “mattonizzazione” degli Irons.
V – Come estais amigos
Harris si convince di essere Mike Rutherford, ma anche un po’ Peter Gabriel, e quando mette gli Iron Maiden davanti allo specchio vede i Genesis. Addobba il sound con intenzioni progressive ampollose, pompose, paludate, ridondanti, senza rendere di fatto gli Irons una vera e propria band progressive ma spingendo marchianamente in quella direzione, come se quella fosse la patente definitiva per la consacrazione nei confronti dei palati fini, adulti ed educati ascoltatori di musica forgiati da anni ed anni di progressive britannico. Da “Dance Of Death” in poi mi perdo dietro track-list dalla durata agghiacciante, 60, 70, 80, 90 minuti… siamo dalle parti del sequestro di persona, una cattedratica e sfiancante dimostrazione di abbondanza produttiva come se gli album si dovessero misurare a metri e non ad endorfine. “The Final Frontier”, per dire, è una bella canzone che mi è sempre piaciuta, ma per ascoltarla devi sottostare ed accettare di affogare dentro altri 68 minuti di sabbie mobili che stroncherebbero un mammuth. La missione da crocerossina di carità, di andare a scovare ogni singola canzone che vale la pena in un mare magno che non vale affatto la pena, io non me la voglio intestare. Ho rinunciato ed abbandonato Steve Harris al suo destino per la seconda volta, stavolta temo in modo definitivo poiché, a quasi 70 anni e con oltre 40 di carriera e 17 dischi alle spalle, dubito fortemente che all’orizzonte ci siano grandi colpi di scena o stravolgimenti. Harris ha trovato la sua strada, quella che intende percorrere fino al giorno in cui appenderà il basso al chiodo. Dickinson invece ha perso una bella fetta di range vocale, oramai vive su tonalità altissime che dal vivo non rendono granché giustizia al vecchio repertorio della band, tante sfumature cromatiche sono fiaccate dalla sirena sempre acuta e tirata come un collo taurino, ma in fondo ai fans che accorrono in massa ad ogni live sembra andar bene così e quindi alla fine ha ragione Bruce.
I miei Maiden suppergiù finiscono nel 2000, dopo faccio gli auguri e le mie migliori felicitazioni a chi riesce ancora a ricavare piacere dall’ascolto del loro materiale ma non fa per me, non fa decisamente più per me. Come dal salumiere quando sono 2 etti e trenta grammi di prosciutto, lui ti chiede se “lascia così” e tu rispondi che no, due etti avevi chiesto e due etti bastano, a posto così. All’epoca della dipartita dai Maiden, Dickinson disse di aver cercato di portare avanti le sue istanze prima di arrivare alla rottura, di aver stigmatizzato certe scelte produttive, l’impostazione monolitica del sound, di aver puntato il dito contro la presunta perfezione intangibile di ogni cosa targata Iron Maiden, contro la totale mancanza di autocritica, lucidità e “democrazia decisionale”, ma tale atteggiamento fu a sua volta stigmatizzato da parte dei restanti membri della band, in primis Harris, vero destinatario delle critiche, in secundis da tutti gli altri, troppo attenti a non pestare i piedi al capo. Harris da parte sua ha sempre negato che tali confronti più o meno costruttivi siano realmente avvenuti in seno ai Maiden. Una cosa è certa, se mai è accaduto che gli Irons abbiano parlato di loro stessi in questi termini, analizzandosi e mettendosi in discussione, un minuto dopo hanno smesso di farlo. Per sempre.
Discografia Relativa
- 1990 – No Prayer For The Dying
- 19892 – Fear Of The Dark
- 1995 – The X Factor
- 1998 – Virtual XI
- 2000 – Brave New World