Il desiderio di spendere due righe sui Mötley Crüe nasce dall’ennesimo periodico riascolto dei loro album, che oramai mi accompagnano da oltre tre decenni. Non state per leggere un’altra pedante monografia perfettina, ne esistono a milioni, come altrettanti sono i libri pubblicati dalla band e sulla band. Del loro pubblico e del loro privato è stato squadernato ogni dettaglio, lecito e meno lecito (nel loro caso i due fattori sono invertiti), fino alla recente serie tv tratta dall’autobiografia “The Dirt”. Su ogni membro dei Crüe sono usciti biografie individuali, il solo Mick Mars mi pare meno frequentato da un punto di vista bibliografico. Presa singolarmente la vita di Tommy Lee, Vince Neil e Nikki Sixx potrebbe essere fonte si altrettanti ulteriori serie tv di svariate stagioni. La mole di materiale riguardante i Mötley Crüe è strabordante e perlopiù del tutto inutile, velleitaria. Questo è esattamente il punto, tutto il circo, i parafernalia, la rutilante aneddotica esistente sui saints of los angeles sono croce e delizia per chi li ama. Personalmente non mi sono avvicinato ai Mötley Crüe per le loro imprese sessuali, per loro dipendenze da qualunque cosa o sostanza si possa dipendere, per i loro eccessi, ma per la musica. Apparirà forse banale ma di questo si è sempre trattato.
Contenuti:
1. Capitolo I
2. Capitolo II
3. Capitolo III
4. Capitolo IV
Capitolo I
Pare che i Mötley Crüe, tra una sparata e l’altra, sarebbero una band che suona canzoni e pubblica album. Garantisce sempre un ottimo feedback il denigrarli, sminuirli, ridurli a macchiette, per poi magari due righe più avanti leggere elogi sperticati degli Steel Panther. Gli Steel Panther sarebbero un’acuta parodia proprio del mondo hair glam dei Crüe, le crasse risate. Io invece credo che gli Steel Panther siano una parodia di chi crede che gli Steel Panther siano una parodia. Nel prendere in giro quel mondo gli le volgarissime Pantegane hanno finito col crederci più delle band oggetto del loro scherno, e allora alla fine il vero target di quella caricatura sono i fan stessi, che si danno la gomitata d’intesa sottobanco senza capire che gli Steel Panther si garantiscono introiti sul conto corrente proprio grazie a quella snoberia.
Sui primi due album dei Crüe francamente non so come si faccia ad aprir bocca e trovare qualcosa da ridire. Si può non amare l’hard rock perché si predilige magari il thrash, il death, il black metal, e allora d’accordo; ma ugualmente non ci sarebbero critiche da muovere a quei dischi, esattamente come non ho nulla da eccepire su “De Mysteriis Dom Sathanas” pur non essendo pane per i miei denti. La storia di un genere è la storia di un genere, anche se non lo si mastica volentieri. “Too Fast For Love” e “Shout At The Devil” sono album di una freschezza inalterata a quaranta anni di distanza. Potenti, scattanti, ruvidi, maestosi, elettrici, strafottenti. Su quel Vince Neil non c’è nulla da eccepire, purtroppo non sarà così lungo tutto il prosieguo della carriera dei Crüe, ma a quest’altezza il suo marchio collima a meraviglia con quello degli altri band mates. Dico questo perché è indubbio che strada facendo la sua tendenza a trasformarsi in Paperino, vocalmente parlando, ha azzoppato non poco i Crüe, soprattutto dal vivo, dove Neil ha messo in evidenza una progressiva inadeguatezza a reggere il peso degli anni e dell’adipe crescente. Tutti e quattro si sono devastati, principalmente a causa dei loro eccessi; Tommy Lee è quello rimasto più in salute fisicamente anche se ha avuto diversi colpi di testa che da un verso lo hanno etichettato come uno spirito libero e indomabile (i Methods Of Mayhem, i dj set di musica elettronica), dall’altro ne hanno restituito l’immagine di un miliardario arrogante e viziato (i reality show, le violenze domestiche, i video porno con Pamela Anderson). Nikki Sixx si è ammazzato di droga, letteralmente. Mik Mars è stato prosciugato dalla spondilite anchilosante. Neil ha ucciso il batterista degli Hanoi Rocks, si è sfinito di droghe, ha fatto a botte con mezza Los Angeles, è stato arrestato, ha subito la dolorosa perdita della figlia Skylar morta a quattro anni di cancro, ha partecipato pure lui ad un reality, si è dato all’imprenditoria aprendo uno strip bar (ovviamente) che avrebbe dovuto dare il là ad un franchise su tutto il territorio americano, se non fosse stato chiuso appena un anno dopo.
Capitolo II
La storia dei Mötley Crüe è la storia di quattro sbruffoni antipatici mai usciti dall’adolescenza, effetto causato spesso e volentieri dal lievitare del conto in banca. Quando affoghi nelle banconote il cervello si spegne, i neuroni decrescono, sei circondato da yes man, e nel caso dei Crüe soprattutto da yes woman. Ciò che viene descritto in “The Dirt” ruota pressoché esclusivamente attorno a questo: vagina, dollari, droghe. La misura del successo della band tuttavia non è misurabile in modo direttamente proporzionale a quel trittico bensì alla musica espressa; troppo spesso la gente confonde e sovrappone le due cose. Per quanto mi riguarda, il circo dei Mötley Crüe non è stato il propellente, la benzina del mio innamoramento, semmai un freno, un guinzaglio, una zavorra che ha rischiato di metterne in ombra tutto il potenziale che la band aveva da esprimere. Questo impedimento è cresciuto nel tempo, via via che si assottigliava la freschezza creativa, via via che il cervello, le vene e i muscoli si obliteravano di schifezze, i Crüe sono rimasti sempre più insabbiati in un divismo che avvelenava (ed annacquava) la musica anziché esaltarla. “Theatre Of Pain” e “Girls, Girls, Girls” sono già espressione di questa decadenza. Da fan, per me sono due buoni album, ma già non hanno più la forza dirompente della coppia che li ha preceduti. Ottimi pezzi si alternano ad episodi gradevoli, che si alternano a loro volta a qualche compitino di mestiere. Il totale e incondizionato sposalizio dell’immagine della band con lo stile glam in “Theatre Of Pain” segnala l’urgenza di affidarsi ad un mezzo per sostenere la popolarità dei Crüe, come se la musica non fosse più abbastanza. “Girls, Girls, Girls” cambia semplicemente il tramite, anziché rossetto, lacca per capelli e spandex fluo, ora in vetrina ci vanno le ragazze seminude e le Harley Davidson. Il valore della musica dei Crüe è sempre alto ma è chiara anche la ruffianeria di questi lavori che a metà anni ’80 cercano di cavalcare una moda e tenere in pista i quattro ragazzacci viziati. “Dr. Feelgood” ripristina un po’ di integrità, gli strumenti tornano preminenti rispetto all’immagine. Un sussulto d’orgoglio anche se, paradossalmente, tutto ruota attorno proprio alle sostanze stupefacenti, tema portante della title-track; così come “Kickstart My Heart” riguarda il cuore di Nikki Sixx rimesso in moto dai paramedici con un’iniezione di adrenalina dopo essere finito in overdose.
Poi arrivano gli anni ’90. I Crüe litigano incessantemente, tre ego su quattro sono smisuratamente incompatibili tra loro; Neil sta affossando se stesso, Mars è stanco di fare il badante di tre mocciosi indisciplinati, Tommy Lee ha sete di novità musicali e quel decennio è arrivato apposta per abbattere le vecchie glorie del rock ‘n’ roll come Lee e soci. Il prodotto di tutto ciò è l’omonimo “Mötley Crüe” nel 1994. La band ci pensa per un lustro intero e poi si ripresenta al proprio pubblico “ripulita” (si fa per dire) e con un nuovo frontman, John Corabi, che sarà il Blaze Bayley (o il John Bush se preferite) dei Crüe, il tizio che salva la baracca in un momento topico e particolarmente delicato ma che poi viene buttato nel cassonetto quando il biondo figliol prodigo torna all’ovile. Un album autointitolato significa una nuova ripartenza, quello è il messaggio ed è corretto perché le 12 tracce di “Mötley Crüe” suonano parecchie diverse dal solito. Il disco è divisivo, il che automaticamente divide le fazioni in eserciti contrapposti, chi lo trova bellissimo, chi non lo reputa neppure un album dei Crüe. Per quel che vale, io appartengo alla prima. L’album dimostra quanto la band (meno Neil) sia ancora incredibilmente in palla, feconda ed in grado di partorire ottima musica; il profilo è assai più maturo, c’è meno infantilismo e meno indulgenza sulle cretinate del passato. “Mötley Crüe” è di una potenza devastante anche se chiunque all’epoca si sarà posto la seguente domanda: “e adesso i Crüe andranno avanti così? Potranno costruire una discografia lontana dai pali degli strip bar, dalle Playboy mansion e dai motoraduni degli Hell’s Angels?” La risposta chiaramente fu no. Appena tre anni dopo Neil è di nuovo davanti all’asta del microfono per l’album forse più controverso della band, “Generation Swine”, sorta di tentativo di tenere assieme vecchio e nuovo, provando ad accontentare tutti. Lodevole il coraggio di non tornare sterilmente alle atmosfere della prima metà degli anni ’80, ma ciò nonostante è l’unico album dei Crüe che non mi ha mai conquistato. E’ un vorrei ma non posso, e anche un non so di preciso dove sto andando.
P.S. a proposito degli Hell’s Angels, c’è un gustoso aneddoto che riguarda Nikki Sixx, “Knock ‘Em Dead, Kid” sarebbe stata scritta dopo una rissa del bassista con dei motociclisti di quella gang di rider, che tuttavia si rivelarono poi essere dei poliziotti sotto copertura. Sixx le prese di santa ragione e finì pure in gattabuia.
Capitolo III
I Crüe non raggiungono più il disco di platino dai tempi di “Dr. Feelgood”, ma nonostante tutto rimangono in buona salute, mantenendo almeno la certificazione gold… fino a “New Tattoo”. Stavolta è Tommy Lee ad aver lasciato l’edificio (entrando nelle patrie galere dello zio Sam), sostituito dall’ottimo, più concreto e meno funambolico Randy Castillo (ex Lita Ford e Ozzy Osbourne). A suo modo anche “New Tattoo” è un titolo che sembra alludere ad un nuovo inizio, ennesima pelle cambiata dalla band e forgiata da un “nuovo tatuaggio”. Infatti la band entra finalmente in possesso dei diritti del proprio catalogo dopo la fine del lungo contratto con Elektra e battezza i 2000 col nuovo album. Nuovo secolo e nuovo millennio, anche nuovi Mötley Crüe? Non proprio. La ciurma fa un passo indietro, ma ragionato, studiato, accorto, non pigro o peggio, artefatto. L’album riprende lo stile pre rivoluzionario attuato con la doppietta “Mötley Crüe”/”Generation Swine” ma elimina ogni eccesso e pacchianeria di sorta. Sembra una rielaborazione ordinata e composta del vecchio sound dei Crüe. In un certo senso mi ha fatto lo stesso effetto di “Virtual XI” dei Maiden, una versione “da camera” della band. Ad un primo ascolto “New Tatto” risulta meno esplosivo e urlato, anche per via di una produzione più di basso profilo, ma se si ha la pazienza di ascoltarlo si verrà conquistati dal songwriting (che poi è la sostanza di un album). Il lotto di canzoni è assolutamente valido, i Crüe sembrano depurati, come avessero imbracciato gli strumenti il giorno dopo essere usciti dalla rehab. Per qualcuno questo depotenzia fisiologicamente una band che aveva fatto degli eccessi e dell’esagerazione il suo trademark; personalmente invece, avendo da sempre sofferto tutta la ridicola paccottiglia squinternata “sesso, droga e rock ‘n’ roll” dei Crüe, con “New Tattoo” ho potuto godere della loro essenza in forma più adulta e focalizzata sulla musica anziché su tutto il resto (leggi: glamour e spazzatura). Si tratta di un album gradevolissimo, pieno di idee messe a terra e concretizzate invece che sparate col cannone nello spazio, benché uno dei pezzi più divertenti si intitoli “1st Band On The Moon”. Mick Mars non ha praticamente contribuito alla scrittura dell’album perché i rapporti con i compagni erano decisamente peggiorati con l’ultimo “Generation Swine”, una situazione simile a quella di Ace Frehley separato in casa con i Kiss (ed infatti suppergiù andrà a finire nello stesso modo). Castillo non riesce a partire in tour perché viene ricoverato per un’ulcera duodenale e mentre è in ospedale gli viene diagnosticato un carcinoma che se lo mangerà. On stage verrà sostituito dalla batterista delle Hole Samantha Maloney, ma alla morte di Castillo tornerà sullo sgabello Tommy Lee, secondo un copione già scritto con i Mötley Crüe, la band degli eterni ritorni.
Le ostilità discografiche si interrompono per otto anni nei quali i Crüe fanno di tutto tranne che occuparsi di un nuovo album, tante pubbliche relazioni e sciocchezzuole varie, ma bisogna aspettare il 2008 perché nei negozi si materializzi il nono capitolo in studio della loro variopinta carriera. “Saints Of Los Angeles” doveva originariamente chiamarsi “The Dirt”, per battere il ferro caldo dell’oltraggiosa biografia della band (uguale a quella di mille altre band americane, solo con molto più soldi a disposizione da spendere in sesso, droga, alcol, cafonate, distruzione ed autodistruzione). L’album è una sorta di nuovo “Dr. Feelgood”, non solo perché le rispettive title-track si richiamano alla lontana, ma perché entrambi i lavori arrivano a rimettere sul trono una band che si era un po’ persa per strada per eccesso di ego e cretinaggine. “S.O.L.A.” (acronimo decisamente beffardo in italiano) è la sella su cui risalgono i Crüe, un album assolutamente solido che per certi versi fa quasi rabbia perché questi vecchietti, devastati da qualunque sostanza chimica esistente in natura o creata in laboratorio, dopo quasi 30 anni di trincea dimostrano di avere ancora molto da dire e da dare. E allora perché non darci un taglio con tutte le bambinate da asilo ed il maledettismo un tanto al chilo? Qualcuno risponderà: “perché quelli sono i Mötley Crüe, baby. Prendere o lasciare“. Può darsi, forse non possono esistere i Crüe senza le cazzate dei Crüe. Ma mi intigno, se si guarda alla band limitandosi agli album (let the music do the talking), senza leggere tutto il gossip di corredo che per decenni l’ha circondata e alimentata, la differenza di peso specifico tra il quadro e la cornice è enorme, marchiana. Ma suppongo sia come ammirare certe bellissime donne (o bellissimi uomini) e poi magari sentirle/i aprire bocca… come può tanta bellezza appartenere a tanta scempiaggine? Purtroppo accade, è legge di natura.
Capitolo IV
In tutto il tempo trascorso dopo “Saints Of Los Angeles” i Crüe non hanno combinato niente, niente di meritevole da segnalare perlomeno. Hanno fatto svariati tour d’addio, hanno gozzovigliato, hanno guardato la trasgressiva serie tv “The Dirt” ispirata alle gesta trasgressive di una band trasgressiva (e tremendamente autoreferenziale). Nel 2022 la malattia ha fiaccato definitivamente Mick Mars, costretto a ritirarsi ma non a smettere di scrivere musica. Cinicamente i quattro “santi” si sono ridotti a tre e lo hanno rimpiazzato con John 5, abituatissimo agli squinternati, vedi la sua militanza al fianco di freak come Rob Zombie e Marilyn Manson. Appena un mese fa è stato pubblicato l’Ep “Cancelled”, contenente due tracce inedite più una cover dei Beastie Boys (“Fight For Your Right”). Non posso dire mi abbia mandato in sollucchero. Oggi i Crüe sembrano semplicemente un’assicurazione per la vecchiaia dei membri che ne fanno parte. Mars è stato accantonato come un ferro vecchio ed era dai tempi di “Shout At The Devil” che la band sognava di liberarsene (rimpiazzandolo a suo tempo con Jake E. Lee, un loro pallino per via del tour di supporto a “Bark At The Moon” con Ozzy Osbourne). Sixx va in giro a dichiarare apertamente nelle interviste che col cazzo avrebbero appeso gli strumenti al chiodo solo perché uno di loro stava male. Il nuovo materiale è di rara bruttezza, nonché di altrettanto rara inutilità. Chi vuole dei Crüe così a sessanta anni suonati, a parte il loro family banker? Neil non è più assolutamente in grado di reggere un live set, si sprecano i video su youtube che cercano di dimostrare che la band dal vivo faccia ampio ricorso a tracce pre registrate. La filosofia che hanno sposato è assolutamente in linea con i tempi, quella si; singoli estemporanei e assai mediatici anziché full-length che probabilmente non sarebbero minimamente in grado di assemblare mantenendo un dignitoso livello qualitativo e di coerenza interna.
Una volta esplorati i Crüe dall’inizio alla fine non si può che ritornare alle origini e ripartire da “Too Fast For Love” e “Shout At The Devil”, due album che da soli si mangiano tutta la discografia restante e quella di decine di altri competitor che negli stessi anni dei Mötley Crüe hanno condiviso gli stessi palchi dei Mötley Crüe. Sono due album enormi, immortali, più grandi della band stessa, nei quali non c’è una nota sbagliata o fuori posto, una sola idea che non sia fenomenale e genialoide. Amo i Mötley Crüe, li ho sempre amati, li ho visti dal vivo, ho comprato i loro album e le loro magliette, non gli perdono tutto, non credo stiamo parlando di grandissimi quozienti intellettivi, non ho granché interesse verso eventuali nuovi passi discografici di una band che non è più quella band, per raggiunti limiti di età e decenza, ma non passa mai un lungo periodo tra un (ri)ascolto e l’altro di un loro album. Sono un sorcino dei Crüe e pazienza se alla fine c’era più cervello nelle tette di Pamela Anderson che nella scatola cranica di Tommy Lee o degli altri sciancati al suo fianco. La musica rimane, per fortuna.
Discografia Relativa
- 1981 – Too Fast For Love
- 1983 – Shout At The Devil
- 1985 – Theatre Of Pain
- 1987 – Girls, Girls, Girls
- 1989 – Dr. Feelgood
- 1994 – Mötley Crüe
- 1997 – Generation Swine
- 2000 – New Tattoo
- 2008 – Saints Of Los Angeles