Portando all’estremo l’eterna controversia sui Kiss la domanda sarebbe: hanno fatto soldi con la musica o hanno fatto musica per i soldi? Una disputa inestricabile poiché sono entrambe due verità. La cupidigia dei Kiss è notoria ed è innegabile con quanta risolutezza e lucidità abbiano perseguito ogni via possibile per accumulare denaro, ma è altrettanto inconfutabile quanto buon rock ‘n’ roll abbiano dato al mondo i quattro newyorkesi mascherati (che per la verità nel tempo si sono trasformati in una vera e propria azienda con decine di dipendenti, più o meno occulti). Le due polarità sono state tutt’altro che opposte, si sono compenetrate in una sinergia perfetta, una relazione dialettica degna dello yin e dello yang. Chi insiste sulla spasmodica smania di denaro dei Kiss tende a ridimensionarne la musica e a minimizzarne il numero di album realmente significativi, meritevoli e di spessore. Quante band vi vengono in mente che hanno avuto più successo dei Kiss? Eppure nonostante il loro fosse il grattacielo più alto in città, non gli è stata risparmiata una certa sufficienza di giudizio; esiste ed è sempre esistita una fetta di pubblico e critica che li ha ritenuti poco più che un imbroglio, dei miracolati, un prodotto di marketing spregiudicato e selvaggio. Tra business e arte, vi spiego cosa sono i Kiss… secondo me.
Contenuti:
1. Capitolo I
2. Capitolo II
3. Capitolo III
4. Capitolo IV
capitolo 1
20 album in studio, 24 se ci aggiungiamo i 4 solisti del 1978, impossibile poi non considerare almeno i primi due “Alive” (1975, 1977) e le raccolte “Double Platinum” (1978), “Killers” (1982) e “Smashes, Thrashes & Hits” (1988), ognuna delle quali ha un motivo per non poter essere tralasciata. La “Double Platinum” perché di fatto suggellava la scalata al successo della band e rimane a tutt’oggi una delle release più vendute di sempre dei Kiss, “Killers” perché conteneva ben quattro inediti, “Smashes, Thrashes & Hits” un paio. 50 anni di carriera, una quantità inenarrabile di denaro incassato ed un logo (registrato legalmente nel 1976) che ha travalicato i confini del rock e della musica diventando un fenomeno culturale, il marchio di un’epoca e di un’impresa per certi versi leggendaria e irripetibile. E’ impensabile che con un arco temporale così ampio, all’interno della discografia dei Kiss ciascuno non stili una personale classifica di gradimento, i propri album preferiti, i minori o addirittura gli scadenti. Ed è fisiologico che la band non abbia potuto mantenere un livello costante ed ininterrotto per cinque decadi e per un numero di album andato in doppia cifra, considerando che quando Paul Stanley e Gene Simmons hanno cominciato ad indossare quel make-up avevano poco più di vent’anni ed oggi ne hanno oltre 70. Detto tutto ciò, il pacchetto Kiss non è mai stato solo musica, è lievitato esponenzialmente col passare del tempo e già all’altezza del 1978 si componeva anche di cinema (Kiss Meets The Phantom Of The Park) e di merchandising ad un livello al quale nessun’altra band sul pianeta era mai arrivata, Beatles compresi. Esattamente questo aspetto ha esasperato molti, anche tra i loro stessi fan ed ha consolidato poco a poco una corrente di pensiero che smitizza i Kiss, attribuendo loro una grande sagacia a livello di marketing ma assai meno sostanza come musicisti e songwriters. Fuori dal circuito hard rock i Kiss sono da sempre quelli di “I Was Made For Loving You”, a parte quella canzone e poche altre, a parte le maschere e la linguaccia XL di Simmons, non sembra rimanere granché. Dentro il giardino del rock ‘n’ roll invece le fazioni sono stanzialmente due, la Kiss Army (nome anche del loro fanclub), indisponibile ad individuare il benché minimo calo in tutta la parabola artistica della band, e coloro i quali ritengono che esistano e siano esistiti centinaia di musicisti infinitamente più meritevoli dei Kiss, i quali tuttavia non hanno saputo o voluto maneggiare in modo altrettanto cinico e opportunistico i meccanismi del music business, “limitandosi” ad incidere ottima musica senza occupare militarmente i Media e i grandi magazzini come hanno fatto i Kiss per decenni.
Dal canto loro, il Demone, il Bambino delle Stelle, l’Uomo dello Spazio e il Gatto hanno saputo contribuire a rendersi sgradevoli. Simmons non è mai stato un pozzo di simpatia, avido come Ebenizer Scrooge (senza una redenzione finale) e spavaldo come un tronista della De Filippi; Frehley ha dilapidato molto del suo talento in alcol e comportamenti stupidi ed infantili; Stanley e Criss (batterista dei Kiss fino al ’79) hanno condiviso l’ingordigia o comunque non hanno saputo arginarla, tanto che ad un certo punto la bilancia fotografava due piatti esattamente equipollenti: arte da una parte, business dall’altra. L’espediente di far figurare nei credits degli album, nelle foto, sulle copertine, nei videoclip, musicisti che poi di fatto non avevano realmente contribuito ai dischi in uscita, sostituiti da turnisti, session e carneadi che avevano lavorato nell’oscurità, era oggettivamente irritante. Non si aveva mai la certezza di chi fossero veramente quell’assolo, quel riff, quella rullata. Attorno ai capistazione Stanley e Simmons c’era una ragnatela di musicisti che si avvicendavano alla bisogna ed il pubblico non ne veniva correttamente informato. La sfrontatezza delle dichiarazioni d’amore per i soldi e le donne di Simmons faceva legittimamente pensare che la musica sarebbe tranquillamente potuta passare in secondo piano, e a tratti è accaduto, visto che Stanley ha dichiarato che negli anni ’80 si sentì abbandonato dal sodale sputafuoco, affaccendato in mille affari tranne che nei Kiss. Il travaso dai ’70 agli ’80 neppure fu un periodo facile, nonostante la band venisse dal suo picco commerciale e dal momento di maggior successo in assoluto; l’ascesa irresistibile della discomusic coinvolse anche i Kiss, che accettarono di farsi contaminare pur di rimanere a galla e non essere spazzati via da un fenomeno che pareva dovesse persino schiacciare il rock. “Dynasty” e “Unmasked” recano tracce di quel sound e più in generale di un flirt con il pop che andava nella direzione di ammorbidire la crudezza dei Kiss (crudezza sempre relativa, tutto sta a capire se all’epoca appartenevi al team dei Motorhead e dei Judas Priest oppure a quello degli Abba e dei Bee Gees). A ben vedere non è vero nemmeno questo, o perlomeno non del tutto; “Dynasty” è sempre stato identificato tout court con “I Was Made For Lovin’ You” (se possibile la canzone più insulsa di tutta la carriera dei Kiss), e pure “Sure Know Something” e “Dirty Livin'” sono una chiara genuflessione al trend imperante, ma dentro quell’album c’era dell’altro, affatto in sintonia con la discomusic, a cominciare da “2,000 Man”, una cover dei Rolling Stones che – se posso permettermi (si tappino le orecchie i fan degli Stones) – è persino migliore dell’originale. “Charisma” e “Hard Times” sono due pezzi discreti e francamente l’eco della disco non va granché oltre la facciata A del disco, anche se questo non basta ad elevare “Dynasty” al rango di top album dei Kiss, relegandolo per invece ad una sufficienza stiracchiata.
capitolo II
Non sono pochi là fuori quelli convinti che in fondo, stringi stringi, i Kiss senza tutto il circo del trucco e di spettacoli pirotecnici mastodontici (che hanno fatto storia) forse non avrebbero guadagnato quello status che li ha trasformati in una band larger than life. I metallari più intransigenti salvano magari il primo album omonimo, “Creatures Of The Night” (perché è il disco più duro e più metal dei Kiss), “Destroyer”, perché è probabilmente il loro lavoro più famoso ed elaborato (perlomeno da un punto di vista produttivo), poi si tratta di apprezzare singole canzoni qua e là, magari serbando la convinzione inconfessabile che i Kiss siano tutto sommato una band sopravvalutata. A livello più o meno subliminale c’è anche l’aggravante del far soldi. I Kiss sono stati anche questo, una macchina per far soldi, e tale tratto si è rivelato talmente ingombrante da aver messo in secondo piano (o in dubbio) la loro statura artistica. C’è chi gliela riconosce a denti stretti, anche se sarei curioso di sapere quanti dischi tra quei 20 abbiano effettivamente ascoltato da cima a fondo i loro detrattori. Sarei anche curioso di sapere in che modo le riedizioni farlocche degli album dei Manowar 25 o 30 anni dopo, i costumi dei Ghost o degli Slipknot, l’allure di guru hipster esistenzialista di Nergal, i topless e le autoreggenti sdrucite di Taylor Momsen, i puzzle, la birra e il poncho griffati Iron Maiden non sarebbero parte della stessa strategia di marketing, volta a guadagnare visibilità e, in ultima analisi, denaro, naturalmente contestualizzata nel proprio tempo storico. Si, i Kiss hanno fatto soldi a palate e la loro scientifica dedizione nell’accumularli e non accontentarsi mai è persino stucchevole, ma stiamo ai dischi perché la cartina di tornasole del talento di una band è la sua musica. Se i soldi sono arrivati senza buona musica gli allocchi sono gli acquirenti (e per un periodo lungo 50 anni!).
A onor del vero gli album dei Kiss eccellenti dall’inizio alla fine non sono moltissimi, pur con delle eccezioni quasi ogni loro release contiene una (o più) delle loro migliori canzoni di sempre, una (o più) delle peggiori, alcune discrete, altre dignitose ma di mestiere o financo trascurabili. In che quantità siano presenti le une e le altre varia di album in album ma lo schema si ripete con una certa circolarità. Di lavori davvero ed interamente mediocri me ne vengono in mente solo un paio, direi “Hot In The Shade” e “Carnival Of Souls”; nel primo, esageratamente lungo (ben 15 tracce per un’ora di musica), i Kiss erano completamente spenti e bolliti, nel secondo cercavano disperatamente di aggrapparsi ad un treno in corsa, quello dell’alternative rock e/o del grunge che dir si voglia. Per “The Elder” non vale affatto lo stesso discorso, piaccio o non piaccia la musica di “The Elder” era nelle corde dei Kiss, non era qualcosa di così distante ed eterogeneo, come la disco del 1979 o la flanella del 1997. Su “The Elder” i Kiss giocano a fare i Bowie, i Queen, gli Elton John della situazione, con la pomposità derivante dal loro smisurato ego e dal fattore “soundtrack” (poiché l’album quello doveva essere, una colonna sonora). Si tratta di ascolti che verosimilmente i Kiss facevano nel loro tempo libero, artisti che apprezzavano e stimavano, affatto lontani dal loro sentire (anche per quanto riguarda l’aspetto “glamorous”).
Dopo lo sfolgorante debutto nel ’74, in appena un biennio i Kiss pubblicano altri due dischi, “Hotter Than Hell” (’74) e “Dressed To Kill” (’75), non necessariamente perfetti ma che rasentano la perfezione. Stanno costruendo il mito e lo fanno con la dedizione di minatori indefessi. Poi “Destroyer” (’76) diventa il loro titolo più celebrato ed è senza ombra di dubbio un fantastico lavoro ma paradossalmente è tra i loro meno personali. Frehley lamentava proprio questo, non lo ha mai sentito veramente appartenere alla band, piuttosto a Bob Ezrin, il produttore, al quale i Kiss si erano affidati quasi fideisticamente perché li proiettasse nel mondo dei numeri uno, nel Valhalla del rock, anche a costo di snaturarsi un po’. Prova ne sia che “Rock And Roll Over” (’76) ricalibra il tiro, riportando i Kiss ad una dimensione più congeniale, assai più in sintonia con le release pre “Destroyer”. “Love Gun” (’77) è un capolavoro, al pari (per me) del primo album, uno dei vertici assoluti dei Kiss. Seguono i 4 album solisti, la cui ideale classifica di qualità dipendesse dal sottoscritto sarebbe la seguente: 1) Frehley, 2) Stanley, 3) Criss, 4) Simmons. E invece sarà proprio il vinile del Demone quello che venderà di più, era il suo il personaggio più amato dei quattro. 39 canzoni in totale, non dico estemporanee ma quasi, inevitabile che nel mucchio non ci fosse anche qualche calo, ma d’altra parte stupisce quanto invece il buono sia buono. Con tutta evidenza, era davvero un momento di grazia per la band.
capitolo III
Dopo aver raggiunto quella vetta arriva un po’ di riflusso. Il film dei Kiss (Phantom) va malaccio, la band quasi se ne vergogna e infatti viene accantonato in fretta e furia come un peccato da espiare. “Dynasty” (’79) e “Unmasked” (’80) cercano di far pace col pubblico accattivandosene le simpatie e lisciandogli il pelo, quindi con un avvicinamento alla moda del momento: la disco di John Travolta. Ora, se “Dynasty” non è un album particolarmente riuscito (ma nemmeno disastroso), “Unmasked” invece è proprio un bel disco, con molte buone canzoni dove non ottime (“Talk To Me”, “Tomorrow”, “Torpedo Girl”, “Two Sides Of The Coin”, “She’s So European”). Che fosse un periodo più sperimentale, incerto e di stop ‘n’ go da parte dei Kiss lo si evince anche dal successivo “The Elder” (’81), un altro passo falso (nel quale però stavolta i Kiss credevano) che li costringerà a cospargersi nuovamente il capo di cenere. Per molto tempo i brani di quell’album non hanno trovato posto nei live set della band, quasi un’ammissione di colpa. La rinascita avviene con “Creatures Of The Night” (’82), che in realtà a livello di vendite e riscontri viene lì per lì abbastanza trascurato, ma che col tempo invece si guadagna un suo status di cult, innanzitutto perché meritato – si tratta di un album egregio – poi perché tutta la rabbia e la frustrazione dei Kiss arriva forte e chiara attraverso la puntina dello stereo, “Creatures” è indubbiamente il loro graffio più duro e la conclusiva “War Machine” (cantata da Simmons) è forse la canzone più cattiva di tutto il repertorio dei Kiss. “Lick It Up” (’83) inaugura una nuova fase, per rinnovarsi ed entrare appieno nella nuova decade i Kiss si giocano la carta dello smascheramento. Di per sé forse quella novità non sarebbe bastata ma la notevole qualità del disco fa il resto, anche se non è più il tempo dei fragorosi e rutilanti Kiss degli anni ’70. Paradossalmente, per quanto gli ’80 siano considerati la decade vanesia dell’edonismo, i Kiss si leccano un po’ le ferite, surclassati nel fragore e nel make-up dal rutilante hair metal americano, che arriva ad attecchire pure in Europa e del quale i Kiss possono certamente considerarsi tra i padrini e gli ispiratori.
Non scorre facile il decennio, Simmons è in giro impegnato a guadagnare soldi in ogni modo possibile oltre la musica. Sarà il solo Star Child ad occuparsi della sopravvivenza artistica dei Kiss in questa fase (perché per quella commerciale oramai erano già sistemati a vita). E così “Animalize” (’84) e “Asylum” (’85) rientrano nella categoria degli album discontinui dei Kiss (con il secondo nettamente migliore del primo); dischi di sussistenza, comunque capaci di contenere hit pregevolissime (“I’ve Had Enough”, “Heaven’s On Fire”, “Thrills In The Night”, “King Of The Mountain”, “Who Wants To Be Lonely”, “Tears Are Falling”, “Uh! All Night”) ma non di mantenere il medesimo livello di intensità dall’inizio alla fine. Nel 1987 “Crazy Nights” ribalta le cose, i Kiss partoriscono inaspettatamente un altro dei loro capisaldi irrinunciabili, per quanto mi riguarda, un album incessante dalla prima all’ultima traccia, come “Kiss”, come “Destroyer”, come “Love Gun” e come “Creatures Of The Night”. Lo scotto di quello sforzo creativo però viene pagato immediatamente con il successivo “Hot In The Shade” (’89), sgonfio ed anonimo nonostante uno sbarramento di fuoco di songwriter da aristocrazia del rock, da Desmond Child a Vincent Poncia da Michael Bolton a quel certo Tommy Thayer dei Black ‘N Blue che poi entrerà in pianta stabile nei Kiss. Per onestà intellettuale devo anche dire che “Rise To It”, incaricata di aprire l’album, è un piccolo gioiello maledettamente ingannevole, perché se l’album fosse stato tutto così avrei alzato la paletta del 10.
capitolo IV
“Revenge” (’92) rimette in carreggiata i Kiss, un buon disco, robusto come non si sentiva da tempo. Il feedback è positivo, anche se i Kiss sembrano già fuori tempo massimo. Ma esattamente come i meme su quegli animali come il calabrone, la cui struttura alare in relazione al peso non è adatta al volo, ma lui non sapendolo vola lo stesso (sgraziatamente), anche i Kiss non si pongono minimamente il problema che il tempo li abbia seminati da qualche parte in fondo alla clessidra, e proseguono imperterriti a macinare album e tour come fossero eterni. “Carnival Of Souls” (’97) tocca uno dei punti più bassi della loro carriera, non è la loro cup of tea e si sente, ma decidono di provarci ugualmente. Va male, talmente tanto male che l’unico modo per riprendersi è qualcosa di eclatante, da poter strombazzare ai quattro venti. E cosa ci può essere di sensazionale in casa Kiss? Ovviamente la reunion con Ace (e Peter Criss). “Psycho Circus” (’98) non è una reunion manco per niente, Frehley suona in appena due tracce e si limita a presenziare nel videoclip, ma il mondo questo non lo sa e ci crede (o fa finta di crederci, a questo punto oramai eravamo tutti piuttosto grandicelli e vaccinati in merito all’andazzo Kiss). “Psycho Circus” non è un disco fantastico e non è un disco pessimo, è molto ambizioso e questa grandeur in qualche modo contagia l’ascoltatore; la sua title-track è clamorosa, tra i pezzi più anthemici dei Kiss, e la scaletta offre qualche altro buon momento da tenere a mente (“Within”, “You Wanted The Best”, “Raise Your Glasses”). Insomma, sta in piedi e le quotazioni dei Kiss si riprendono dopo i cerotti di “Carnival Of Souls”. “Sonic Boom” (’09) e “Monster” (’12) ci mettono un bel po’ ad arrivare, non sono più i tempi di uno, se non due dischi all’anno; si tratta di due lavori di testimonianza, certo non verranno ricordati né come capolavori né come indispensabili ma è lodevole il fatto che a 40 anni di distanza dal debutto e con parecchie rughe in più i Kiss siano riusciti a pubblicare materiale dignitoso, di cui non dovranno vergognarsi dopo 10 o 20 anni. Verosimilmente la loro carriera in studio dovrebbe esser finita (il condizionale è d’obbligo), almeno questo è stato più volte dichiarato, e se così fosse si potrebbe tirare un sospiro di sollievo per non aver dovuto fare i conti con qualche brutto pasticcio.
I pasticci sono stati altri, come il non rinnovo del contratto a membri storici ed amatissimi (si veda il povero Peter Criss, congedato senza tanti rimpianti nel 2004 e sostituito da Eric Singer), a testimonianza dello strapotere cinico di Simmons e Stanley nelle dinamiche interne ai Kiss. O le dichiarazioni fantascientifiche sul prosieguo dei Kiss oltre i Kiss, un po’ come per i Lynyrd Skynyrd, solo che in quel caso la band originaria si era estinta in un incidente aereo purtroppo imprevedibile, mentre qui sarebbe un avvicendamento di ultracorpi pianificato a tavolino, come se il nome dei Kiss di per sé bastasse a reggere e metabolizzare qualunque sconvolgimento. Il fatto che abbiano messo il proprio marchio ovunque, su praticamente qualunque oggetto commerciabile (fumetti, cosmetici, bambole, preservativi, bare, pantofole, mutande, mazze da golf, etc) ha fatto automaticamente scattare un meccanismo di rigurgito in molti; una band così frivola, opportunista, avida, poteva anche essere integerrima, rigorosa e coinvolta nella musica intesa come arte, passione? Effettivamente non ci sono termini di paragone, non così grandi e non così prolungati nel tempo. I Kiss sono un unicum e in quanto tale potrebbero essere “unici” anche nell’aver portato avanti i due binari in parallelo. Il che non significa che ogni nota partorita dai Kiss sia oro che luccica, ma nemmeno il contrario. I Sex Pistols saranno stati la grande truffa del rock ‘n’ roll, i Milli Vanilli del pop, i Kiss hanno allora incarnato il grande equivoco dell’hard rock, si torna alla domanda iniziale: musica fatta business o business mascherato (è proprio il caso di dirlo) da musica? Per quanto mi riguarda la perdita di Ace Frehley è stato l’inciampo più grave per i Kiss, non solo Ace era e rimane un chitarrista sopraffino e di grandissimo gusto (i suoi lavori solisti e con i Frehley’s Comet lo hanno certificato), ma le sue composizioni in ogni disco dei Kiss che lo ha visto coinvolto si segnalano sempre per essere le migliori, quelle con una marcia in più, con buona pace dell’invidiosissimo Simmons. In un bilancio finale e complessivo, una messe di album così farcita a fronte di ben poche battute d’arresto o eclatanti “fregature” testimonia che il denaro, per quanto adorato e coccolato dai Kiss, non è in fondo riuscito a prevalere sullo spirito originario, quello di una band formata da quattro ragazzi che certamente sognavano il successo, la gloria e la fama, ma che come tutte le band esordienti era motivata innanzitutto dal desiderio di far conoscere la propria musica al mondo.
Discografia Relativa
- 1974 – Kiss
- 1974 – Hotter Than Hell
- 1975 – Dressed To Kill
- 1976 – Destroyer
- 1976 – Rock And Roll Over
- 1977 – Love Gun
- 1978 – Ace Frehley
- 1978 – Paul Stanley
- 1978 – Peter Criss
- 1978 – Gene Simmons
- 1979 – Dynasty
- 1980 – Unmasked
- 1981 – Music From “The Elder”
- 1982 – Creatures Of The Night
- 1983 – Lick It Up
- 1984 – Animalize
- 1985 – Asylum
- 1987 – Crazy Nights
- 1989 – Hot In The Shade
- 1992 – Revenge
- 1997 – Carnival Of Souls: The Final Sessions
- 1998 – Psycho Circus
- 2009 – Sonic Boom
- 2012 – Monster
4 Comments
Giovanni
Apprezzo molto quello che scrivi, e anche se i Kiss non mi hanno mai affascinato troppo, ricordo con affetto quando comprai il 45 giri di “Beth”, penso costasse 1000 lire !!!
Marco Tripodi
Grazie Giovanni!
Michele
Analisi ben scritta, mi trovo d’accordo quasi su tutto, sicuramente sulla prevalenza dell’aspetto business rispetto alla musica, anche se li giudico comunque preparati, hanno avuto spesso la fortuna di incontrare bravi produttori, non sono sicuro invece che metterei Ace in cima alla classifica delle mie preferenze, ma sono dettagli. Grazie, è stato un piacere da leggere
Marco Tripodi
Grazie a te Michele, è altrettanto un piacere per me sapere che hai dedicato del tempo all’articolo e lo hai apprezzato.