Tra la fine dei Carcass e il ritorno dei Carcass, quattro chirurghi di chiara fama hanno avviato carriere parallele scoprendosi freakettoni con i camici a zampa d’elefante!
Contenuti:
1. Tra mucopurulenze intestinali verrucose e fiumane di altri liquami corporali si andava poco a poco diffondendo del patchouli. C’era di che sospettare…
2. Una stella nera in un cielo azzurro
3. Pierino Amott una ne pensa e cento ne fa
4. Il distillato di seventies rock puro al 99,99% di Steer
5. Country n’ roll!
1 – Tra mucopurulenze intestinali verrucose e fiumane di altri liquami corporali si andava poco a poco diffondendo del patchouli. C’era di che sospettare…
Una delle cose più divertenti dell’ascoltare musica metal è stato assistere al post Carcass, alla diaspora dei musicisti della band più corrotta, marcia e incrostata dell’intera scena, dopo essersi liquefatta come i tanti cadaveri divorati dai vermi descritti nei testi dei dissezionatori di carogne di Liverpool. Dal 1987 al 1996 la Carcassa ha esplorato tutti i manuali di patologia clinica esistenti nelle biblioteche ospedaliere del globo, ha descritto ogni possibile processo flogistico, dermatologico, ematico, neurologico, allergologico, ginecologico, otorino-laringoiatrico esistente in natura, sviscerandolo in ogni senso, letteralmente. Le loro trattazioni hanno rasentato la laurea honoris causa e i loro album quella in Metallo Estremo l’hanno guadagnata con un 110 e lode assegnato dal popolo borchiato, con tanto di applauso accademico, standing ovation e stretta di mano.
Che le cose potessero maturare in una direzione diversa lo si era già capito strada facendo (…il patchouli). Passi “Necroticism” (1991), che pur traghettando la band dal grind al death e con un tasso tecnico decisamente in crescita, era pur sempre una mazzata colossale; passi “Heartwork” (1993), che aggiungeva ulteriore personalità alla proposta del combo e ammantava il sound di una cupezza, di una disperazione e di un cinismo pari solo allo spirito gigeriano riportato in copertina. Ma “Swansong” (1996) non è passato, è stato un semaforo rosso sbattuto in faccia ai die hard fans con le borchie e i bisturi fin dentro le mutande. Un album decisamente “contro”, contro la casa discografica (la Columbia, per la quale i Carcass avevano firmato subito dopo “Heartwork”) che non lo voleva, perlomeno non con le vocals sempre abrasive di Walker (e il diniego a tale richiesta costrinse la band a far uscire il disco per Earache), contro la critica che lo accolse a pallettoni, contro il metal, il cui codice comportamentale al capitolo 127 comma 2 barra bis recita testuale: “se indurisci sei figo, se alleggerisci sei un poser, vuoi fare i soldi, scalare le classifiche, avere le fighe col perizoma nella Jacuzzi e i macchinoni in garage. Muori!“. In pratica un disco contro il muro. E infatti è stato l’epitaffio dei Carcass. Glorioso? Secondo alcuni si (io sono alcuni). Il canto del cigno? Beh, oddio, Walker un cigno… si fa fatica eh.
II – Una stella nera in un cielo azzurro
Tempo di pubblicare una raccolta di chicche ed amenità varie con Kennedy scoperchiato in primo piano (“Wake Up And Smell The…Carcass”) che i nostri sciolgono la tribù e scalpitano per intavolare ognuno i rispettivi progetti alternativi. Ah, sospirata libertà…essere i Carcass era speciale ma tante cose non le potevi fare e invece adesso si dischiudeva un universo di infinite possibilità. La salma in putrefazione intraprende tre strade diverse. Walker, Owen e Regadas (un Carcass per il rotto della cuffia, avendo acciuffato la band solo su “Swansong”) sono quelli che proseguono più coerentemente la strada che stava portando la band madre lontano, troppo lontano, rispetto ai rancidi lidi di partenza. Reclutano l’ex Cathedral Mark Griffiths come seconda chitarra e mettono in piedi il progetto Blackstar (dal titolo dell’omonima canzone contenuta in “Swansong”).
Che roba è? Beh, si tratta di una possibile rilettura dei Carcass sfrondati dall’estremismo sonoro e calmierati all’insegna del rock n roll col retrotreno saldamente ancorato nei Seventies. Walker finisce col fare quello che la Columbia gli aveva insistentemente chiesto appena un anno prima, ripulire le corde vocali e provare a cantare “clean”. Sui Carcass non ci poteva stare, ma adesso si, quel monicker non opprimeva più col suo portato badass. Il blues compare prepotentemente nel tessuto ordito dai quattro e ci si concede persino il lusso del sassofono. “Barbed Wire Soul”, per ironia della sorte, sembra proprio il disco che la Columbia aveva chiesto a Walker e compagni, qualcosa di più radiofonico, alleggerito, meno minaccioso e più modaiolo. Pare un dispetto, fatto sta che i Blackstar vogliono essere padroni del proprio destino e si prendono (ora) tutte le responsabilità del caso.
L’album non riesce ad andare oltre lo status di “carino”, è assolutamente gradevole e sfizioso all’ascolto – soprattutto se inquadrato nel contesto del “oddio, prima questi erano i Carcass!” – tuttavia lascia un senso di indefinitezza, di incompiutezza, di incertezza sulla reale consapevolezza di sé da parte della band. Sembra il primo passo verso qualcosa, il primo mattone di una nuova e futura creatura da mettere a fuoco con più precisione e incisività. Quel futuro però non si concretizzerà mai, anche perché nel ’99 Ken Owen viene devastato da un’emorragia cerebrale che lo tiene per 10 mesi in coma e gli toglie per sempre la possibilità di tornare dietro una batteria (crudissima ironia della sorte se si pensa a quante emorragie hanno cantato i Carcass). Agli atti, l’ultima testimonianza dei Blackstar rimane la cover dei Thin Lizzy di “Running Back” apparsa su una compilation di cover di artisti della Peaceville. I Thin Lizzy, non so se mi spiego… per dire dove si stava andando a parare.
III – Pierino Amott una ne pensa e cento ne fa
Michael Amott dai Carcass se ne era già andato nel ’93, all’indomani di “Heartwork”. Un anno dopo, mentre i Carcass non hanno ancora deciso cosa fare da grandi, sta già pubblicando il primo album degli Spiritual Beggars, anticipando di fatto quello che sarà il trend in casa Carcass dopo lo split. Il debutto omonimo è quello che più focalizza quale doveva essere il sentire nella band di Liverpool, passata l’ubriacatura adolescenziale per il gore, lo splatter e la macelleria; roots rock, anni ’70, psichedelia, flower power, persino variazioni jazzy sul tema hard rock. Amott d’improvviso pare uno svedese trapiantato a Woodstock, a tal punto che “Yearly Dying”, che apre la scaletta, pare una sorta di rilettura di “Foxy Lady” di Hendrix. L’album è pur sempre un esordio, distante dalle raffinatezze che poi sbocceranno lungo la discografia della band, ma nonostante tutto detta già le regole, mostra la via, fa intuire quale sarà il cammino. Assai diverso dal death grind dei Carcass.
Il problema di Amott è che è posseduto dal demone del presenzialismo, è un tarantolato della performance, un pubblicatore seriale compulsivo di album, e così, solo considerando i pochi anni che ci separano dal volgere del millennio, arrivano altri tre dischi a firma Spiritual Beggars, tre come Arch Enemy, oltre alle ospitate sui lavori degli Armageddon del fratello Christopher e dei brutalissimi Deranged. 6 anni, 7 dischi, 2 band diverse, ed una qualità che in questo periodo sembra non conoscere battute d’arresto. E’ il magic moment di Amott, quello in cui ogni cosa che fa va bene, ogni riff che tocca sa di grandioso, ogni scelta che compie a livello di band members è azzeccata (Spice e Johan Liva saranno veramente tanta roba nelle rispettive line-up). I guai arrivano con gli anni 2000, quando sia gli Spiritual Beggars che gli Arch Enemy conoscono una inevitabile flessione, dovuta in primis al calo di radicali liberi di Amott, in secundis a scelte scellerate di formazione (la Gossow al posto di Liva, e Spice sostituito dal Grand Magus JB Christofferson).
Lasciamo gli Arch Enemy al proprio destino (costellato di pessime produzioni sempre più plasticose, spuntate e di maniera, culminate con l’approdo della fata turchina Alissa White-Gluz in formazione) e rimaniamo ai Beggars, dei quali il capolavoro viene comunemente individuato in “Ad Astra” (’00), ultimo platter con Spice dietro i microfoni. Personalmente gli preferisco “Another Way To Shine”, vera vetta creativa della band a mio giudizio ma, tralasciando le preferenze soggettive, quello che accade un po’ più oggettivamente alla band è che pure nel loro caso Amott si avvita in una serie di produzioni a nastro (seppur subordinate agli Arch Enemy, ritenuto il progetto primario dal chitarrista) che non sempre corrisponderanno ad una reale ispirazione di fondo. Non che escano delle vere e proprie schifezze a nome Spiritual Beggars (come invece accaduto con gli Arch Enemy) ma, soprattutto dopo il 2000, le release iniziano a differenziarsi poco l’un l’altra, inanellando un po’ pigramente una serie di cliché sempre più omogenei e ripetitivi, e svuotandosi progressivamente di contenuti. La via è quella di uno stoner corposo, denso e grumoso, a tratti davvero massiccio, ma i riff di Amott dicono sempre meno, creano sempre meno atmosfera e la sensazione è quella di uno stoner rock fine a se stesso, quasi “tanto per” tenere un piede negli anni ’70 mentre con l’altro si martella ai limiti del (bubblegum) death metal.
IV – Il distillato di seventies rock puro al 99,99% di Steer
E Bill Steer? Che fa il pennellone in tutto questo? Dopo Napalm Death e Carcass – due molossi di brutalità che pochi possono vantare nel proprio curriculum – il chitarrista di madre scozzese e padre inglese parte per gli antipodi, a cercare il blues con l’armonica e la slide guitar in Australia. Quando fa ritorno ai bastioni di Albione fonda i Firebird, forse l’espressione più genuina di aderenza al verbo anni ’70 tra tutte quelle partorite dagli ex Carcass. Se i Blackstar erano un ibrido tra l’anima carcassiana e un nuovo possibile corso, se gli Spiritual Beggars all’ascolto restituivano quel non so che di posticcio e artefatto che Amott ha sempre avuto, i Firebird di contro trasmettevano un sentore di cristallina sincerità che rendeva il loro sound il più verace fra tutti quelli proposti dagli ex Carcass. Tutti fulminati sulla via dei ’70, ma Steer con i suoi Firebird (assieme ad un altro ex Cathedral, Leo Smee, e a Ludwig Witt, già batterista dei Beggars e poi anche dei Grand Magus) pareva venir fuori proprio da quel decennio; l’omonimo debutto del 2000 (già uscito nel ’99 in Giappone) ricorda a tutti gli effetti una produzione di quegli anni e non una rivisitazione ex post.
Pure Steer comincia ad assommare dischi su dischi, pubblicandone 6 nell’arco di un decennio, e ad oggi non è chiaro se la band sia “disbanded” o semplicemente in pausa criogenica. Analizzando nel complesso il corpus dei Firebird si nota un pregevolissimo blues rock sanguigno ma delicato al contempo, con vibrazioni ancestrali e suggestioni che rimandano direttamente a band come Humble Pie, Cream, Free e Grand Funk Railroad. Personalmente non sono mai rimasto convintissimo della voce di Steer e ho sempre avuto il dubbio che con un altro cantante più robusto ed istrionico il sound ne avrebbe potuto guadagnare ulteriormente, ma fatto sta che la ideale battaglia nell’arena del rock anni ’70 sulla distanza l’ha vinta Steer; i Blackstar hanno gettato la spugna e i Beggars di Amott sono stati travolti come accadrebbe ad un Palmigiano Leggiano di Nanchino contro un DOP prodotto tra Parma e Reggio Emilia.
V – Country n’ roll!
Ma c’è ancora tempo per un’ultima svisata in chiave rock n roll, anzi country n roll. Perso tra i tour dei Brujeria con lo pseudonimo di El Cynico, ospitate su album di deathsters e grinders, e artwork creati per altre band in attività, Walker nel 2006 trova il tempo per un progetto estemporaneo che sa molto di divertissement, i Jeff Walker Und Die Fluffers, con i quali rilegge in chiave estrema brani celebri del repertorio blues e country. Lo sostengono nell’impresa Owen e Steer, ma anche Billy Gould dei Faith No More, Ville Valo degli Him, Nicke Anderson degli Hellacopters, Nick Holmes dei Paradise Lost, Shane Embury dei Napalm Death (già sodale nei Brujeria) e Danny Cavanagh degli Anathema, un bel circo variopinto per un album altrettanto sgangherato (a partire dalla scanzonata copertina fumettosa disegnata da Larry Welz, celebre negli States per la biondona Cherry Poptart). Il disco non è nulla di serio ma neppure vuole essere una carnevalata, Walker apprezza il materiale che rispolvera (fra gli altri Johnny Cash, Hank Williams, Kris Kristofferson, John Denver, Neil Young), lo coverizza con amore e rispetto pur apportando la sua personale firma sopra, fatta di un background inequivocabilmente “estremo”.
Il resto è storia, tranne Amott oramai troppo innamorato dei suoi giocattoli gommosi per abbandonarli, i Carcass si riuniscono a furor di popolo. Owen è fuori gioco per le conseguenze della malattia e si limita a fare da mascotte alla band, mentre Steer e Walker hanno ripreso a girare il mondo accolti come degli eroi ovunque. Pubblicano musica che è un piacere sentire, anche se, per adesso, è poco più che un copia/incolla di quanto già ascoltato a metà anni ’90. Di certo la fregola Seventies sembra aver conosciuto una battuta d’arresto ma è lì nel cassetto, silente e sorniona, pronta ad essere rispolverata qualora le cose dovessero (ri)mettersi male.
Discografia Relativa
- 1994 – Spiritual Beggars (Spiritual Beggars)
- 1996 – Another Way To Shine (Spiritual Beggars)
- 1996 – Swansong (Carcass)
- 1996 – Black Earth (Arch Enemy)
- 1997– Barbed Wired Soul (Blackstar)
- 1998 – Stigmata (Arch Enemy)
- 1998 – Mantra III (Spiritual Beggars)
- 1999 – Burning Bridges (Arch Enemy)
- 2000 – Firebird (Firebird)
- 2001 – Deluxe (Firebird)
- 2003 – No. 3 (Firebird)
- 2006 – Welcome To Carcass Cuntry (Jeff Walker Und Die Flüffers)