Secondissima fila del rock, provenienti dal paese meno glamour (musicalmente parlando) del Regno Unito, che invece del rock è spesso stato l’epicentro. La storia degli scozzesi Heavy Pettin è mesta e sfortunata, non ce l’hanno fatta, non ce l’hanno mai fatta… anche se ad un certo punto sembrava stessero per farcela. Invece era il destino che faceva mobbing. Tre album in poco più di un lustro, almeno due dei quali necessari in ogni buona discografia hard ‘n’ heavy che si rispetti. E prima o poi doveva arrivare qualcuno a restituire un po’ di onore e dignità a questi working class heroes…. eccomi qua!
Contenuti:
1. Lettin loose (1976 – 1983)
2. Rock ain’t dead… ’till it’s dead (1984 – 2018)
1 – Lettin loose
La Scozia non è il primo paese che viene in mente per il rock, semmai per le spade roteanti e le teste rotolanti di Highlander o per le eroiche ed impavide imprese di William Wallace. E però, più o meno di nicchia, più o meno elitari, di band ed artisti scozzesi ce ne sarebbero, dai Nazareth ai The Almighty, dagli Strangeways ai Big Country o a Fish, solista e cantante dei Marillon, e poi i Gun, i portatori di cresta The Exploited, i progster Pallas, i Cocteau Twins, i meravigliosi Simple Minds, i Primal Scream, The Jesus and Mary Chain, solo per citare i primi che mi vengono in mente, ognuno declinato nelle sue livree ora più rock, ora più punk, ora più goth, ora più “post”, etc. All’elenco vanno aggiunti gli Heavy Pettin di Glasgow, nati attorno al 1981 come una fenice dalle ceneri di una precedente band, i Weeper, solitamente assegnati al circuito proto NWOBHM. Vi militavano Gordon Bonnar (chitarra), Brian Waugh (basso), Gary Moat (batteria). Questo trio si completa con Steve “Hamie” Hayman al microfono e Punky Mendoza come secondo chitarrista. Il monicker viene mutuato dagli Ufo di “No Heavy Petting” del 1976, i quali a loro volta si rifanno ad un avviso nel quale era facile imbattersi all’epoca nelle toilette pubbliche britanniche (l’amoreggiamento “pesante” non era evidentemente gradito). Il primo demotape risale allo stesso anno di formazione del gruppo e comprende tre tracce. Basta quella cassettina a solleticare l’interesse della famelica Neat Records, la label d’eccellenza della NWOBHM, che propone subito un contratto agli scozzesi. Il primo vagito sotto etichetta è il singolo “Roll The Dice” (1982). Curiosamente non apparirà poi sull’esordio degli Heavy Pettin, la cui scaletta invece ospiterà il lato B di quel 7 pollici, “Love Times Love”. Tuttavia “Roll The Dice” diventa a sua volta un trampolino per salire di livello e così la corazzata Polydor individua e si aggiudica il talento degli Heavy Pettin. La band è in rampa di lancio, non ha ancora pubblicato un full-length vero e proprio che ha già l’occasione di partecipare al Reading Festival del 1983 assieme a Black Sabbath, Marillion, Stevie Ray Vaughan, Suzi Quatro, Anvil, Magnum, Mama’s Boys e Lee Aaron. Scusate se è poco.
Fuoco alle polveri, con un simile biglietto da visita (ben due etichette alle spalle e live set di richiamo) gli Heavy Pettin possono finalmente dimostrare tutto il proprio valore su vinile, esce “Lettin Loose” (1983). Per la produzione si scomoda addirittura la Regina in persona… no, non Elisabetta ma Brian May, chitarrista dei Queen, che sino a quel momento non aveva mai prodotto album per nessuno se non per se stesso. Un onore sbalorditivo. Con una copertina magari non fenomenale ma forte di un lettering orientaleggiante che aggiunge mistero a quelle tapparelle appena aperte da sinuose mani femminili, la scaletta offre circa 39 minuti di eccellente hard ‘n’ heavy il cui primo immediato riferimento sono i Def Leppard, all’epoca all’altezza di “Pyromania”, pubblicato nove mesi prima. “Lettin Loose” semmai è invece il corrispettivo dell’esordio dei Leppard, “On Through The Night”; un sound ancora radicato nella NWOBHM ma che già risente della dolcezza e dell’eleganza d’Oltreoceano, spiccatamente attento alle melodie che tuttavia non risparmiano chitarre sempre graffianti ed una accentuata grinta generale. Un perfetto bilanciamento di sensualità ed aggressività che rende questo debutto davvero notevole. Bonnar e Moat rappresentano il versante più heavy, tradizionalista e britannico a livello di sound, mentre Mendoza e Haimie guardano all’America dove però l’album non sfonda (nonostante un tour con i Motley Crue), secondo la regola dalle poche eccezioni – tipo i Leppard – che vede le band britanniche che giocano al gioco dello zio Sam (Tobruk, Lionheart, Airrace, etc) accolte con un po’ di sufficienza dagli yankee. In qualche intervista gli Heavy Pettin addossano delle responsabilità anche alla label per non aver poi spinto troppo convintamente negli U.S.A., a questo si sono uniti parecchi cambi di management, una confusione generale acuita persino dalla proposta di cambiare nome alla band (dopo “Rock Ain’t Dead”) per il mercato americano bacchettone. Punky Mendoza ricorda come anche Gene Simmons si interessò alla questione puntualizzando che il nome di un gruppo è un aspetto assai importante se si parla di marketing… ma per Simmons Heavy Pettin era esattamente ciò che ci voleva! Quindi promossi.
2 – Rock Ain’t Dead… ‘Till It’s Dead
Pubblicato l’album, nel 1984 la band segue Kiss e Ozzy Osbourne nei rispettivi tour britannici, mentre lavora al successore di “Lettin Loose”. “Rock Ain’t Dead”, sempre per Polydor, prosegue sulla falsariga dei Def Leppard, ed esattamente come il percorso intrapreso dalla band di Sheffield rivela uno slittamento ancora più marcato verso gli Stati Uniti ed il loro airplay. L’album è più morbido, più patinato, più sontuoso, complessivamente un po’ più chic. Ce lo dice già la magnifica copertina fotografica. Hamie modifica un po’ il suo approccio al microfono, attestandosi su tonalità più alte. Ci si può tranquillamente accodare agli Heavy Pettin, disporsi in fila indiana e lasciare che lo stendardo reale di Scozia (giallo con il leone rampante rosso) garrisca anche sopra le nostre teste. Qualitativamente parlando “Rock Ain’t Dead” è assolutamente all’altezza del suo predecessore, si tratta solo di capire se a livello di gusto personale si preferisce il taglio più arrembante del debutto o quello più aristocratico di questo prezioso secondo capitolo. Grazie a tracce come “Sole Survivor” o “China Boy” io credo di propendere per quest’ultimo, l’intera track-list è davvero ad altissimi livelli ma, come detto, sono solo gusti. La lezione dei Leppard è degnamente metabolizzata e a quel tipo di sentore si aggiungono anche delle eco alla Saxon – che già da “Power and The Glory” avevano iniziato a sentire certe sirene americane e proprio nell’85 approdano a “Innocence Is No Excuse”, l’album che svolta abbastanza vistosamente in quella direzione – e di campioni della radiofonia come Journey e Foreigner. Del resto, oltre a Def Leppard e Saxon, furono diverse le band nate come prettamente NWOBHM a tentare la scalata al grattacielo dell’AOR, vedi Tygers Of Pan Tang, Praying Mantis, Hologram (ex Holocaust), Saracen, solo per citare qualche esempio. Quando a Brian May viene chiesto un bilancio dell’esperienza produttiva di “Lettin Loose” egli risponde che il divertimento tutto sommato è stato 50 e 50, doversi relazionare con manager ed emissari dell’etichetta a vario titolo è stato frustrante e ha tolto il benessere derivante dalla registrazione dell’album e dal contatto con i ragazzi della band, verso i quali May esprime solo parole di elogio, anche come strumentisti. In consolle per la produzione di “Rock Ain’t Dead” c’è Mark Dearnly (AC/DC, Krokus), anche se prima di lui è una fiumana di rinunce ed occasioni perse, da Mike Stone (Asia), a Beau Hill (Ratt) e Lance Quinn (Bon Jovi, Lita Ford).
Pure stavolta gli stage che gli Heavy Pettin calcano sono di grande valore, poiché ad esempio suonano spalla a spalla con Nazareth, Venom, Metallica, Wishbone Ash, Savage Grace, Running Wild, Pretty Maids e Warlock al Metal Hammer Fest tedesco di Loreley. Dopo aver raccolto tutti i trionfi possibili per una carriera che sembra solo e soltanto poter andar meglio, gli Heavy Pettin hanno un’occasione d’oro (un’altra), concorrere per la nomination alla partecipazione dell‘Eurovision Song Contest del 1987. La Polydor si galvanizza, sente già profumo di soldi a livello mondiale, con conseguente abbattimento dello steccato hard rock in direzione di lidi pop che significano forzieri su forzieri di banconote fruscianti. La band si presenta all’appuntamento con la storia con “Romeo”, 5 minuti di canzone di rara bruttezza (Mendoza anni dopo la definirà “musica da mal di denti“). La nomination viene fallita miseramente e la Polydor non la prende per niente bene. Parte del materiale del terzo album della band era già stato registrato (con Geoff Downes come producer), ma le trattative con la Polydor si fanno estenuanti, la label va in una direzione, la band tira in quella opposta. Dalle stelle alle stalle, gli Heavy Pettin vengono scaricati e la loro sdolcinata canzoncina da teenager innamorati della propria compagna di banco viene impacchettata e riconsegnata al mittente.
Ci vuole un bel po’ perché l’album giunga a compimento, affidato ora alle mani produttive di Tony Taverner e Adrian Lee. Mendoza e Waugh però mollano e la band si scioglie. Bisogna aspettare il 1989 perché la FM Revolver consegni negli scaffali dei negozi “Big Bang”, nonostante gli Heavy Pettin di fatto non esistano più. Non è un granché, alterna buoni momenti ad altri meno, più banali; una fotografia tutto sommato fedele dello stato di forma sia mentale che fisico degli Heavy Pettin al momento di andare in studio. Nel disastro generale almeno Hamie sembra potersi giocare una rivincita aspirando a prendere parte al super gruppo losangelino Dirty White Boy partorito dal chitarrista Earl Slick, ma anche qui alla fine gli verrà preferito l’ex Giuffria David Glen Eisley. Quando gira male, gira male. Hayman non si dà per vinto, una ne fa e cento ne pensa, mettendo in piedi vari progetti. Se ne va in America e pubblica un album chiamato “Saints And Sinners” sotto il monicker Chyld nel 1995. Tre anni dopo ricostituisce gli Heavy Pettin e nel 1998 danno alle stampe una raccolta di demo. La band sembra poter ripartire, il 2000 e l’anno del live “Heart Attack”, poi di nuovo stallo, quindi altre due compilation celebrative (“Pettology” nel 2006 e “Prodigal Sons nel 2007), poi la linea dell’encefalogramma si fa piatta fino al 2017 quando, ai membri originali Hamie, Punky Mendoza e Gordon Bonnar, si uniscono Jez Parry (basso) e Michael Ivory (batteria) per un concerto di ritorno in pista (il primo dopo 25 anni) in patria. In realtà Mendoza se ne tira subito fuori ma in soccorso dei rigenerati Heavy Pettin giunge l’ex Gun Dave Aitken. Nel 2018 seguono vari show, compreso un mini tour di 6 date nell’intero Regno Unito scandito a colpi di sold-out tra Nottingham, Londra, Edimburgo e Glasgow. Certamente il flagello pandemico esploso sul finire del 2019 ha nuovamente messo in crisi le velleità di sopravvivenza della band, che dal suo primo giorno di vita ha fatto a cazzotti con le avversità, prendendone più di Rocky Balboa al primo incontro con Apollo ma senza poi assaporare una rivincita come accaduto sul ring allo stallone italiano; anzi, gli Heavy Pettin sono decisamente rimasti sempre in credito con il cielo.