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Great White

RED LIGHT SHARKS

Nessuna introduzione “istituzionale” per questa retrospettiva, solo un grandissimo grazie ad una band che amo infinitamente e che è diventata una colonna sonora della mia vita. Un atto dovuto averli su The Elder’s Orient. Signori, ma soprattutto signore attente alle chiappe, il Grande Bianco è in acqua, libero e in cerca di prede.

Contenuti:

1. Come la volpe Dante diventò uno squalo bianco e un fulmine venne dall’oscurità ad agitare le acque dell’oceano (1981 – 1986)
2. La golden age del Grande Bianco (1987 – 1991)
3. Tempi moderni, psicosi, flanella e quella voce interiore che non puoi soffocare: il ritorno alle radici rock (1992 – 2001)
4. Great White oggi: tragedie fuori e dentro la band, il primo disco senza Russell, due monicker quasi identici (2002 – 2013)

1 – Come la volpe Dante diventò uno squalo bianco e un fulmine venne dall’oscurità ad agitare le acque dell’Oceano

Nel 1981 il Carcharodon Carcharias, volgarmente noto come pescecane, sciaguattava del tutto innocuo e senza alcuna consapevolezza della propria grandezza nelle acque antistanti Los Angeles, facendosi addirittura chiamare Dante Fox. Accoglieva in formazione i giovanotti Jack Russell e Mark Kendall, i quali unirono le proprie forze a partire dal ’77, dopo essersi conosciuti ad un concerto, dandosi i nomi di Highway, poi Livewire, poi Wires… e poi arrestarono Russell.

Otto anni di galera comminati e la storia prese tutta un’altra piega (Russell ad oggi ha totalizzato oltre una cinquantina di arresti). Kendall fece gruppo con un futuro discepolo della band di Ozzy Osbourne (Don Costa) e un futuro discepolo di Blackie Lawless (Tony Richards). Il terzetto audizionò diversi cantanti, tra i quali pure John Bush, finendo con lo scegliere una certa Miss Lisa Baker di cui – ahinoi – purtroppo non abbiamo una diapositiva. Ed ecco i Dante Fox pronti a calcate i palchi di L.A. e dintorni. La Baker però durò poco, poiché ben presto spiccò il volo verso gli Exciter di George Lynch, e i Fox si ritrovarono ad un tavolo a votare per il rientro di Russell in formazione (nel frattempo scarcerato dopo 18 mesi). In due su tre alzarono la mano e Russell ce la fece.

La scelta di adottare il nome Great White la si deve al manager assunto in quel periodo, Alan Niven, il quale lo derivò da dei ragazzini che, vedendo Kendall mettere fuori la capoccia dall’auto in corsa, dissero che pareva stesse arrivando uno squalo (complice l’ossessione per il bianco di Kendall, bianchi erano i suoi capelli, la sua Fender Telecaster, la sua tuta, le sue scarpe). Nell’82 è tempo di riallocarsi a Huntington Beach, Orange County, e l’anno dopo viene già dato alle stampe “Out Of The Night”, EP di 5 tracce legato mani e piedi ai Dokken, poiché Don “due Kappa” lo co-produce con Michael Wagener (a sua volta producer dei Dokken) e partecipa pure ai cori. Niven lo licenzia con la sua Aegean Records e lo fa pompare il più possibile in radio, col risultato che i Great White iniziano a suonare sempre più spesso dal vivo. Conseguenza del gran lavorio è il debutto omonimo su EMI nell’84, con proficui tour al seguito di Whitesnake e Judas Priest.

Ma la EMI è ugualmente insoddisfatta dei risultati ottenuti e termina il contratto con la band (prima però l’album viene ristampato come “Stick It”, con un artwork diverso e 5 bonus track, tra le quali la zeppeliniana “Rock n Roll”, che da subito contribuisce ad alimentare i paragoni col sacro Dirigibile, grazie anche al timbro vocale di Russell molto simile a quello di Plant). Il lavoro dei ragazzi non è affatto malvagio, ma è ancora lontano da quello che sarà il loro trademark. C’è molta più aggressione hard che malinconia blues ed eleganza soul nel rock dei Great White, la personalità dei nostri fatica per ora ad emergere e il disco, ancorché carino e molto concreto, non spicca rispetto ai tanti altri prodotti coevi.

Dopo la pubblicazione indipendente di “Shot In The Dark” (’85) è curiosamente di nuovo la EMI, o meglio, la sua costola Capitol, a riprendersi in carico la band, rimasterizzando il disco nel 1986 e rimettendolo sul mercato ad un livello più capillare. Michael Lardie è entrato in line up e stavolta è direttamente Don Dokken a portarsi lo Squalo Bianco on stage, annusando il successo che di lì a poco sarebbe arrivato con “Once Bitten… “(’87). “Shot In The Dark” inizia a definire più precisamente la fisionomia della band, focalizza il loro rock, energico e sensuale al contempo, abbandona gli orpelli di derivazione più sleazy glam, andando a scolpire una personalità più raffinata, elegante, bluesy, zeppeliniana, a tratti persino delicata, senza per questo perdere un briciolo di elettricità. Il retro copertina, sebbene adotti già il tipico lettering privo di spaziature che caratterizzerà i vinili dei nostri, vede nelle foto quattro ceffi con un look ancora piuttosto variopinto (e, nel caso di Lorne Black decisamente glam, mentre Russell sfodera una rivoltella minacciosa, Audie Desbrow gioca di stecca e Kendall imbraccia semplicemente la sua chitarra). Pezzi come “Face The Day” (cover dei The Angels) hanno già l’effige del repertorio classico della band, mentre diversi anni dopo i Saxon di “Solid Ball Of Rock” si ricorderanno sin troppo bene del riff che introduce “Shot In The Dark”.

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II – La golden age del Grande Bianco

“Once Bitten…” è il disco della consacrazione, sempre per Capitol. Oltre un milione di copie vendute al traino di “Rock Me”. I Great White adesso hanno un loro stile, definito, peculiare, qualcosa per il quale essere riconoscibili. Rock sopraffino, un’ugola spettacolare e magnetica come quella di Russell, un’alchimia nostalgica e potente generata dai musicisti alle sue spalle (tra i quali, a registrazione finita, subentra Tony Montana al basso), la minacciosa e onnipresente pinna dello squalo bianco, belle donne, ruvidità contrapposta a dolcezza e i sapori delle spiagge da sogno americane. E il merito del sound va anche a Kendall e Lardie, che co-producono l’album con Alan Niven. L’artwork nella sua semplicità è tra i più belli della storia del rock americano. Tracy Martinson è la modella ritratta in copertina (oggi – mi si dice – mamma a tempo pieno a Seattle).

“…Twice Shy” (’89), naturale e coerente seguito di “Once Bitten…” che lo preannunciava pure linguisticamente, consegna definitivamente i Great White alla storia. Con questo album incidono il loro lavoro più rappresentativo, un doppio platino certificato con il quale essere riconosciuti, citati ed osannati. Ancora Capitol, ancora riferimenti sessuali sin dalla copertina (con la pinna “fallica” dello squalo che promette sconquassi ormonali). Sul drappo rosso sesso vengono adagiati i corpi della Martinson in coppia con Bobbie Brown, la quale un anno dopo sarà la “cherry pie” degli Warrant, e che sposerà Jani Lane (ma che pare abbia generosamente offerto fette di “torta” pure a Matthew Nelson, Mark McGrath, Jay Gordon, Stevie Rachelle, Rick Marty, Tommy Lee e a parecchi altri avventori del Sunset Boulevard dell’epoca).

L’album è un capolavoro, niente di più e niente di meno, la scaletta mette in fila un gioiello dopo l’altro, realizzando il bilanciamento perfetto di tutte le componenti del sound dei Great White udite sin qui. Rock, lussuria, malinconia e nostalgia inondano i solchi. “Heart The Hunter”, “Hiway Nights”, “Mista Bone” sono canzoni indimenticabili già dopo il primo ascolto e, ciliegine sulla torta (aridanghete con la torta!), abbiamo la madre di tutte le ballad strappacuori – “House Of Broken Love” – e la title track, cover immensa di Ian Hunter dei Mott The Hoople. Come bonus track per i mercati giapponesi e britannici la sgangherata e divertentissima “Wasted Rock Ranger”. Di tour in tour i nostri devono interrompere quello in Canada causa ricovero di Russell per troppo alcol (è solo l’inizio….), in compenso però l’11 novembre 1989 espugnano la Wembley Arena a Londra (da cui scaturirà il “Live In London”).

Al giro di boa dei ’90 i Great White arrivano come dei campioni del mondo, detentori in carica del titolo. L’onere e l’onore di bissare “…Twice Shy” avrebbe schiacciato i musicisti più scafati, è quasi fisiologico quindi che “Hooked” venga da subito etichettato come un album inferiore al suo predecessore e venda meno copie in termini assoluti, sebbene commercialmente si difenda comunque egregiamente (oro stavolta anziché platino). L’artwork fece nuovamente discutere, ancora scultoree nudità muliebri e addirittura una revisione censoria che inabissò le parti più bollenti della modella arpionata in mare aperto. Da notare per altro come una componente dominante blu si sostituisca al rosso di “…Twice Shy”. Prosegue la tradizione di inserire cover nella scaletta (The Angels e The Small Faces stavolta). Il sound è leggermente meno spumeggiante ma sempre caldissimo. I Great White scivolano un po’ nella “maniera”, raffinando a più non posso il proprio marchio di fabbrica ed assemblando un lotto di canzoni (sempre e comunque) molto buone, eleganti, piene di paturnie rugiadose, debitrici in egual misura della lezione dei migliori bluesmen dello zio Sam, degli Zeppelin, degli AC/DC e di un pizzico di spiritualità soul.

III – Tempi moderni, psicosi, flanella e quella voce interiore che non puoi soffocare: il ritorno alle radici rock

Nel ’92 vanno a far visita a Norman Bates, al Rose Motel per l’esattezza (forse Norman l’ha venduto e il nuovo proprietario l’ha ribattezzato così in onore di sua moglie o di sua madre, chi può dirlo). L’artwork, con tutti i suoi neon, non può non richiamare l’iconografia di Psycho, ed il film di Hitchcock riecheggia già nel titolo dell’album. Il sesto lavoro della band è anche l’ultimo ad uscire per Capitol, ed è l’ultimo in molti altri sensi; l’ultimo grande lavoro dei Great White (tutto ciò che verrà pubblicato dopo non riuscirà ad eguagliare il periodo magico 1984-1992), l’ultimo album prima dei sentori grunge/alternative che il decennio dei ’90s porterà in dote. “Psycho City” però annusa qualcosa, che il vento sta cambiando; è inconsapevolmente più irrequieto, ombroso, uggioso. Regala canzoni stupende ma sembra il tramonto che prelude alla notte, quella che calerà sulle vendite della band, sul suo rapporto contrattuale con la label, sugli equilibri e le dinamiche interne alla line up, e conseguentemente sul Rose Motel.

Ci mettono ben 4 anni i Great White per capire l’aria che tira, guardarsi attorno e prendere a modo loro delle contromisure. “Psycho City” è stato più una delusione (di vendite) che un successo. Il risultato di questo processo di autoanalisi è “Sail Away”. I ragazzi hanno compreso che non sembra esserci più spazio per il loro lascivo rock ‘n’ roll intriso di blues e umori dolci/amari. Né hanno le carte in regola per darsi tout court al grunge (e meno male!). Una nuova ripartenza può essere allora quella che passa attraverso composizioni perlopiù acustiche, intimiste, anche pop, dal tessuto lirico meno facilone, più intenso, che riescano a mantenere quel tracciato nostalgico e malinconico che appartiene ai Great White, ma che allo stesso tempo vedano defalcato l’apporto elettrico più ruggente, così come quella diabolica tensione data dal blues. Ne viene fuori una serie di canzoni delicate, minimali, eleganti, celestiali, dove sopravvive a stento la parvenza dello squalo più vecchia maniera (“Momma Don’t Stop”, “Alone”, “Gone With The Wind”). “Sail Away” è un compromesso, denso ma al contempo “trattenuto”. Come può essere sparita tutta d’un colpo la voglia di fare rock ‘n’ roll? Perso il contratto con Capitol, i Great White licenziano l’album per Zoo Records e con questa scommessa “salpano” verso nuovi mari.

Alan Niven, il manager storico con lo Squalo Bianco fin dall’inizio, lascia il team; tutto va male, la flanella ha spazzato via il rockarolla più genuino e festaiolo, le vendite ed i riscontri non sono più quelli dei fastosi anni ’80, l’ispirazione creativa però neppure. Russell, Lardie, Kendall e Desbrow hanno provato a riciclarsi come combo meno elettrico e più sofisticato, sull’onda di corde acustiche, ma pure “Sail Away” non ha elargito grandi soddisfazioni e la band ha smarrito la propria identità. Perdere per perdere, meglio farlo con stile, ed ecco che “Let It Rock” annuncia fin dal titolo le intenzioni belligeranti dei nostri, che si riprendono la più verace fisionomia rock ‘n’ roll rimettendo tutti i jack al loro posto, ovvero negli amplificatori. Riprendano a graffiare le chitarre, il mondo vada in malora e lo Squalo Bianco torni a infestare le acque una volta ancora. Nel 1995 la Imago licenzia uno dei dischi più irsuti e scorbutici dei Great White, i ragazzi non solo sono convintamente tornati a far compagnia ad Elvis e Jerry Lee Lewis, ma hanno anche rimesso il blues nell’angolo; siamo all’opposto di “Sail Away”, il rock comanda ma l’eleganza i Great White ce l’hanno di indole e se ci nasci non la puoi perdere, neanche quando sei spettinato.

Da bravi operai del rock (extralusso però) i Great White riprendono a macinare musica ed album. Tre anni dopo “Let It Rock” arriva “Can’t Get There From Here”. Dalla seconda metà dei ’90s inizia una sorta di riscossa sorda della band, che pubblica cinque lavori, non senza difficoltà (dovute principalmente alla tragedia del Rhode Island del 2003 e, in tempi più recenti, allo split in due del marchio Great White, con Russell da una parte e tutti gli altri da quella opposta). Dischi su dischi, nessuno dei quali è un capolavoro ma tutti ampiamente dignitosi, gradevoli, contenenti qualche pezzo sopra la media, onorevoli e tenacemente in difesa di un monicker che nei lustri precedenti ha mietuto vittime a destra e a manca con una facilità imbarazzante.

Si tratta di una sorta di Great White “minori” ma sempre in palla, che non devono vergognarsi di niente, nessun platter orrido pubblicato o strane svolte di cui pentirsi (come accaduto ad altri colleghi magari), la sicurezza di avere oramai una reputazione solida e indistruttibile (nonostante a volte i Great White ci abbiano provato…) e il piacere di fare musica senza avere più nulla da dover dimostrare, solo per il gusto di farla e di omaggiare il rock ed il proprio pubblico, fedele attraverso le generazioni. E che non siano più i tempi dei dischi d’oro e di platino appare evidente anche facendo una semplice riprova su internet, che è la chiave del mondo, la cartina di tornasole della fama e della notorietà; provate a digitare su un motore di ricerca “Great White” e scoprirete che prima di imbattervi in una loro foto dovrete mandar giù decine e decine di squali veri, in carne, ossa e fauci. Che siano così pochi a ricordarsi ancora degli incontenibili Great White di “…Twice Shy”, il disco che negli anni ’80 non potevi non avere, insieme ai “Hysteria”, “Permanent Vacation”, “Stay Hungry” e “Slippery When Wet”?

“Can’t Get There From Here” è un album particolarmente rilassato ed estivo che traghetta la band in un tour d’altri tempi, addirittura con Ratt e Poison. Una rilassatezza ed una serenità però solo apparenti poiché Kendall decide di lasciare il gruppo per fondare i Train Station. Anche McNabb e Desbrow lasciano (quest’ultimo si unisce ai Lynch Mob). Lardie è meno ultimativo e si prende solo una pausa di riflessione. Siamo al tutti contro tutti, o meglio, tutti contro Russell, visto che a lui si imputa la grave dipendenza da sostanze e alcol, e parallelamente pure la poco felice situazione finanziaria della band cade sotto la lente d’ingrandimento. Non si capisce chi licenzi chi, ma i Great White sostanzialmente implodono dall’interno. Tempo un anno e due su tre tornano all’ovile (non Desbrow), ma stavolta è Russell a non prenderla bene, annunciando la fine dei Great White in concomitanza con un concerto al the Galaxy Theatre di Santa Ana, California, il 31 dicembre 2001. Instancabile, Russell vuole il monicker e Kendall, dando vita ai Jack Russell’s Great White.

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4 – Great White oggi: tragedie fuori e dentro la band, il primo disco senza Russell, due monicker quasi identici

Al The Station, a Warwick, cittadina nella contea di Kent (Rhode Island), il 20 febbraio 2003 muoiono circa cento persone, spettatori del concerto dei Jack Russell’s Great White (compreso il chitarrista Ty Longely), a causa di un incendio divampato dopo lo scoppio di fuochi d’artificio dentro il locale (grande idea!). Già il 22 luglio dello stesso anno la band ritorna per la prima volta on stage dopo il fattaccio, in onore di Longely e delle altre vittime, raccogliendo generosamente fondi per le famiglie. Russell però è nel tunnel della droga, dell’alcol e di qualsiasi altra cosa sia umanamente assumibile; entra in riabilitazione abbandonando i “Fake White” – come li definirà dispregiativamente – al proprio destino, ovvero quello di esibirsi dal vivo senza di lui, fino al 2007.

Un anno prima però la magica line up Russell, Kendall, Lardie, McNabb e Desbrow si riunisce (i musi lunghi durano poco in casa Great White), lavorando a “Back To The Rhythm”, della cui pubblicazione si occupa Frontiers Music. Pare niente ma sono trascorsi ben otto anni dall’ultimo album di inediti e di cose nel mezzo ne sono accadute, quasi mai belle e positive. I Great White definiscono lo stile del disco come qualcosa di vario ed eclettico che al contempo include uno sguardo al passato del gruppo, fino addirittura ai suoi esordi (si ritorna al “ritmo”). Nonostante i buoni propositi di riappacificazione, McNabb dura lo spazio di un album nei rinnovati Great White (si accaserà poi nei Dokken). Il che ci porta a “Rising”, platter che impiega solo due anni ad uscire rispetto a “Back To The Rhythm”, licenziato per l’Europa sempre da Frontiers (Shrapnel in America).

I ragazzi ancora non lo sanno ma “Rising” sarà l’ultimo lavoro con Russell dietro il microfono. Missato, prodotto, “ingegnerizzato” da Lardie – oramai definitivamente intronato in sala consolle – con il contributo di tutti i band mates, e con due cover degli Stones inserite nell’edizione per i mercati extra americani (a ribadire la classicità del background dei Great White), l’undicesimo parto della casa è un tipico sforzo a marchio Grande Bianco. Come detto, non sono più i tempi di “…Twice Shy”, e si sente, anche se sporadiche scintille di classe e signorilità rock illuminano ancora i solchi dei bagnini di Orange County. Se il livello delle release negli anni 2000 fosse questo ci si starebbe dentro a stento, consci che il meglio il quintetto (a cui si è unito Scott Snyder al basso) lo ha già ampiamente dato in un glorioso passato fatto di fulmini sugli oceani, fauci di spielberghiana memoria e donnine sexy con le collanine di denti di squali al collo.

Russell accumula problemi di salute, finendo sotto i ferri per una perforazione intestinale. Dapprima Jani Lane lo sostituisce, poi passa il testimone a Terry Ilous degli XYZ e succede il patatrac. Tra 2010 e 2011 avviene di tutto, Russell rispolvera la sua personale visione dei Russell’s Great White, con ovvie perplessità da parte dei Great White senza genitivo sassone. Due band con lo stesso nome creerebbero solo confusione nei fans (e soprattutto nelle loro tasche e nei loro portafogli). Nel 2013 ci pensa un giudice della Corte Federale a sancire un accordo tra le parti. Russell cede definitivamente pretese e diritti sul monicker a Lardie, Kendall e Desbrow, ricevendo in cambio l’autorizzazione dei tre a proseguire col nome Jack Russell’s Great White (e quindi che cacchio avrebbero risolto?! Si sono semplicemente dati il permesso reciproco). Quel che è certo è che Ilous diventa a tutti gli effetti il cantante ufficiale dei “Great White senza Russell“. Ne frattempo nel 2012 è uscito “Elation”, il primo (e per ora unico) disco in studio dei Great White con un cantante diverso da Russell.

L’euforia è data dall’essere ancora vivi e vegeti, pronti a battagliare nell’arena (del rock) con un lotto di pezzi che sembra tornare a pigiare con più vigore sull’acceleratore dell’adrenalina rispetto ai vari “Back To The Rhythm” e “Rising”; e probabilmente anche dal fatto di dover affrontare la pugna senza la “zavorra” di Russell, una voce fenomenale, per certi versi unica, ma che faceva pagare sul versante caratteriale (e psicotropo) lo scotto di questa eccellenza. “Elation” è un buon album, inutile girarci intorno, ed è 100% Great White; o meglio, lo sarebbe, se non fosse per il piccolo particolare che senza il demonio Russell dietro il microfono un album dei Great White non è veramente un album dei Great White fino in fondo. Quella sinergia non potrebbe replicarla manco Robert Plant in persona e la band non pare essersene resa conto, relegandosi al ruolo di squisito ensemble di musicisti che rimandano – un po’ tristemente – ai Great White. Quasi una cover band di lusso. Non c’è nessuna reale colpa da imputare al gruppo se non quella genetica, costitutiva, escatologica, di non poter esistere senza Russell, evidentemente croce e delizia (per sempre) dello Squalo Bianco.

E di Russell che possiamo dire? Che come versione alternativa dei Great White non ha ancora ufficialmente pubblicato niente, e che gli unici riferimenti possibili, oltre alla band madre, sono i suoi due lavori solisti, “Shelter Me” (1996) e “For You” (2002), nessuno dei quali particolarmente esaltante a parere di chi scrive. Nonostante tutto, i Great White senza Russell deficitano di un ingrediente fondamentale, insostituibile, per quanto buona possa essere la restante parte della ricetta; e Russell, dal canto suo, senza songwriter talentuosi e strumentisti deliziosi alle sue spalle – come quelli che lo hanno accompagnato per un viaggio durato oltre 30 anni – non pare avere la forza necessaria a ricreare quelle atmosfere magiche ed irripetibili che hanno attraversato la discografia del Grande Bianco. Ma come sempre nel rock ‘n’ roll biz gli interpreti che hanno fatto la Storia hanno anche dimostrato una capacità di rendersi conto delle situazioni ed agire secondo buon senso indirettamente proporzionale al grandissimo dono ricevuto da Madre Natura. E questo è quanto.

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Discografia Relativa

  • 1984 – Great White (aka Stick It)
  • 1986 – Shot In The Dark
  • 1987 – Once Bitten…
  • 1987 – Recovery: Live! / On Your Knees (live / covers)
  • 1989 – …Twice Shy
  • 1990 – Live In London (live)
  • 1991 – Hooked
  • 1992 – Psycho City
  • 1994 – Sail Away
  • 1996 – Let It Rock
  • 1998 – Great Zeppelin / A Tribute To Led Zeppelin (cover)
  • 1999 – Can’t Get There From Here
  • 2002 – Recover (cover)
  • 2002 – Thank You… Goodnight! (live)
  • 2007 – Back To The Rhythm
  • 2009 – Rising
  • 2012 – Elation
  • 2013 – 30 Years / Live From The Sunset Strip (live)

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