Quando si parla di Doro i giorni di gloria sono quelli degli Warlock (’80) o quelli del vigoroso ritorno al metal classico dei 2000. I ’90 invece sono gli anni dell’hard rock “opportunistico”, del basso profilo “intimista”, del gotico, dell’elettronica “strappona” e dell’industrial. Tutti tentativi discografici andati così così, prove di sopravvivenza, episodi che secondo qualcuno hanno snaturato il cuore borchiato di una Regina unanimemente eletta testa coronata del Metallo. Ma siamo sicuri sicuri che sia una lettura corretta di quel decennio di musica irrequieta che ha visto Doro curiosa, sperimentatrice, più genuina e coraggiosa che in altri frangenti della sua ultra trentennale carriera?
Contenuti:
1. Il trionfo, l’agonia e la forza ritrovata (1987 – 1989)
2. Il rischio di finire alla Playboy Mansion, con le orecchie a punta in testa ed un pon pon rosa sul sedere (1990 – 1991)
3. Ich Will Alles (1992 – 1999)
4. In Freiheit Stirbt Mein Herz (2000 – 2012)
1 – Il trionfo, l’agonia e la forza ritrovata
“Triumph And Agony” (1987) raggiunge il disco d’oro in Germania e la posizione 80 nella Billboard 200 degli album più venduti negli States, “All We Are” e “Für Immer” vanno in heavy rotation su MTV (addirittura lo zio Sam sotto assedio della lingua tedesca). In tour gli Warlock affiancano nomi come Dio e Megadeth. Niente male per la volitiva ragazzina innamorata di T. Rex, Sweet e Slade, che cantava nei modesti Snakebite nel buio di qualche umido ed angusto scantinato di Düsseldorf. Il quarto album degli Warlock è il loro più importante in termini di vendite e costruzione del mito, eppure paradossalmente è anche l’ultimo capitolo discografico di quella storia, il canto del cigno. Succede che l’assetto del gruppo perda gli ultimi due elementi tedeschi (Niko Arvanitis e Michael Eurich), acquisendo per 4/5 il passaporto americano. Il quinto album è comunque in lavorazione, ma nel frattempo Dorothee Pesch perde i diritti sul nome della band, detenuti dal vecchio manager (la guerriglia legale perdurerà fino al 2011, quando la cantante con gli occhi da husky si riapproprierà finalmente del monicker).
Come è noto ai più, “Force Majeure” (1989) sarebbe dovuto quindi essere il nuovo lavoro degli Warlock (sebbene pesantemente rivisti in formazione rispetto agli esordi) ed invece diventa il primo di Doro. Che poi suppergiù è la stessa cosa, vuoi perché l’identificazione tra la frontwoman e quel marchio è come la trinità di Padre, Figlio e Spirito Santo, vuoi perché anche a livello grafico e di songwriting Doro fa pochissimo per rimarcare una differenza netta col passato. Anzi, c’è proprio un bell’adesivo appiccicato in copertina che richiama a chiare lettere gli Warlock, hai visto mai che un potenziale acquirente si fosse distratto e non avesse colto che quel blu sparso ovunque era sempre lo stesso di “Triumph And Agony”, e pure quella tostissima bionda in copertina era sempre la stessa disegnata su entrambe le copertine. Persino il nuovo logo echeggia vistosamente il precedente. Continuità totale insomma, per non generare ansie. E però Doro un minimo azzardo lo tenta. In apertura di scaletta mette una cover. La band scelta sono i Procol Harum di “Whiter Shade Of Pale” (pezzo simbolo degli anni ’60), qualcosa di parecchio distante dal profilo Warlock. Doro non se ne preoccupa granché e decide di provocare il pubblico con un incipit così inaspettato.
Il resto dell’album si attesta su binari pienamente coerenti con “Triumph And Agony “(l’album verso cui Doro rimane più debitrice). E’ abbastanza facile cogliere le eco neppure troppo celate di tracce come “East Meets West”, “Metal Tango”, “Kiss Of Death”, “I Rule The Ruins”. Doro va platealmente in cerca di un bis, per confortare i fans orfani degli Warlock. Si devono sentire a casa, in famiglia, è tutto come prima, non c’è nulla da temere. Oltre ad essere un buon album, “Force Majeure” è anche l’ultimo dove Doro canta alla “vecchia maniera”. Il suo assalto al microfono è veemente, spesso urlato, spinge sui toni alti e non modula la voce interpretando in modo più suadente le composizioni (come invece accadrà tra qualche disco); questa è ancora la Doro post adolescenziale di “Burning The Witches”, “Hateful Guy” e “Metal Racer”, un concentrato di grinta. Certo, si fosse trattato per davvero del quinto episodio degli Warlock, “Force Majeure” sarebbe stato il meno incisivo del lotto, perlomeno in rapporto all’eccellenza degli altri quattro, tuttavia rimane un più che discreto lavoro, magari interlocutorio, visto il suo carattere “conservativo”, ma comunque molto gradevole, e con diverse perla nel carniere (“Save My Soul”, “Angels With Dirty Faces”, “I Am What I Am”). Come “Triumph And Agony”, il disco viene registrato e prodotto negli USA. Sono gli States la nuova patria di Doro, anche se la terra delle opportunità non accoglie con eccessivo entusiasmo l’album. Le cose continuano a girare meglio in Europa.
II – Il rischio di finire alla Playboy Mansion, con le orecchie a punta in testa ed un pon pon rosa sul sedere.
La line-up si sfalda definitivamente, gli Warlock non esistono più di fatto, oltre che legalmente. Va da sé che l’unica strada possibile è una decisa sterzata solista. Niente più band e musicisti con i quali condividere decisioni, sarà tutto a carico di Doro, oneri e onori. Se vuoi farti strada nel rock a stelle strisce ti ci vuole un trampolino di lancio adeguato e Doro punta il trampolino più glitterato, sborone e mediaticamente amplificato che ci possa essere: Gene Simmons (in piena fregola da talent scout e producer con Ezo, Keel, House Of Lords, Black ‘n Blue, Angel, Wendy O. Williams, Smashed Gladys, Silent Rage, Legs Diamond, etc.). Figuriamoci, una faina come Simmons sente subito il dolce tintinnare dei dobloni nel forziere, come Zio Paperone nel mitico deposito a Paperopoli. Acchiappa Doro sotto la sua ala protettrice (e speriamo solo sotto quella) e stila un contrattino con clausole visibili solo mediante microscopio a scansione. Mette a disposizione di Doro il meglio del meglio del team produttivo dei Kiss, porta la ragazza in California, le offre qualche gelato e le fa girare uno dei video più sensuali mai fatti dalla ex metallarissima Doro (assieme ad una copertina maliziosa ed ammiccante, realizzata dal fotografo di Playboy Philip Dixon). Lo stile musicale stavolta cambia. Doro si sposta su lidi hard rock, segnatamente a trazione yankee, concede qualche centimetro di epidermide in più a livello di marketing, lasciando in disparte l’aggressività ed il temperamento denim & leather. La scaletta vanta cinque pezzi a firma Simmons e quattro cover (comunque scelte da Simmons), “Rock On” dei Black ‘N Blue, “Only You” dei Kiss di “The Elder”, “I’lle Be Holding On” di Gregg Allman (magari l’avete anche sentita nella soundtrack di Black Rain di Ridley Scott) e “I Had To Much To Dream” degli Electric Prunes (sempre di ascendenza sixties, come i Procol Harum).
Simmons e Doro sono gasatissimi ma hanno fatto i conti senza l’oste, ovvero il pubblico. Il profilo della Pesch è sempre stato un altro, quello della metal singer vigorosa, indomabile, fiera e generosa. Questo improvviso scivolamento in territori squisitamente femminili e ammiccanti, di classe per carità, ma comunque dolci e zuccherosi, non rappresenta il suo spirito più veritiero. E sono certo che gli scatti per quella copertina da coniglietta di Hefner le saranno costati tantissimo in termini di autostima. A parità di cm, Doro sta più dalle parti di Udo Dirkschneider che di Kylie Minogue, e questa sua estrema femminilizzazione (nel look e nel sound) si traduce in qualcosa di artefatto e insincero. A Simmons – una volta tanto – non riesce il miracolo. Limitandosi strettamente all’album, “Doro” non è affatto un lavoro deludente; è vero, snatura un po’ le coordinate stilistiche della Pesch (pure il logo abbandona le forme warlock-esque), ma di per sé è un capitolo valido e comunque appagante della sua discografia. Se non altro offre una sfumatura diversa. Bisogna correre ai ripari però, il prossimo album potrebbe già diventare quello decisivo per il prosieguo della carriera solista. A marzo 1991, dopo appena 6 mesi, la Vertigo (divisione della Polygram), eterna label di Doro e della sua ex band (a partire da “Hellbound”), pubblica lo split celebrativo “Rare Diamonds”, dove assomma “il meglio di” Warlock e Doro solista, includendo due tracce live (la titletrack e “East Meets West”). Torna a comparire il blu diffuso, l’ambivalenza di due loghi copia/incolla ed un look pelle e borchie di Doro che richiama gli anni del metallo senza compromessi. In copertina c’è persino lui, proprio il signor Warlock, lo stregone che – invidiatissimo da legioni di fans – cingeva i fianchi di Doro nell’artwork di “Triumph And Agony”. Tranquilli, Doro – quella Doro – c’è ancora.
Neanche il tempo di capire se la regina stia tornando sui propri passi che ad agosto esce “True At Heart”, terzo capitolo ufficiale della discografia solista della bionda teutone. Riflettiamo un attimo: è il 1991, il metal sta prendendo una brutta piega, tornare a fare “Hellbound” o “True As Steel” sembrerebbe fuori tempo massimo, e comunque qualcosa di simile ad un’ammissione di colpa; allo stesso tempo perseverare sulla strada civettuola della premiata ditta Simmons & co. finirebbe col divorare definitivamente l’anima di Doro, troppo incompatibile con il body rock di una Lee Aaron scala classifiche, o con le pose a 90 gradi da poster di una Lita Ford, che col sesso ci gioca fin dal primo giorno. La soluzione che Doro elabora è una specie di album verità; via completamente il make up, un primo piano in copertina che non tenga in alcun modo conto di abbigliamento ed ammennicoli di scena, una specie di ritratto da squaw in armonia con il Grande Spirito e Madre Natura (bianco e nero davanti, a colori sul retro). Un album che esprima l’essenza di Doro, che riveli il suo cuore, che ritragga in modo intimo e rarefatto il suo vero essere.
Doro decide di mostrarsi per quel che è, lontana anni luce dai lustrini di Playboy ed in qualche misura anche dalla rocker d’assalto degli anni ’80. Il faro è sempre il rock ma il piglio è diverso, più mediato, personale, idealmente affine agli aneliti che, sul versante alternative, anche il grunge sta perseguendo. “True At Heart” non è un album grunge, manco per idea, ma scorre parallelamente al rock alternativo, respira la stessa aria di smobilitazione e ridimensionamento. Le profumerie rimangono chiuse, idem le pelletterie, l’artista è nuda e si offre al suo pubblico senza filtri e sovrastrutture (“true at heart”, appunto). Musica diretta, schietta, introspettiva, quindi meno roboante ma, in cambio, autentica e genuina. In questo senso va inquadrata anche la decisione di abbandonare la mirabolante California e ritirarsi nella più quieta Nashville, dove Doro viene assistita da Dan Huff dei Giant per la lavorazione dell’album. La velocità complessivamente cala (così come la robustezza delle composizioni), in favore di un approccio più soft (leggi, diverse ballad) ma comunque intenso e sentito. In rapporto alla intera discografia solista di Doro, questo è forse un lavoro meno brillante, ma per chi l’ha seguita fedelmente in tutto il suo percorso rappresenta una tappa necessaria del viaggio, qualcosa che è spiegato dal prima e che spiega il dopo, e non è poi così difficile affezionarglisi.
III – Ich Will Alles
Non sono anni facili per nessuno, figuriamoci per una Doro Pesch in curva discendente. Ci vogliono un paio d’anni prima che Doriana Dorella dia un seguito a “True At Heart”. Nel frattempo ha stretto rapporti con Jack Ponti, un Russ Ballard minore, producer, hit maker (“Poison” di Alice Cooper), manager di Skid Row, Nelson e trafficone yankee pluridecorato. “Angels Never Die” porta la sua firma in lungo e largo, dal songwriting alla Produzione, all’esecuzione strumentale. Stilisticamente si colloca nel mezzo tra “Doro” e “True At Heart”; di quest’ultimo abbandona la componente malinconica, pur rimanendo un album dal profilo “understatement” (le chitarre non graffiano per niente), un po’ sottotono. Siamo negli anni nei quali Doro sembra quasi non voler disturbare troppo il pubblico; ok, rilascia album e ci mette tutto l’impegno possibile, ma la leonessa non ruggisce più come ai tempi di “All We Are” e “I Rule The Ruins”, è tutto più moderato, riflessivo, contenuto, e anche un po’ laccato. “Angels Never Die”, oltre al meraviglioso artwork firmato da Gillespie (quello di “Triumph And Agony”), ha qualche buon numero in scaletta. La scattante opener “Eye On You”, “Born To Bleed” (forse il vero highlight dell’album), “So Alone Together” (che pare un pezzo dei Blind Guardian in versione musica da camera). Niente male neppure “Cryin’”, “All I Want” e “You Ain’t Lived”, con il loro retrogusto americaneggiante. Il feeling con l’hard rock a stelle e strisce non si è interrotto (in formazione ci sono ex Lita Ford band, ex Tyketto, Mariah e Waysted), anche se Doro si spoglia delle vesti più mignottesche che Gene Simmons le aveva scaltramente affibbiato. Naturalmente non manca il pezzo in lingua madre per non interrompere la sacra tradizione (“Alles Ist Gut”). Le velocità sono sempre trattenute, Doro si crogiola in un rock sound placido e gradevole. C’è chi ritiene questo e “True At Heart” gli album meno significativi della cantante. Chiamatemi fan col prosciutto sugli occhi, ma paradossalmente questi dischi mi sembrano più veri e sinceri della produzione borchiatissima che Doro intraprenderà a partire dal 2000, una catena di montaggio di canzoni che più metal non si può, ma allo stesso tempo fatte con lo stampino, seguendo un preciso regolamento inderogabile che rende l’universo Pesch troppo prevedibile e ripetitivo.
La sinergia con Ponti regge bene e Doro si affida a lui anche per il nuovo lavoro. Siamo abituati a considerare Doro come una integerrima reginetta del metal più puro, classico ed ortodosso, tuttavia pure lei (deo gratias, è umana) ha avuto i suoi momenti bui e sperimentali. Bui nel senso di influenze gotiche e darkettone. Ma soprattutto direi electro. E stiamo parlando di “Machine II Machine” (1995). Il disco del peccato, anzi uno dei due, assieme a “Love Me In Black”, che spaccano il decennio (oltre che la fan base di Doro). Siamo all’estremo più distante dall’icona santa della madonnina del metal. Qui la goddess decide di provare “qualcosa di completamente diverso” (cit.), rischiando, osando. Gli anni ’90 sono o non sono la golden age dell’industrial? Frau Pesch ne rimane in qualche modo attratta. Ponti produce, Kevin Shirley mixa, per tutta risposta la Polygram chiude il contratto con Doro (10 album). L’accoglienza è pesantemente negativa. Cosa si è messa in testa Doro? Anzi, cosa si è messa addosso? Corpetti argentati e luccicanti, stivaloni total black, quasi un dresscode da cubista, una scollatura che si riaffaccia prepotente nelle foto interne al disco (e la copertina, col suo taglio ad altezza bocca, spersonalizza l’artista ed esalta il corpo, pare veramente di essere nel bel mezzo di un dancefloor), ma soprattutto sonorità inaccettabili per il fan orgogliosamente metallaro della ex queen del quartierino. Batteria computerizzata, basso in prima linea, chitarre nel cono d’ombra, filtri e ritmi sincopati, logo violentato. Immancabile il tizio a caso che dalle retrovie si leva per urlare al tradimento. I testi non lesinano sull’immaginario erotico; complessivamente, per tutti i motivi elencati, “Machine II Machine” è forse il passo più deciso di Doro nell’ambito del mainstream. “Ceremony” è il (bellissimo) singolo, per altro anche remixato dai Die Krupps, istituzione tedesca in ambito clang clang. In Germania il disco non va neanche malaccio, ma diventa una roba territoriale, perché altrove Doro pare compromessa. A me l’album è sempre piaciuto, è interessante, vario, ricco di buone canzoni e nient’affatto avaro di intuizioni. Ma non è metal, e questo per qualcuno è peggio che bestemmiare.
Riascoltato oggi “Machine II Machine” fa quasi tenerezza per la sua assoluta contiguità col rock (“Are They Coming For Me” pare quasi “Kashmir”), altro che rivoluzione. Banalmente, negli stessi anni i Crue con Corabi (e poi con “Primal Scream”) stravolgono assai di più l’hard rock, ma a Doro, la principessa del castello di acciaio inox, lo stesso privilegio non viene concesso. Sempre in team con Jürgen Engler e Chris Lietz dei Die Krupps, Doro si rituffa nel songwriting. Non è ancora tempo di ritorno all’ovile, la cantantessa di Düsseldorf vuole esplorare e respirare aria nuova. Firma per la Wea e nel ’98 pubblica “Love Me In Black”. Cosa cambia rispetto a “Machine II Machine”? Sostanzialmente che le chitarre tornano a fare le attrici protagoniste, ma non per questo Doro rinuncia alla batteria digitalizzata e ad un poderoso ricorso all’elettronica e ai sequenziatori; anzi, qui siamo ancora più avantgarde rispetto a “Machine II Machine”. Anche le tonalità cupe e limacciose persistono. Il titolo dell’album stesso lo urla ai quattro venti, e la title-track è uno dei capolavori di casa Pesch. La Wea non si sdilinque in complimenti e decide che un disco del genere negli States manco può avere mercato (nonostante la presenza in scaletta di “Barracuda”, cover degli americani Heart, resa per altro in maniera davvero accattivante). Quindi lo pubblica solo in Germania. Inutile dire che la partnership con l’etichetta dura il tempo di un batter d’ali. Doro recrimina la scarsa promozione dell’album e ha ragione. A questo punto meglio i compatrioti. Hello yankee doodles, è tempo di firmare per una label tedesca, qualcuno che parli la stessa lingua di Doro e che abbia voglia di un rilancio in grande stile. SPV/Steamhammer risponde prontamente all’appello.
IV – In Freiheit Stirbt Mein Herz
Arrivano così gli anni 2000, quelli nei quali il metal torna a rifiorire dopo un decennio horribilis. Non che Savatage, Riot, Vicious Rumors, Motorhead, Iron Maiden e altri temerari non avessero continuato comunque, imperterriti, a tenere ferma la barra del timone nonostante le sirene alternative, ma all’alba del nuovo secolo e millennio il Metallo, quello come-si-deve, si riaffaccia sul mercato, vulcanico, volenteroso ed entusiasta, e quintalate di band e artisti si scoprono nuovamente attratti ed ispirati da quelle sonorità. Doro non ha che da riprendere un discorso interrotto. “Calling The Wild” rimette sulla giusta carreggiata il glorioso marchio e da questo momento in poi la testa coronata biondo platino si atterrà abbastanza scrupolosamente ad una fisionomia che non prevederà più deroghe dal metal tradizionalista. “Fight”(eccezion fatta per una title-track vagamente in flirt col nu metal), “Warrior Soul”, “Fear No Evil”, “Raise Your Fist” saranno tutti album religiosamente incardinati in un percorso scandito da reliquie borchiate. In nessuno di questi album mancano buone canzoni, ma il cliché si ripete sempre più stancamente, senza variazioni di spartito, prevedibile e monotono. E così se “Calling The Wild” e “Fight” erano delle belle iniezioni di vetero metal rimpolpato, “Warrior Soul” comincia ad avere qualche filler di troppo, “Fear No Evil” e “Raise Your Fist” complessivamente sanno troppo di stantio e di riciclo. La trafila è sempre la stessa, nuovo album, preceduto da un EP contenente un pezzo esploso in 5 o 6 versioni (più corta, più lunga, demo, remixato, a pallini, a strisce, etc.), packaging in -anta versioni strappasoldi, dalla edizione economica a quella extra lusso con clima, interni in pelle e bluetooth, poi interminabili tour a seguire (dai quale l’Italia rimane quasi sempre fuori). Oggi Doro è un po’ come la Gioconda, gioca sul velluto, ha una line-up stabile (più di recente si è aggiunto anche il “nostro” Luca Princiotta), scrive e canta i pezzi che i fans si aspettano che lei scriva e canti, non un virgola in più. Niente colpi di testa, niente sequenziatori, niente elettronica, niente erotismi gotici, niente faciloneria hair metal, niente deriva pop (perlomeno non eccessivamente vistosa). Niente di niente che non sia il pugno chiuso al cielo e il ritornellone cameratesco. Doro è per istituzione il metal col cromosoma doppia X, un’effige inviolabile e immutabile per sempre, anzi für immer.
Nelle set-list dei concerti, canzoni provenienti dagli album dei ’90 trovano raramente e a fatica uno spazio. Doro salta direttamente dal medagliatissimo repertorio Warlock a quello post 2000, con qualche saltuaria eccezione (che so, una “Love Me In Black”, perché è talmente bella che non se ne può fare a meno, o un estratto da “Force Majeure”, il titolo più vicino cronologicamente e semanticamente agli Warlock). Oggi la sacerdotessa del metallo europeo non vuole beghe, non vuole rogne, siede sul trono, comoda e ben salda. E’ tempo di capitalizzare una intera carriera e assicurarsi una vecchiaia serena ed agiata. Siamo ai limiti del fan service; la pubblicazione di un nuovo album è a un passo dalla consultazione online, con primarie per stabilire di quanti millimetri un riff o un ritornello possano (semmai) discostarsi dall’ortodossia. Per contratto, deve sempre essere evocato lo spettro di “All We Are”, il dagherrotipo a cui riferirsi, l’anthem per eccellenza, il vessillo sotto e attorno al quale riunire ogni volta il popolo di Doro. Eppure, risentitevi i titoli “minori”, i figli impuri di un decennio scarsamente cromato; “True At Heart”, “Angels Never Die”, “Machine II Machine”, “Love Me In Black”, sono album di libertà. In quelle tracklist dimenticate potreste scoprire molto di più di quanto avreste sospettato. “In Freiheit Stirbt Mein Herz” è una canzone, certo, ma forse anche il miglior motto per descrivere quella stagione artistica di Doro.
Discografia Relativa
- 1989 – Force Majeure
- 1990 – Doro
- 1991 – Rare Diamonds (compilation)
- 1991 – True At Heart
- 1993 – Angels Never Die
- 1993 – Doro Live (live)
- 1995 – Machine II Machine
- 1998 – Love Me In Black
- 2000 – Calling The Wild
- 2002 – Fight
- 2004 – Classic Diamonds (compilation)
- 2006 – Warrior Soul
- 2009 – Fear No Evil
- 2012 – Raise Your Fist