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Cycle Sluts From Hell

SCHIAFFI E ROSSETTO. MA PIÙ SCHIAFFI

Fenomenologia di una band da un solo disco, pochissimi anni di vita, eppure capace di lasciar traccia di sé nella memoria collettiva e nella “pop metal culture”. Scoprire pericolosi legami con l’universo delle boyband (in questo caso girlband) può apparire doloroso, ma dà invece l’idea di una accurata, lungimirante e precisa strategia di marketing alla quale – per fortuna – si è comunque sommata una discreta e genuina voglia di far musica, se non di altissima qualità, perlomeno neanche poi così improvvisata e arruffata. Una convergenza di fattori più unica che rara, sublimata dalla sempreverde saggezza popolare secondo la quale, come è noto, “più che un carro di buoi poté….

Contenuti:

1. Boy bands, un morbo mai debellato
2. What you really really want
3. One shot one kill

1 – Boy Bands, un morbo mai debellato

Gli anni ’90 verranno anche ricordati per il proliferare delle cosiddette boy (and girl) band nell’ambito della musica pop. A qualche discografico senza una serena vita familiare e dei sani hobbies nel tempo libero – uno di quelli inscatolati in ufficio 25 ore su 24, sommersi di statistiche sulle vendite e sondaggi di opinione tra i “consumers”, col sigaro sempre in bocca ed il portafoglio più gonfio di un dirigibile – deve essere venuto in mente che, sottrazione per sottrazione, nichilismo per nichilismo, encefalogramma piatto per encefalogramma piatto, la “next big thing” nella musica (entità sempre più distante dalla grandeur artistica che l’aveva caratterizzata negli anni ’70) poteva tradursi nel prendere quattro o cinque facce da schiaffi adolescenziali col ciuffo giusto e la camicia firmata, e metterle davanti ad un microfono. Poi, chiamato un fotografo di grido, uno scafato regista videoclipparo molto trendy ed un paio di scagnozzi che scrivessero delle hits acchiappa gonzi, il gioco suppergiù era fatto. Canto, intonazione, predisposizione alla musica, saper suonare uno strumento, erano tutti orpelli fatiscenti, sorpassati e trascurabili. I Milli Vanilli ne erano un esempio lampante.

Intendiamoci, mister Dollaro Tonante mica si era inventato niente. The Jackson 5, The Osmonds, The Monkees, erano tutti collettivi di ragazzi che mettevano in fila armonie vocali sballettando di qua e di là sin dai Sixties. Per certi versi persino i Beatles hanno emanato qualche influenza come “boy band”, sebbene facessero ricorso ad una strumentazione rock e ad una genuina creatività che non abbisognava di songwriters esterni per plasmare musica. Fin dall’inizio queste realtà vennero inchiodate all’idea di roba per accalappiare i teenagers, attribuendo in qualche misura una sfumatura negativa o comunque limitante al portato musicale di tali gruppi. La fenomenologia “boy band” prosegue nei decenni. Ve li ricordate i Bros nella seconda metà degli ’80s? Non c’era ragazzina a scuola che non li cantasse mentre dei cuoricini brilluccicanti le riempivano gli occhi sognanti. I ’90s videro il grande ritorno del trend, con il moltiplicarsi di faccine pulite e schianta tube di Falloppio, Boyz II Men, Backstreet Boys, NSYNC, Westlife, Boyzone, East 17, con i New Kids On The Block ed i Take That a combattere la battaglia per la leadership assoluta che aveva già visto contrapposti Duran Duran e Spandau Ballet. Dagli Wham ai Ragazzi Italiani, passando per il brit pop, era tutta una grande famiglia globale di virgulti della gioventù musicale – testosteronici e debosciati al contempo – pronti a spartirsi ragazze, soldi e lacca per capelli.

II – What you really really want

Se funzionava con i boys, avrebbe funzionato anche con le girls. Del resto in America è sempre andata così, ad un Superman doveva corrispondere una Super Girl, a Spiderman una Spider Woman, fino al paradosso di avere persino She-Hulk, versione muliebre della cosa più maschile che il mondo supereroistico avesse mai concepito. Ecco le Spice Girls (che però erano britanniche), le All Saints, le Destiny’s Child, le TLC e su su, a ritroso, fino alle Supremes, le Crystals, le Blossoms, le Ronettes, le Shangri-Las, etc. Questa roba si è mai riversata nel rock duro e nel metal? Hai mai trovato uno sbocco, una valvola di sfogo nell’universo delle borchie e del chitarrismo virile? Sulla carta il travaso sarebbe dovuto apparire contronatura, non fosse altro per l’idiosincrasia del genere con le mode e per la forte tendenza al “possedere” gli strumenti, ovvero saperli suonare e saper comporre musica senza doversi appoggiare a chi lo fa nell’ombra al posto tuo (solo perché tu hai la faccina più carina). E però, a guardar bene, le cose non sono andate proprio così. Se è vero che estremismi come prendere qualche bel ragazzotto, senza arte né parte, e metterlo davanti ad un microfono e ad una telecamera non ha attecchito nel metal, va detto che delle ibridazioni contagiose ci sono state. Il movimento “pop punk” o “bubblegum punk”, che dir si voglia, pesca un po’ da lì. Quando a cavallo tra vecchio e nuovo millennio sentivo definire “punk” gruppi come Sum 41, Green Day, Blink 182, francamente saltavo sulla sedia. Con i loro video liceali, balneari e fancazzisti mi ricordavano più la saga di Porky’s che i Pistols, gli Uk Subs, i Black Flag. Pure per qualche fenomeno da baraccone hair/glam metal si potrebbe adombrare l’onta della boy-banditudine, anche se, persino in questi casi, va messo a verbale il fatto che – belli o brutti – questi gruppi in genere si scrivevano la loro musica (o perlomeno collaboravano con qualche hit maker) e ci mettevano la faccia, in studio come dal vivo, assumendosi insomma le proprie responsabilità nel bene e nel male.

Ma dove voglio arrivare? Alla inoculazione forse più evidente ed eclatante del virus “boy band” nelle vene del metal. Anzi, girl band, per dirla con precisione (si perché, essendo un genere a trazione prevalentemente maschile, era ovvio che la versione band per fans maschi avrebbe avuto più speranze di attecchire). 1991, New York City, sotto Epic Records esce l’auto intitolato album delle Cycle Sluts From Hell, un collettivo di 4 figliole più una masnada di strumentisti, songwriters e produttori (tutti uomini). Un progetto tanto semplice quanto ardito nella sua concezione: e se invece di Ginger Spice, Sporty Spice, Baby Spice, etc, mettessimo borchie, tatuaggi e calze a rete addosso a delle figliole vestite di pelle attillata, schierate come un plotone di esecuzione di mistress indiavolate davanti al proprio pubblico? Non l’avete mai vista da questa prospettiva? In effetti non ricordo grandi critiche in tal senso all’epoca. Il disco viene accolto moderatamente bene, ma nessuno arrivò a mettere in parallelo le Sluts con progetti pop all-female come le Spice Girls o le All Saints, eppure è l’uovo di Colombo. La matrice è sostanzialmente la stessa. Produzione scaltra, label che non può non annusare il profumo del maschio in calore (tant’è che si scomoda la Epic mica la Metal Vattelappesca di Albuquerque), ragazze agguerrite. Naturalmente anziché delle bamboline ammiccanti e ultra glamour qui il modello di riferimento diventa il biker di qualche zozzo bar ai margini del deserto. Venus Penis Crusher, She-Fire Of Ice, Queen Vixen, Honey 1%er sono gli evocativi nomignoli inventati per le dominatrici che prendono di peso il pubblico, per le palle (letteralmente, “By The Balls” è la seconda traccia in scaletta). Consapevolmente o meno, le bellicose e irriverenti signorine si ritraggono né più né meno come una versione femminile di Lemmy Kilmister e questo le fa immediatamente accettare dal pubblico metal. Come sarebbe potuto essere altrimenti? Metterle in discussione sarebbe stato tradire un Comandamento, il quarto. Quanti intransigenti rockers avrebbero ammesso di essere affascinati da una versione denim & leather delle Spice Girls? Quanti sarebbero stati disposti ad ammettere di preferire il burro di Geri Halliwell al porro di Lemmy mischiato con l’estetica di Russ Meyer?

Dietro le ragazze, in studio come on stage, musicisti capelloni, amplificatori a manetta e vai col rock n roll. Il fenomeno è stato più complesso di quanto si creda e d’altro canto non sarebbe nemmeno onesto intellettualmente ridurlo ad una buffonata per meri peni in erezione. Andiamo per gradi. Intanto, nonostante le Sluts non toccassero uno strumento neanche con un unghia laccata, la controparte strumentale delle Cycle Sluts From Hell non era affatto uno specchietto per le allodole. Ascoltate un pezzo dei Take That o di qualche altra boy band televisiva, tolte le armonie vocali e i ritornelli la canzone non c’è, vuoto pneumatico totale. E tutta o quasi una questione di immagine e di melodia lineare. Il metal non poteva introiettare sic et simpliciter questo atteggiamento, sarebbe stato entropico, distruttivo, autolesionista. E allora ci arriva per gradi di separazione. E’ vero, le female frontist anche in questo caso cantano e basta, e fanno anche vedere un po’ di mercanzia, ma i ragazzotti là dietro non se ne stanno mani in mano a inanellare 4/4 martellanti. I vari Pete Lisa (il famoso Lord Roadkill citato sui credits dell’album), Christopher Moffett, Tom Von Doom, Fernando Rosario (Smashed Gladys), Brian Smith, Scott DuBoys, Bobby Gustafson (Overkill), Eddie Coen (Sick Of It All), Nick Douglas (Deadly Blessing, Hittman, Doro) succedutisi alla corte delle Spice-Sluts ci mettono lo stesso impegno e vigore che avrebbero profuso in un disco di metal vero al 100%. Ne sia la riprova il fatto che se si ascolta l’album (prodotto dal Glen Robinson che aveva messo le mani su “Nothingface” dei Voivod, per dire) risulta assolutamente gradevole e grintoso. Anche furbetto e kitsch, chi lo nega, ma comunque valido e divertente.

III – One shot one kill

Le C.S.F.H. hanno una intensa attività live, chiaro che dal vivo non possano che attrarre sempre più pubblico. Come testé scritto, il disco le sostiene. Jane’s Addiction, Danzig, Ramones le scelgono come opening acts. E figuriamoci se lo schiantatope per eccellenza del Metallo non mette gli occhi su una band del genere; ovviamente i Motorhead se le portano direttamente in tour, e Dio solo sa che incremento di introiti abbia avuto la Durex in quelle settimane. Un picco di vendite mai più registrato nella storia dell’azienda, c’è da crederci. Il videoclip di “I Wish You Were a Beer” approda su MTV e viene mostrato nello show Beavis and Butthead, la cui carica dissacratoria, cinica e sboccata rispecchia perfettamente il contenuto del video. Quello delle Sluts è il classico quarto d’ora di celebrità, ma in quei quindici minuti se la giocano bene, sono sulla bocca di tutti e costruiscono sapientemente l’immagine un po’ teatrale di una band di ragazze cazzute ed irriverenti. A nessuno viene in mente di chiamarle per quello che sono, una versione female rock delle boy bands. “Cycle Sluts From Hell” convince, pur tra i sorrisetti maliziosi di chi guarda più ai fondo schiena che alle canzoni delle ragazze. Ma in fondo chissene, purché se ne parli. Fanno le dure, scattano servizi fotografici da “fanculo a tutti”, cantano testi sessisti ed attaccabrighe e, se occorre, sono pure disposte a tirarti un cazzotto in faccia. L’artwork dell’album è un capolavoro concettuale. Da che mondo è mondo il rock va a braccetto con ragazze discinte e ammiccamenti erotici. Bene, lo fanno anche le Sluts, ma a modo loro. La copertina pare uscita da un film del suddetto Russ Meyer, le protagoniste indossano una tenuta fetish e sfoggiano un’acconciature alla Elvira, in pieno dominio di una situazione che vede cinque schiavi-stalloni addormentati, con le chiappe in bella mostra e interamente dipinti d’oro. Le Sluts sono novelle Goldfinger sadomaso ritratte un momento prima (o un momento dopo) lo sfiancamento sessuale dei propri pleasure slaves. L’audience metal è ripagata con la stessa moneta, sesso a buon mercato sia, ma rigorosamente girls oriented.

La tracklist del disco è all’insegna della tracotanza e della muscolarità, anche se non mancano le keyboards (né qualche buon assolo) e un paio di tracce più lente ma pregne d’atmosfera come “Dark Ships” e “Soul Taker”. Per il resto è una corsa sfrenata condotta da (sexy) megere urlanti, vogliose di stritolare gli attributi delle loro vittime predilette, i maschi. Rimane la curiosità di sapere come sarebbero potute andare avanti dopo questo eclatante debutto. Chissà, forse l’intera operazione era nata come “one shot one kill”, un solo colpo (discografico), ottimizzando al massimo i risultati, per poi sparire e dedicarsi ad altro. Forse con lungimiranza le ragazze avevano capito sin da subito che doveva trattarsi di un’idea con la data di scadenza. O forse, molto più prosaicamente, è andato tutto a ramengo col passare dei giorni, e da qualche parte tra etichetta discografica, strumentisti e primedonne stesse è saltato un ingranaggio. Qualcuno si è riciclato in giro, Venus Penis Crusher è diventata Betty Kallas nel duo industrial Hanzel Und Gretyl; Scott Duboys è passato per il drum kit di Nuclear Assault e Warrior Soul; Tom Von Doom – che aveva già suonato il basso per The Great Kat – fonda i Mighty Joe Young assieme a Chris Moffett, pure lui passato per i Warrior Soul; Honey 1%er va nelle She Wolves. Fino a che il fatidico 24 giugno del 2006 le C.S.F.H. si sono riunite per una sola ed unica volta per un live set a New York. Alla sola ed unica volta ne è seguita una seconda, il giorno di Halloween dell’anno successivo, sempre a New York. Poi ne abbiamo perso le tracce per davvero.

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Discografia Relativa

  • 1991 – Cycle Sluts From Hell

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