Mille vite, mille carriere, mille album e mille incarnazioni. Una cherokee pirandelliana nelle cui vene scorre da sempre il sacro fuoco delle muse dell’Arte, dalle quali ha ricevuto in dono una capigliatura da pubblicità dello shampoo ed un set di corde vocali uniche al mondo. Ad ogni ritorno sulla sterminata discografia di Cher (con e senza Sonny Bono) si scopre un disco che non si era esplorato a dovere, al quale non si era attribuito il giusto valore. Un’artista immensa che merita l’ennesimo articolo retrospettivo sul web.
Contenuti:
1. Il Guinness dei primati incarnato (1965 – 1977)
2. Gli anni ’80 all’insegna del rock: the Geffen years (1978 – 1987)
3. Il successo è per sempre (1988 – 1997)
4. La dance (1998 – 2018)
1 – Il Guinness dei primati incarnato
Donna dei record, 28 album all’attivo (come solista), quasi 60 anni di carriera, oltre 100 milioni di dischi venduti, un primo posto nella chart americana Billboard per ogni decennio a partire dai ’60, mai nessuna ha venduto come lei in Inghilterra, tour faraonici. E poi c’è il cinema, con 17 pellicole interpretate (diretta da Friedkin, Altman, Nichols, Bogdanovich, Miller, Yates, Jewison), un Oscar, tre Golden Globe, Emmy, Grammy, menzioni a Cannes, primi posti in classifiche stilate a vario titolo da magazine e riviste (“greatest woman of rock n roll”, “sexiest artist”, etc.). Amatissima dal mondo LBGT, dalle riviste scandalistiche e dai chirurghi plastici, ma anche dai discografici, che con il suo nome hanno fatto soldi a palate. A 16 anni conosce il suo mentore Salvatore “Sonny” Bono, dal quale prenderà un bel po’ di botte ma che per lungo tempo sarà l’altra metà della sua mela, artistica, professionale e sentimentale.
Californiana di nascita, Cherilyn Sarkisian ha un padre camionista rifugiato armeno ed una madre aspirante attrice e modella di origini cherokee, francesi ed inglesi. Nel 1974 si separa da Bono, nel ’75 sposa Gregg Allman della Allman Borthers Band e un anno dopo divorzia per la dipendenza del marito cowboy dalla droga. Dal ’79 per l’anagrafe Cherilyn diventa semplicemente Cher, senza alcun cognome o secondo nome. La sua carriera solista inizia ufficialmente nel ’65 con “All I Really Want To Do” (cover album di pezzi folk e rock con l’inserimento di alcuni inediti, una formula alla quale ricorrerà spesso in carriera), su intuizione di Bono, che fa incontrare la Imperial Records e la sua protetta.
Fino a tutti gli anni ’70 Cher non colleziona solo applausi e lustrini, bensì diversi flop commerciali e non poche critiche, cercando anche per questo di modellare e ricalibrare continuamente la sua fisionomia di artista svariando tra rock, pop, disco, folk e grandi ballate. “Prisoner” nel ’79 è il primo lavoro nel quale i songwriter chiamati a corte scrivono canzoni appositamente per lei, ed infatti le tematiche trattate nei pezzi sono sentitamente autobiografiche. L’album però non va granché bene ed a parte il singolo “Hell On Wheels”, le classifiche non le vede nemmeno in fotografia. Va tenuto conto che Cher è un’interprete, magnifica ma pur sempre un’interprete, una performer, non un’autrice (almeno non fino al 2000) e, al netto della grandiosità della sua voce e del suo indubbio talento naturale nello stare su di un palco e/o dietro ad un microfono, una significativa percentuale dei suoi successi e delle sue battute d’arresto va imputata anche ai team creativi e produttivi che l’hanno circondata di volta in volta.
Tra questi c’è anche quello che fa capo a Gregg Allman, col quale nel ’77 incide “Two The Hard Way”, album pubblicato sotto il monicker Allman And Woman (dove “woman” sarebbe lei). Copertina molto sensuale e sonorità più vicine a Tom Jones che al southern rock. Inutile dire che, anche per il sound ruffianotto adottato, l’album viene disintegrato dalla critica e vende in totale circa mezzo milione di copie in tutto il mondo. In qualche maniera la lavorazione del disco riflette pure la problematica relazione tra i due, decisamente burrascosa e indisciplinata, soprattutto a causa della tossicodipendenza di Allman. L’impronta principale sul risultato finale è sua, la personalità prevalente è decisamente quella del chitarrista di Nashville. Nessuno dei due artisti è reduce da momenti idilliaci con la critica e per entrambi il disco viene letto come “il fondo del barile” delle rispettive carriere (“difficile immaginare una combinazione più inappropriata“, sentenziò il Rolling Stones). Il titolo non è mai stato pubblicato su compact disc (destino comune anche ad altri lavori di Cher).

II – Gli anni ’80 all’insegna del rock (the Geffen years)
Gli anni ’80 di Miss Sarkisian battono un cuore rock, con tanto di certificato ancora fumante del coroner che mette nero su bianco l’avvenuto decesso della discomusic. E’ “Black Rose” – ultimo lavoro per Casablanca, finanziato da Cher stessa – il disco che prima di ogni altro evidenzia conclamate sonorità rockeggianti, ed il cui background è quello di una band capitanata dal chitarrista Les Dudek, allora fidanzato di Cher, alla quale la cantante partecipa mantenendo volutamente un profilo basso. In copertina c’è il logo della band ma non il nome di Cher, la quale appare sì in foto ma solo sul retro, assieme a tutto il gruppo. “Black Rose” è un flop, la relazione con Dudek si interrompe, eppure il disco è un lavoro portentoso, ancora oggi in grado di far mangiare la polvere a molti/e sedicenti rock n rollers. Vanta collaborazioni di prestigio con Paich e Porcaro dei Toto, con Taupin dei Farm Dogs. Il fatto che si tratti di una band effettiva uno-per-tutti-tutti-per-uno si sente e porta l’album ad un altro livello, ma la voce di Cher rappresenta il valore aggiunto, era ed è fuori discussione, da sempre; potente, versatile, espressiva, quella di un talento vero, a prescindere dai gusti personali o dal fatto che si viva mangiando pane e Ripping Corpse.
Nonostante l’insuccesso, l’interesse di Cher per le sonorità rock non viene meno, “I Paralyze” nell’82 ribadisce il feeling. Desmond Child scrive tre pezzi (e getta le basi per una collaborazione con Cher che andrà avanti anche in futuro). Pur trattandosi di un buon lavoro (anche se inferiore a “Black Rose” e comunque più compromesso col pop) la critica non lo giudica positivamente, nemmeno entra in classifica e Cher si prende un lustro di pausa dal music business per dedicarsi alla carriera cinematografica. Non che le cose inizialmente siano facili neppure davanti alla macchina da presa, Cher sconta il suo allure troppo glamour che la scredita tra i cineasti, inoltre il marchio di cantante è troppo vistoso per passare inosservato come attrice (vallo a raccontare a Jennifer Lopez e Adriano Celentano). Il tempo le darà ragione, riconoscendole meriti e capacità (e premi) anche nel campo della celluloide.
“I Paralyze” è il primo e unico album per la Columbia, label che lascia il posto alla Geffen, la quale si assicura i tre dischi successivi della cantante, a partire dall’omonimo “Cher” nel 1987, atto ufficiale di adesione al mondo del rock-AOR, certificato dai produttori e songwriters Michael Bolton, Mark Mangold, Jon Bon Jovi, Richie Sambora e Desmond Child. Con la dedica a se stessa (per la seconda volta in carriera) Cher indica il suo ritorno in pompa magna nel mondo della musica, stavolta però nelle vesti di una rocker da radio, ovvero “friendly” ma non per questo priva di peso specifico e qualità. Anzi. L’album migliora sensibilmente le quotazioni di Cher, non fa sconquassi ma diventa pur sempre un platino e rimette in pista il brand, ribattezzando l’artista come una voce che può tranquillamente appartenere all’universo rock senza sfigurare, accanto alle Pat Benatar, alle Debbie Harry, alle Ann Wilson, alle Stevie Nicks e alle Bonnie Tyler del caso (quest’ultima anche ospite sul disco, assieme a nomi del calibro di Steve Lukather, Joe Lynn Turner, Tony Levin e a tutto un sottobosco di turnisti già al soldi di Alice Cooper, Fleetwood Mac, Toto, Paul Stanley, Peter Gabriel, Ace Frehley, Aerosmith, Cheap Trick, Meat Loaf, Suzy Quatro, Rod Stewart). Sull’onda del successo Cher lancia il suo profumo, Uninhibited, rarità per collezionisti quotata quanto una falange di Padre Pio.
III – Il successo è per sempre
La risalita è iniziata e “Heart Of Stone” è il titolo che riporta Cher sulla cima della montagna del successo, attestandosi a posteriori come il suo album degli anni ’80 più venduto (13,5 milioni di copie all over the world e primo album solista di Cher ad entrare nella top ten americana). Stesso stuolo impressionante di collaborazioni di lusso. L’impronta di Michael Bolton rimane quella più riconoscibile ed indelebile, tant’è che alcune tracce potrebbero tranquillamente essere prese di peso e trasferite in qualche suo album senza colpo ferire. La copertina che tutti oggi conosciamo, recante la foto di una Cher sprezzante e cavallerizza, è in realtà una pezza messa alla prima versione dell’artwork, poi ritirato, che la vedeva disegnata accovacciata ai piedi di un cuore di pietra, ed il tutto a colpo d’occhio rimandava subliminalmente ad una specie di teschio.
Credo non esista individuo al mondo che non ricordi il videoclip di “If I Could Turn Back Time”, pezzo d’apertura dell’album, quattro dei minuti più maschilisti ed al contempo americani che si siano mai visti in tv (e per un po’ è stato pure abbastanza arduo poterli vedere). Cher indossa un chiodo sopra un catsuit a rete, e dei nastri neri appena sufficienti a coprire al minimo sindacale le parti sensibili, mentre intona il pezzo su una nave da guerra strabordante di marinai allupati. Allegorie raffinate e sottili si sprecano come quando cavalca un cannone sbombardone. Non che prima Cher avesse abitualmente indossato il burqa nelle sue apparizioni pubbliche, ma non c’è dubbio che questa sia la fase in cui la sexy cherokee investe pesantemente sul proprio corpo e sulla componente anche erotica della propria voce e del proprio carisma. Del resto, quando c’è da vendere qualche copia in più bisogna ingegnarsi. Il videoclip diventa oggetto di dibattiti puritani, diversi canali televisivi si rifiutano di mandarlo in onda (pubblicità fenomenale!), persino MTV ne programmerà una versione censurata rigorosamente dopo le ore 21:00, coi bimbi a letto.
Mentre Cher è legata sentimentalmente a Richie Sambora, nel suo entourage oramai già da qualche anno, esce “Love Hurts”, capitolo finale della trilogia con Geffen. Undici pezzi, quattro cover, una bonus track, due copertine diverse (una per gli States, una per l’Europa), una platea sterminata di nomi coinvolti alla voce personnel. Nonostante un ingente battage promozionale, un super tour e tanta tv per promuovere l’album, sul momento le vendite si attestano al di sotto dei due precedenti lavori e la critica (soprattutto americana) lo accoglie senza esagerazioni, né in positivo né in negativo. Successivamente però Cher si prende la sua rivincita, trasformando “Love Hurts” nel suo album più venduto di sempre con 16 milioni di copie (fino a “Believe”, 22 milioni di pezzi). “Love Hurts” riporta in auge passaggi e momenti pop all’interno della formula elegantemente rock dell’ultimo periodo e consacra Cher come una gran signora della musica, una dama senza tempo ed eternamente attuale. Una voce di velluto su di un fisico altrettanto levigato (a colpi di dollari e scalpello). Il contratto con Geffen si chiude con un greatest hits (1965 – 1992) rivolto esclusivamente al mercato europeo e che registra vendite eclatanti. Dimostrazione della immensa popolarità raggiunta, di una stima e di un’affermazione (finalmente) strappate a fatica, il cui rovescio della medaglia è la diagnosi di una sindrome da affaticamento che la allontanano temporaneamente dalle scene.
Bisogna aspettare il 1995 per rivederla in studio a registrare l’album “It’s A Mans World” (ma comunque prima Altman l’aveva voluta nei suoi film I Protagonisti e Prêt-à-Porter). Si torna all’antico, con lo schema che vede Cher cimentarsi in cover perlopiù pop rock di artisti uomini (il pezzo che dà il nome all’album è addirittura di James Brown). Una sfida giocata sul proprio terreno per la voce più mascolina del music biz. Curiosamente è sempre l’Europa la frontiera per Cher, visto che qui, e segnatamente in Inghilterra, le arride immediatamente il successo, mentre in patria il disco esce addirittura con un anno di ritardo, in versione remixata, tagliata di tre pezzi e senza molta gloria per quanto riguarda le charts. Benché si tratti di un disco di canzoni già edite, “It’s A Man’s World” ha un sapore che appartiene di diritto a Cher. L’interpretazione sentita, appassionata e ricercata di ogni singola nota è così personale ed efficace da trasfigurare il disco in una produzione che incarna e restituisce Cher nel modo più vero ed autentico. Album stupendo, promosso dal sensuale videoclip di “Walking In Memphis” (originariamente di Marc Cohn, 1991), nel quale Cher è di una bellezza assoluta e gioca con travestimenti da Elvis. Il disco presenta anche una certa sofisticazione tecnica poiché Cher abbandona il suo consueto vibrato in favore di un’emissione vocale più “fluida” ed “armonica”, raggiungendo tonalità davvero profonde ed emozionanti. Ogni canzone viene riarrangiata rispetto all’originale conferendole nuova freschezza e vitalità. “One By One” e “Paradise Is Here” nella versione USA vengono manipolate in chiave dance da dj di grido, il che metterà la pietra tombale sulle aspirazioni dei rockers che avrebbero voluto continuare a vedere Cher indaffarata col rock.

IV – la dance
Il successo di queste riletture altamente ballabili fa annusare a Cher e alla WEA il profumo dei soldi ed un nuovo settore da conquistare, quello delle discoteche 2.0. Ecco che “Believe” nel 1998 scaraventa Cher (di nuovo) nel mondo della dance. A conti fatti avranno ragione loro poiché l’album rimane ancora oggi il più gigantesco successo commerciale del catalogo di Cher. Va detto che fu proprio la WEA ad insistere poiché l’artista non era affatto convinta di questa nuova svolta dance, inutile dire che al primo estratto conto ne fu entusiasta. Quando dopo l’ubriacatura di “Believe” Cher propone alla WEA un ritorno a sonorità folk rock riceve come risposta un secco no, si tratterebbe di un progetto “non commerciale”, pertanto ritenuto non interessante dalla congrega di filantropi della label. Cher tira dritto e pubblica il disco – col titolo “Not com.mercial” – direttamente tramite il web e con accesso esclusivo riservato ai suoi fan, tant’è che il disco è un mezzo mistero per il resto del mondo e le canzoni che ne fanno parte non vengono eseguite dal vivo. Una di queste, “(The Fall) Kurt’s Blues”, è un omaggio Kurt Cobain. Il successivo “Living Proof” del 2001, pur essendo licenziato da Warner Bros, prova a scimmiottare “Believe”, andando a inzuppare il biscotto nuovamente nella dance, e però il giro trionfale nelle charts mondiali stavolta dura appena qualche settimana. Seguono “Closer To The Truth” (2013), progettato inizialmente come un ennesimo ritorno a sonorità più pop rock, nonostante in verità prosegua il filone dance, e “Dancing Queen”, ennesimo cover album nato in scia del prequel del film Mamma Mia! del 2008 (ovvero Mamma Mia! Ci Risiamo) a cui l’artista partecipa anche come attrice.
Cher negli anni 2000 viene identificata (definitivamente?) con quel genere ed è un peccato visto cosa quelle corde vocali sono in grado di dare e trasmettere se adeguatamente valorizzate e contestualizzate. Personalmente spero nella zampata alla soglia dei 70, che possa magari tornare a riscoprire il primo amore per il rock, venato di sfumature folk, funky e soul; sono convinto che Cher saprebbe ancora stupire in (quel) ambito discografico. Nel frattempo, per godersela ancora in tutto il suo splendore artistico, ci si può magari dedicare alla visione di Burlesque (e all’ascolto della relativa colonna sonora, nella quale piazza un paio di pezzi clamorosi), super produzione musicale del 2010 con Christina Aguilera che merita attenzione per la grandeur e la qualità dei numeri musicali contenuti.
Discografia relativa
- 1965 – All I Really Want To Do
- 1966 – The Sonny Side Of Cher
- 1966 – Cher
- 1967 – With Love, Cher
- 1968 – Backstage
- 1969 – 3614 Jackson Highway
- 1971 – Gypsys, Tramps & Thieves
- 1972 – Foxy Lady
- 1973 – Bittersweet White Light
- 1974 – Half-Breed
- 1974 – Dark Lady
- 1975 – Stars
- 1976 – I’d Rather Believe In You
- 1977 – Two The Hard Way (as Allman And Woman)
- 1977 – Cherished
- 1979 – Take Me Home
- 1979 – Prisoner
- 1980 – Black Rose (as Black Rose)
- 1982 – I Paralyze
- 1987 – Cher
- 1989 – Heart Of Stone
- 1991 – Love Hurts
- 1995 – It’s A Man’s World
- 1998 – Believe
- 2000 – Not com.mercial
- 2001 – Living Proof
- 2013 – Closer To The Truth
- 2018 – Dancing Queen