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Celtic Frost – Il Metal sublime

VISIONI NECROMANTICHE

Se vi siete soffermati un attimo a riflettere sul nome di questo blog, avrete un’idea piuttosto chiara ed inequivocabile di quale possa essere la mia predisposizione verso i Celtic Frost. Occhi a cuoricino (o a teschietto, se preferite) ed attenzione massima verso l’operato di Thomas Gabriel Fischer, Martin Erich Ain e sodali. La storia del Metal è passata dalla storia della Svizzera metal. Helvetia gloria, ovvero come la periferia del mondo è stata testimone della genesi dell’avanguardia, nonché la culla della malvagia progenie…che poi così malvagia non era, anzi leggeva Baudelaire, Nietzsche, Howard, Lovecraft, le sorelle Brontë, ammirava l’arte di Hieronymus Bosch e di Hans Ruedi Giger, e ad un certo punto della propria carriera ha pure scritto una canzone su Marilyn Monroe.

Contenuti:

1. Storie morbose (1982 – 1984)
2. L’avvento dell’Imperatore (1985)
3. Scoppia il Pandemonio! (1986 – 1987)
4. (Once) they were Warriors (1988 – 1989)
5. Metal e basta (1990 – 1991)
6. Il monoteismo soppianta le Muse. La fiamma si spegne, per sempre (1992 – 2006)

1 – storie morbose

Esattamente come non è mai stata al centro della geopolitica (perlomeno novecentesca) e non ha regalato al mondo i Leonardo, i Michelangelo, le Maria Callas e i Pavarotti, la Svizzera non ha neppure mai occupato un posto di particolare rilievo in ambito rock/metal. Relegata ai margini dell’industria discografica borchiata (come noialtri del resto, sia ben chiaro), ha avuto i suoi nomi, per carità, tra i quali forse i più noti al mainstream (dell’underground stream) sono i Gotthard ed i Krokus, facilitati dal proporre un rock più addomesticato e radio friendly. Tuttavia i metal aficionados sanno bene che sotto la cenere c’è stato e c’è ben altro. Coroner, Samael e Lacrimosa ad esempio, tutte band non solo di valore ma capaci di inventarsi una propria via al metal, originale e peculiare, che le ha rese riconoscibili in mezzo alla concorrenza europea e americana. E poi c’è quel nome… uno dei più importanti di sempre, uno di quelli che personalmente metterei tra i 10 più significativi della storia dell’Heavy Metal con la H e la M molto maiuscole. Siamo nell’arte pura. Qualcuno nella provincia di Zurigo ha eretto caterve di mostri, suoni, realtà alternative, ha generato fiumane di epigoni, godendo di una stima e di un rispetto imperituri che pochissime altre realtà della scena possono vantare. Tutto è avvenuto dall’84 al ’92, un tempo relativamente breve per sconvolgere il metal ed imprimere un marchio indelebile, eppure è bastato. Nei 2000 quella fiamma ha inaspettatamente ripreso vita, ma le minestre riscaldate non sono mai appetitose come quelle alla prima cottura.

In principio furono i Grave Hill ed ancora prima i Tarot. Thomas Gabriel Fischer, classe 1963, passava indistintamente dal basso alla chitarra, alla bisogna. I Grave Hill pare fossero piuttosto glam, assieme a Fischer suonava il suo ex roadie Urs Sprenger, un virgulto che impiegava il suo tempo a fare a sportellate con il suo mentore. Quando archiviarono i Grave Hill e fondarono gli Hammerhead cominciarono ad esplodere dissidi sempre più vistosi e laceranti. Fischer, che si faceva chiamare Tom “Satanic Slaughter” Warrior, pretese il cambio di monicker in Hellhammer, perché quella “Testa di Martello” faceva senz’altro molto Motorhead – band indubbiamente amata – ma aveva anche quel certo non so che di fallico che Fischer non gradiva affatto. Non era più il suo orizzonte. Mentre lo era moltissimo per Sprenger, che si faceva chiamare Steve “Savage Damage” Warrior. Due guerrieri che però non erano fratelli, anzi semmai erano sempre in guerra fratricida. Come Hellhammer arrivarono una discreta pioggia di demotape nel 1983 e l’Ep “Apocalyptic Raids” nell’84. Nella band c’era anche Slayed Necros, accasatosi nell’83 quando Sprenger non fa già più parte della combriccola. Fischer si era stancato delle sue spacconate omofobe e testosteroniche. Ed è proprio con Slayed Necros, al secolo Martin Erich Stricker, che Fischer progredisce ulteriormente verso una nuova incarnazione artistica. Sulle ceneri degli Hellhammer cade il Gelo Celtico. Il bello di Fischer è che nella sua testa e nel suo stereo girava davvero tanta roba diversa, estrema, gotica, profonda, nera. Black Sabbath, Angel Witch, Motörhead, Venom, Bauhaus, Siouxsie And The Banshees, Christian Death, Discharge, alcuni dei nomi che lo entusiasmavano. Una certa attitudine dark, cupa, collosa come resina putrescente, ma anche doomeggiante, gli Hellhammer l’avevano sempre avuta (“Triumph Of Death” – nomen omen – è monumentale in tal senso). Sabbie del tempo che nello scivolare granello su granello scarnificano ogni singolo nervo, tendine e osso delle nostre spoglie mortali.

I neonati Celtic Frost ripartono in primis proprio da quel genere di paesaggi. La line-up assomma Fischer e Ain, come session drummer c’è Steve Priestly (al secolo Stephen Gasser), oltre alla presenza di svariati guest vocalist e di un violino. E’ la formazione di “Morbid Tales”, l’Ep che fa conoscere al mondo quella brina di stampo tutto elvetico, benché il nome rimandi al popolo indoeuropeo occupante quella porzione d’Europa compresa tra le isole britanniche ed il bacino del Danubio. Il monicker viene scelto pensando ai Cirith Ungol di “Frost And Fire” e le prime mosse della band vanno nella direzione di coverizzare il sound del movimento NWOBHM. “Morbid Tales” sembra proseguire con estrema coerenza il discorso intrapreso dagli Hellhammer, cercando di elevarlo a potenza, renderlo più compatto, potente, maturo ed incisivo. Le atmosfere rimangono le medesime, vengono solo arricchite ed ampliate. E’ heavy metal, d’accordo, ma sin da subito si avverte che cova dell’altro sotto i drappi oscuri e la ferraglia assordante. C’è un senso di nichilismo, di epica disfatta, di mortifera decomposizione, di “futuro antico” che è proprio delle profezie fatte di destini che devono e possono compiersi unicamente nella tragedia; c’è un senso di apocalisse nel verbo dei Celtic Frost, di grandiosa rovina. Musica che va oltre la musica e che aggancia la letteratura (di Lovecraft, Howard), la poesia (di Baudelaire), la spiritualità (di Aleister Crowley), creando un golem portentoso, minaccioso e stordente. Fischer è l’ideatore dell’eptagramma disegnato in copertina (che tanto deve essere piaciuto ai Voivod) e si spartisce con Sprenger la paternità dei loghi (di Fischer quello alato, di Sprenger quello sul retro copertina, entrambi divenuti iconici). Nei credits dell’album si menziona già la prossima release, “To Mega Therion” (titolo in auge fin dai tempi degli Hellhammer), che conterrà il brano “(Procreation) Of The Wicked”, presentata in questa scaletta. “Into The Crypts Of Rays” è anticipata da un’introduzione allucinante, l’adunanza delle scimmie di Kubrick al cospetto del monolite, le visioni che si dispiegano durante l’attraversamento del buco nero. Oltre ci attendono le enigmatiche “cripte dei raggi”. E poi c’è “Danse Macabre”, orrore puro.

II – l’avvento dell’imperatore

Nel 1985 anziché il preannunciato “To Mega Therion” arriva un secondo Ep (progressione discografica curiosa, atipica ed originale, come tutto ciò che hanno fatto i Frost), “Emperor’s Return”. E’ Friedrich Nietzsche ad incaricarsi di spalancarci la porta dell’antro: “that which does not kill us makes us stronger” (una constatazione che il metallo amerà moltissimo, riproponendola ad ogni pie’ sospinto). L’Ep è dedicato agli Hirax, i Cirith Ungol e i Znöwhite sono menzionati nei ringraziamenti, mentre Priestly è apertamente non ringraziato. Al suo posto dietro le pelli infatti c’è il newyorkese Reed St. Mark, spia di quanto il nome della band fosse già riuscito a varcare i confini patrii e addirittura europei. Il “Ritorno dell’Imperatore” contiene tanto per cominciare “Circle Of The Tyrants”, probabilmente la canzone più nota (e coverizzata) dei Celtic Frost, la ragione di vita degli Obituary, nonché un capitolo dirimente e seminale dell’heavy metal. Un manifesto di questo genere musicale. Ma tutto l’album gli va a ruota, con una scaletta oggettivamente clamorosa che surclassa il già preziosissimo “Morbid Tales”. Cinque tracce perfette, siamo già ai piedi dell’Olimpo. Sono molti gli imperatori che devono mettere in conto di perdere il trono e la testa al cospetto dell’avanzata di questi nuovi barbari. Tra le colonne del loggiato imperiale spirano venti ferali che portano l’olezzo della nuova progenie, il cui aspetto emana una sinistra e sciatta necrofilia. Sembrano vampiri sputati fuori dalle pagine che Howard ha scritto per il suo Conan; c’è una deliziosa punta di sguaiata e triviale grezzura post apocalittica che noi italiani abbiamo imparato a conoscere bene grazie alle tante pellicole diretto da Sergio Martino, Enzo G. Castellari, Lucio Fulci, Joe D’Amato, etc, quelle versioni maccheroniche di mondi post atomici derivanti da Interceptor, Mad Max, 1997 Fuga Da New York e I Guerrieri Della Notte. Tra foto volutamente sfocate, face painting e pose allucinate, è inutile dire quanto le photosession dei Frost costituiranno il prototipo di tanto black metal cosplayer. L’album è registrato tra la Svizzera e la Germania, e non lascia scampo all’umanità, entro breve i Celtic Frost instaureranno la loro monarchia autocratica, pervasa di gloria grottesca.

La Grande Bestia viene dunque scatenata sulla Terra, scocca l’ora di uno dei più grandi album di sempre del metal ottantiano, ancora oggi direi ineguagliato per furore, visionarietà, pessimismo cosmico, senso di ineluttabilità. “To Mega Therion” significa esattamente ciò in greco – la grande bestia – un conio “magico” che dobbiamo ad Aleister Crowley. E se Crowley non vi basta come nume tutelare, arriva in soccorso pure Hans Ruedi Giger, il quale stringe un patto sacrilego con la band e concede i suoi servigi per l’artwork esterno ed interno (rispettivamente “Satan I” e “Victory III”), in odore di irridente blasfemia. Ain se n’è andato per divergenze appena due settimane prima dall’inizio delle registrazioni (pur avendo scritto l’album insieme a Fischer e St. Mark), al suo posto c’è Dominic Steiner, un uomo dalla fortuna sfacciata poiché con appena la militanza nella glam band Junk Food si ritrova assegnato un posto nella storia (anche se la sua storia personale discografica finisce lì… hai detto poco!). L’album spacca a metà la decade, spacca a metà il metal, spacca a metà l’immaginazione più temeraria e ambiziosa, perché un concept del genere non si era per davvero mai sentito prima. Chitarra, basso, batteria, ma anche timpani, corni francesi, voci liriche, la decadenza di un impero lascivo, corrotto e distruttivo, il crepuscolo degli uomini, masticati da divinità perverse ed indifferenti. Se dovessi immaginare l’ideale colonna sonora del Caligola di Tinto Brass penserei a “To Mega Therion”. Stavolta l’inner sleeve promette la successiva pubblicazione degli album “Into The Pandemonium” e “Necronomicon”, sembrano le anticipazioni dei film di James Bond con Sean Connery, che regolarmente sui titoli di coda annunciavano l’imminente arrivo del titolo successivo. Ain figura nei ringraziamenti, tante band sono oggetto di auguri di buona fortuna (i soliti Hirax, Cirith Ungol, Znöwhite, etc), mentre l’album viene consacrato ai programmi spaziali “Mercury” e “Gemini”, e dedicato in particolar modo all’astronauta Gus Grissom (del programma “Mercury”) e alla missione Apollo 1 (funestata da un incendio che uccise Grissom). L’abbandono di Ain è solo temporaneo, dovuto principalmente alla sua giovane età (17 anni) e alla conseguente immaturità. Fischer ha già un ottica devota e professionale, Ain fatica a starci dentro, ma passato lo scorno il legame che unisce i due musicisti si rinsalderà più forte di prima. La registrazione dell’Ep “Tragic Serenades” (1986) intende proprio riprendere tracce apparse su “To Mega Therion” ma stavolta suonate da Ain, come potessero idealmente andare a sostituire la performance di Steiner.

III – scoppia il pandemonio!

Progredire oltre “To Mega Therion” era impresa da titani, ma sono proprio i titani che fanno la storia e i Frost sono indelebilmente nelle pagine dei libri di storia. Trascorrono due anni, uno se pensiamo che con “Tragic Serenades” comunque il carrozzone era già rientrato temporaneamente in studio; può in un biennio una band stravolgere completamente il proprio sound, snaturarlo, estremizzarlo, atomizzarlo, rideterminarlo come qualcosa di completamente nuovo, diverso ed inaspettato? La risposta è che i Celtic Frost lo hanno fatto (per altro non una volta, ma almeno tre). Quanti seguaci della band nel 1987 saranno piombati dentro il Pandemonio? Se per l’84 e l’85 qualcuno ha parlato di semenza death metal (esattamente come i Venom ed i Bathory sono citati per quella proto black metal), il 1987 diventa l’anno dell’avanguardia. La cifra che più di ogni altra Fischer e sodali decidono di perseguire ferocemente è quella della sperimentazione, ogni altro tratto del sound Celtic Frost va rimodulato all’insegna di quel dogma, niente e nessuno dovrà ostacolare l’evoluzione nella direzione della sperimentazione più libera e totale. Si tratta di mettere in gioco la vera natura della band, antitetica al concetto di stasi, ripetitività e pigrizia compositiva. Il dna dei Celtic Frost è nomade, esistono fin tanto che sono in movimento, una perenne renovatio generatrice di energia, come una dinamo. “To Mega Therion” non aveva stravolto il sound precedente ma lo aveva portato ai suoi massimi confini, oltre poteva esserci solo l’ignoto e occorreva il coraggio e lacuriosità di andare ad esplorarlo, come gli astronauti tanto cari a Fischer.

La dimensione di “Into The Pandemonium” è enorme, occorreranno anni per comprenderla; sulle prime il pubblico rimane sorpreso, perlopiù negativamente. Un tale cambio radicale di prospettiva era impensabile e l’audience metal non sa letteralmente come maneggiare un album che va a pescare i suoi riferimenti altrove, distanti dal campo da gioco con le borchie. Il cantato di Fischer è gotico, dark, persino lagnoso; l’album è zeppo di ospiti tra cui voci addizionali, violinisti, violoncellisti, corni francesi, un direttore d’orchestra; la cover di una band new wave apre il disco (venivamo da “Necromantical Screams”, per dire), i Wall Of Voodoo, il cui cantante Stan Ridgway esercita una discreta influenza sul nuovo modo di cantare di Fischer; ma ci sono anche le sonorità robotiche, quasi dance – ritmiche sincopate dettate da una drum machine e falcidiate da samples – eppure stranianti di “One In Their Pride”, subito bissate dal groove acchiappone di “I Won’t Dance”, scelto beffardamente proprio come singolo dell’album…forse i Frost stavano pretendendo troppo dalla propria fan base, ma del resto si può chiedere allo scorpione della famosa storiella di non comportarsi da scorpione e di non pungere la rana sul cui dorso attraversa il fiume? La natura dei Celtic Frost era progredire, non farlo equivaleva ad estinguersi. Per comprendere appieno “Into The Pandemonium” ci vogliono anni abbiamo detto, vale per la critica (anche se qualcuno intuisce da subito che razza di monumento gli svizzeri abbiano partorito) e per il pubblico. Tanti sono i fan dei Frost che amano il primo periodo della band e che sì, d’accordo, ammettono che successivamente il loro corso “intellettualoide” li abbia distinti dalla massa, ma in realtà non hanno mai ascoltato con trasporto ed entusiasmo gli album venuti dopo “To Mega Therion”, non li amano proprio. La Noise per prima non crede in quel disco con un titolo così profetico; e persino Il Giardino Delle Delizie di Hieronymus Bosch che in copertina prende il posto di Giger pareva dover essere un segno premonitore. “Into The Pandemonium” è al contempo l’album che afferma, eterna e distrugge i Celtic Frost, con questo titolo diventano la band che tutti conosciamo ma è questo titolo che ne avvia la dissoluzione. L’avantgarde metal affonda i suoi pilastri qui ed è tale perché va oltre il metal, attingendo alle orchestrazioni, all’industrial, alla new wave, alla dub, al gothic rock ed espandendo a dismisura le radici doom e gloomy che erano presenti sin dai tempi degli Hellhammer. I testi sono ermetici, criptici, enigmatici, spesso con suggestioni di antiche religioni e mitologie, e con derivazioni letterarie, Baudelaire (“Tristesse De La Lune”, che conoscerà una doppia versione anglofona e francofona), Emily Brontë (“Inner Sanctum”).

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IV – (once) they were warriors

Se qualcuno avesse prestato più attenzione a cosa stavano cercando di dire i Frost nel 1987 forse quel qualcuno si sarebbe anche stupito meno quando nel 1988 un vinile dalla copertina suadentemente violacea fece la sua comparsa nei negozi di dischi. Due lettere al centro, affilate come lame, la C e la F di Celtic Frost, o come qualcuno avrebbe preferito (sempre quello di prima), Cold Fake. Bastava ascoltare certi passaggi di “Into The Pandemonium” (ovviamente “One In Their Pride” e “I Won’t Dance” su tutti), bastava fare 1+1 con la voglia matta di Fischer di sparigliare sempre le carte ed osare l’inosabile, bastava anche soltanto guardare certe foto dell’87, come ad esempio quella promozionale del singolo “I Won’t Dance” (con formazione a 4 inclusiva dello yankee Ron Marks), per cominciare a prefigurare l’abisso. C’era del make-up (vero make-up, non il face painting), c’era la lacca nei capelli, c’era un uso delle luci alquanto glamour, le pose non erano più da serial killer bensì virili e stentoree, ed il petto nudo faceva capolino sotto i giubbotti e gli spolverini all leather. Il più grande equivoco della storia del rock è stato probabilmente affibbiare l’etichetta di “glam” ai 38 minuti di scaletta di “Cold Lake”. Ma andiamo per ordine. Ain stavolta se ne va per davvero, l’addio è solido e ragionato, la botta presa dal rifiuto urbi et orbi di “Into The Pandemonium” lo demotiva, suonare nei Frost equivale a arrampicarsi sempre in salita. Non molla solo i compagni d’arme, molla propria l’esercito, esce dalla musica. Anche St. Mark se ne va, accetta l’offerta dei funksters Mindfunk. Lui viene sostituito da Priestly, il solito Priestly tappa buchi. Al posto di Ain invece arriva l’elegantone Curt Victor Bryant, proprio quando Ken Russell (altro genio pazzoide, o pazzo genialoide) propone alla band di curare la colonna sonora del suo film La Tana Del Serpente Bianco, i Frost però sono un vaso rotto e stanno provando a reincollarsi, tocca declinare. Completa la nuova line-up Oliver Amberg (proveniente sempre dalla fucina dei Junk Food). Praticamente Fischer ha lo scettro in mano e decide in completa autonomia delle sorti del gruppo, il che non significa che non accetti il contributo come songwriters dei nuovi band mates, anzi. Vive la cosa come una totale rifondazione del brand. Col senno di poi molti hanno attribuito l’esito di “Cold Lake” a questi avvicendamenti ma Fischer ha sempre tenuto a precisare (almeno fino a prima di “Monotheist”) che quello che registrò “Cold Lake” era un vero collettivo e non un accozzaglia di stipendiati tanto per arrivare ad un’incisione, quale che fosse.

A quest’altezza Fischer è convinto che gli Hellhammer avessero dei tratti di imbarazzo ai quali rimediare (e dice che pure Ain condivideva lo stesso pensiero), che fossero limitati musicalmente e strumentalmente. Fischer non era uno che quasi si gloriava di non saper suonare (come i Venom), voleva che i suoi meriti e riconoscimenti passassero anche da una buona perizia esecutiva e da un’ottima produzione (aspetto che infatti ha sempre curato con attenzione). “Cold Lake” matura nella determinazione che la band debba trovare il giusto bilanciamento tra divertimento e professionalità (ovvero serietà, che è cosa diversa dalla seriosità). Nelle interviste Fischer lo definisce un “lighthearted album” che aveva anche la funzione di sollevare con spensieratezza gli animi della band dopo tutte le traversie finanziarie avute con la Noise a causa di “Into The Pandemonium”, e si lascia andare a flirt sperticati con i Motley Crue, una specie di creatura dai tratti forse un po’ mostruosi ma a suo modo anche affascinanti. Warrior (che smette di farsi chiamare Warrior) si presenta alle interviste con le t-shirt degli L.A Guns. Non solo riff e sperimentazione, stavolta i Frost devono scrivere canzoni dall’inizio alla fine, buone canzoni, intere e compiute, ed il valore di questa sostanza deve essere premiato da una forma all’altezza, una produzione con un budget da major, con un produttore da major (Tony Platt). C’è anche un input esterno che scava nel cervello di Fischer come una goccia nella roccia, sua moglie Michelle Villanueva. Contribuisce ai cori e a qualche testo, ma soprattutto diventa il termometro e la medicina del benessere mentale di Thomas. La Villanueva allevia la naturale inclinazione di Fischer al paludamento tenebroso. Arrivato dalla minuscola e periferica Svizzera per essere investito dalla pantagruelica America, l’ex Warrior viene preso per mano dalla bella Michelle e si rende conto che può accantonare nichilismo e parafernalia necrofili arrivando persino a godersi il sole, l’oceano, le camicie hawaiane e una vita da rockstar “normale”. Non dico sia andata esattamente così, come una puntata di Baywatch, ma suppergiù questo è quanto verosimilmente può essere accaduto.

I discorsi stanno a zero, anzi sono proprio stati rasi al suolo quando lo sguardo dei metallari si è posato sulle foto della band a corredo di “Cold Lake”. Capelli cotonati, bretelle, pantaloni sbottonati, guantini bianchi e poi tutto quel fucsia strabordante. Pareva di aver attraversato uno stargate e di essere passati da Zurigo al Whisky a Go Go senza soluzione di continuità. Certo, magari si poteva prendere la cosa anche con un filo di ironia in più, ma la reazione invece fu stizzita e avvelenata. I Frost dichiararono (malamente, un po’ da paraculi) di essere stati mossi da un intento parodico nei confronti di certo glam metal; i titoli delle canzoni, il cromatismo, il look, il modo di porsi, tutto pareva portare nella direzione di un ruffianissimo hair metal, che tuttavia non aleggia minimamente nei solchi di “Cold Lake”, un album solidamente metal, ancorché “catchy”. Troppo squadrato e tedesco per piacere ai rocker a stelle e strisce, ma al contempo troppo poco rude per ammansire i duri e puri della prima ora. Metteteci poi che con quel disco i Frost vanno in tour assieme ai Destruction (di “Release From Agony”) e la frittata è fatta. “Cold Lake” è un buon lavoro, soprattutto è coraggioso, ma ha il nome della band sbagliata in copertina. L’unico titolo della discografia che Fischer si è sempre rifiutato di ristampare.

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V – Metal e basta

Il calendario segna l’avvento del 1990, inizia una nuova decade, che non sarà affatto indolore per il “vecchio” metal degli ’80. I Frost ci arrivano “frostornati”, ammaccati come un pugile che ne ha prese troppe sul ring, anche lo stile musicale di “Cold Lake” è già vecchio e sorpassato; per la band di “Morbid Tales” e “Into The Pandemonium” è stata una rivoluzione copernicana, un po’ come Lucifero che di colpo va in chiesa, ma per il resto del mondo è già il passato remoto. In qualche maniera Fischer – ora coadiuvato da Priestly, Bryant e da Ron Marks, ma c’è pure Ain che suona il basso in “Heart Beneath” e partecipa ai cori in “Wine In My Hand (Third From The Sun)” – realizza che la barra va raddrizzata, tornare agli esordi sarebbe senza alcun senso ed altrettanto fuori tempo, tuttavia la progressione da qualche altra parte deve portare. Sembrano trascorsi eoni anche se i Frost sono in trincea da poco più di un lustro. L’uovo di Colombo si rivela la summa di tutto il percorso affrontato sin lì. Ogni esperienza pregressa viene sintetizzate e fusa con le altre, ed alla fine la risultante viene ulteriormente sfrondata di ogni elemento superfluo. I Celti svizzeri concepiscono un album che è l’anima più pura del loro essere metal, l’essenza, il nucleo primario, il distillato basico e sorgivo. “Vanity/Nemesis” è una parziale marcia indietro rispetto all’eccesso di provocazione di “Cold Lake” ma non si tratta di scuse eclatanti e contrite rivolte ai propri fans. E’ tutta una questione di prospettiva, chi vede il bicchiere mezzo vuoto dice: “beh, almeno è più metal di Cold Lake e nelle foto i ragazzi non hanno i pantaloni sbottonati” (ma Curt Victor Bryant non rinuncia comunque ad offrire il masculo petto); chi vede il bicchiere mezzo vuoto pensa: “sempre troppo molli e pretenziosi rispetto al 1985“.

Se fate un compendio di queste posizioni contrapposte e la sublimate in un’ottica più costruttiva, avete una possibile chiave di lettura di “Vanity/Nemesis”. L’album conserva il tratto saliente e caratteristico dei Frost, suona come nessun altro disco in circolazione. E’ sempre stato così con gli svizzeri, che si trattasse del proto black degli esordi, del fiammingo “Into The Pandemonium”, del rock ‘n’ roll ossidato di “Cold Lake”, nessun’altra band ha mai saputo e potuto riprodurre la visione dei Celtic Frost. E’ stato soprattutto questo il loro punto di forza, essere qualcosa di completamente diverso ad ogni nuova release, ed al contempo perfettamente logica, consequenziale e riconoscibile (in ciò eguagliati forse solo dai Voivod). In una parola: evoluzione. Ma intelligente e talentuosa. “Vanity/Nemesis” non fa eccezione, c’è tutto il Frost pensiero dentro, elevato a nuova forma e potenza. E’ un disco che fa convivere perfettamente due attitudini, è crudo ma anche assai raffinato. Se ascoltate le chitarre, il riffing (c’è tanto materiale anche qui da saccheggiare per gli Obituary, nonostante non si possa in alcun modo parlare di death metal), la batteria ossuta e lapidaria, la Produzione che permea suoni e suggestioni, è possibile cogliere l’onnipresente scintilla dei Frost; tuttavia l’artwork, i testi cerebrali, le atmosfere un po’ fredde, asettiche e trattenute, un certo senso di tragedia che aleggia tra i solchi e le improvvise aperture melodiche all’interno dei pezzi, fanno calare sul palcoscenico drappi di velluto damascato che rendono l’ascolto sofisticato, colto e un cincinino pomposo.

Facendo finta di saltare ad occhi chiusi sopra la fossa di “Cold Lake”, il punto di contatto più vicino a “Into The Pandemonium” si rivela essere per paradosso una cover, la reinterpretazione di “This Island Earth” originariamente di Brian Ferry. Ma nel 12 pollici di “Wine In My Hand” (e poi nelle ristampe del CD come bonus track) c’è pure “Heroes” di David Bowie – altra versione decisamente stravolta – amatissimo da Fischer. Dunque alla fine della fiera cosa è questo “Vanity/Nemesis”? E’ l’heavy metal secondo i Frost. I nostri lo avevano sempre sfiorato e circumnavigato fino ad ora, lo avevano iniettato da subito di particelle black (quando ancora neanche si sapeva cosa fosse il black), doom, death, thrash, progressive e financo sleaze, ma non lo avevano mai attraversato di netto. Ora i Frost danno alle stampe un album semplicemente metal, nella sua compiutezza e concretezza (beh…. “semplicemente” sempre fino ad un certo punto con questi svizzeri). Sappiamo e possiamo fare anche questo, si dicono. Nessuno però gli concede ulteriore credito, i Frost si sono giocati quasi tutta la credibilità con “Cold Lake” e l’album viene ignorato o, peggio, rifiutato a prescindere, senza neanche andare a verificarne l’effettivo valore con mano. Le vendite sono modeste, idem la promozione; vengono cancellate date live in Germania, i Frost suonano appena in Gran Bretagna e in Danimarca. L’ultimo concerto si tiene alle Assembly Rooms di Derby il 19 maggio 1990, poi l’evaporare di un ultimo disperato tentativo di accordo con Sony Music quasi pone la pietra tombale sulla band.

VI – il monoteismo soppianta le muse. la fiamma si spegne, per sempre

Nel 1992 la Noise fa uscire “Parched With Thirst Am I And Dying”, molto più di una semplice raccolta celebrativa. “Vanity/Nemesis” non ha riacceso l’attenzione che circondava e coccolava la band nella seconda metà degli anni ’80. I Frost hanno provato in ogni modo a rimanere a galla e inventarsi qualcosa ma il pubblico non ha risposto. Una raccolta in questi casi è sempre la via maestra, si prende tempo, si guarda l’effetto che fa e, in caso, funge da testamento. Siccome i Frost non fanno mai le cose tanto per fare, anche un banale greatest hits in mano loro diventa una perla della quale non ci si può privare. Ecco quindi tredici tracce (nella versione vinilica, diciotto in quella su cassetta e CD) necessarie e imprescindibili. Pochissime le versioni identiche a quelle già apparse sui sei dischi pubblicati. I nostri variano le trame, allungano, aggiungono, ri-registrano, cambiano idioma, regalano veri e propri inediti e b-sides di rara reperibilità. Canzoni come “Idols Of Chagrin” e “Under Apollyon’s Sun” – poste rispettivamente in apertura e chiusura della scaletta – fanno sognare molti su quale sarebbe potuto essere l’esito dei Celtic Frost del dopo “Vanity/Nemesis”, su quale direzione stilistica avrebbero potuto intraprendere dopo aver esplorato molti dei tanti mondi possibili dell’universo metallico. Roba da far venire l’acquolina in bocca. E però rimane un sogno, dal quale per altro ci si risveglia bruscamente. I Frost chiudono definitivamente bottega.

Dal 2001 prendono corpo le voci di una possibile reunion di Fischer, Ain e Reed St. Mark, assieme a Erol Unala (cofondatore con Fischer degli Apollyon Sun). Lavorano su di un nuovo disco intitolato “Probe”; nel 2003 vede la luce il demo “Ground”. Il titolo (provvisorio) del futuro full length muta in “Dark Matter Manifest”. Procede la registrazione di nastri e demotape fin quando nell’agosto del 2005 la band entra negli Horus Sound Studios di Hannover assieme a Peter Tägtgren (Pain e Hypocrisy); Reed St. Mark però non c’è, alla batteria siede Franco Sesa. Il 29 maggio 2006 esce “Monotheist”, 2500 copie vendute negli U.S.A. in una settimana ed esordio al 41° posto delle charts svizzere. I tour di supporto al disco registrano entusiasmo e fame di Celtic Frost. Ad aprile 2008 Fischer esce dal gruppo, suona strano lo so, in pratica esce da ste stesso; adduce il deteriorarsi dei rapporti personali all’interno della band. Tutte le date live previste vengono cancellate e Fischer fonda i Triptykon (con dentro Reed St. Mark). Martin Ain dichiara che i Frost hanno finito col ripiegarsi troppo ed esclusivamente sul loro lato “morbid”. Praticamente il 50% della loro carriera, tre album, un intero lustro buttato nel cesso. Senza contare le odiosissime interviste di Fischer a corredo di “Monotheist” nelle quali, per rifarsi una verginità nera, sputa veleno insensato su “Cold Lake”, album del quale dice di vergognarsi. Nel settembre del 2008 Ain e Fischer dichiarano congiuntamente: “In seguito agli eventi accaduti qualche mese fa, noi, che abbiamo formato insieme i Celtic Frost nel 1984 e li abbiamo riformati nel 2001, abbiamo discusso riguardo alla situazione e abbiamo deciso che qualsiasi continuazione della band senza uno di noi sarebbe in contrasto con le nostre idee iniziali e dannosa per l’eredità del gruppo. Abbiamo quindi deciso insieme di sciogliere la band e di custodire e onorare quello che abbiamo creato nel corso della storia di questa band veramente unica“. Il 21 ottobre 2017 Martin Eric Ain muore per un attacco cardiaco all’età di 50 anni. “Monotheist” è esattamente ciò che Ain aveva detto, un album tutto ripiegato su un pezzetto di storia dei Celtic Frost, un album pavido, senza visione, senza coraggio, tutto intento a riacchiappare i fans perduti, quasi un prodotto di mero fan-service, sebbene rappresentasse ciò che Fischer probabilmente desiderava realmente fare in quel momento. Pur di togliersi di dosso l’onta di “Cold Lake” (ma evidentemente anche allontanarsi da “Into The Pandemonium” e “Vanity/Nemesis”) avrebbe inciso persino una messa nera dal vivo…. ma a quello ci aveva già pensato Steve Sylvester nel 1989.

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Discografia Relativa

  • 1984 – Morbid Tales (Ep)
  • 1985 – Emperor’s Return (Ep)
  • 1985 – To Mega Therion
  • 1986 – Tragic Serenades (Ep)
  • 1987 – Into the Pandemonium
  • 1988 – Cold Lake
  • 1990 – Vanity/Nemesis
  • 1992 – Parched with Thirst Am I And Dying (best of)
  • 2006 – Monotheist

2 Comments

  • Antonello
    Posted Maggio 25, 2022 at 5:05 pm

    Ciao Marco, complimenti per l’articolo, molto bello. Permettimi una domanda: ma lo ritieni così anonimo e brutto Monotheist? Per me è bellissimo, una versione aggiornata dei Frost all’estremismo degli anni 2000, con un pezzo come “A dying god …” da brividi …
    Antonello

    • Post Author
      Marco Tripodi
      Posted Maggio 25, 2022 at 7:38 pm

      Ciao Antonello, è un piacere averti sul blog. Monotheist taglia via 20 anni di musica dei Frost, hai ragione nel dire che può essere letto come un aggiornamento agli anni 2000 dei loro primi lavori ed il punto è proprio quello, lo trovo riduttivo perché nel frattempo avevano dimostrato di essere anche tanto altro. Una scelta così netta ed integralista mi è sembrata poco felice nei confronti di chi li aveva seguiti anche dopo il 1985, li aveva amati ed aveva creduto in quegli album. Non mi appassiona, ma il limite è tutto mio, l’album conta tantissimi estimatori, a conti fatti molti di più di quanti apprezzano Cold Lake, ad esempio. Rimango legato ai Frost del secolo precedente, li trovavo più stimolanti e coraggiosi.

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