Se ad un certo punto Betty Rizzo fosse uscita dallo schermo dove proiettavano “Grease” (come i personaggi de “La Rosa Purpurea Del Cairo” di Woody Allen) ed avesse deciso di cantare in una band heavy metal, si sarebbe trattato certamente dei Bitch di David Carruth e Robby Settles. I due texani però la loro Rizzo l’avevano già trovata, si chiamava Betsy anziché Betty, adorava Alice Cooper ed andava fiera di portare quel nome: bitch.
Contenuti:
1. Due texani a Los Angeles (1976 – 1981)
2. Datemi una frusta e solleverò il mondo (1982)
3. Sporcizia in onda (1983 – 1986)
4. Una sgualdrina upper class (1987 – 1988)
5. Il nome della Rosa (1989)
1 – due texani a los angeles
La genesi dei Bitch ha curiosamente luogo senza che in formazione sia in realtà presente alcuna intestataria di quell’attributo “edificante”. Sono due uomini a fondare la band, i texani David Carruth e Robby Settles. I due si conoscono sin dall’infanzia ma si separano geograficamente quando Carruth si trasferisce a Los Angeles. Qui fa il chitarrista in una band chiamata Bad Axe (assieme al futuro bassista degli Slaughter, Dana Strum), suona live nella sventagliata di celebri club locali e pubblica con i Bad Axe un album omonimo ed un 7” tra il 1976 ed il 1977; poi Carruth viene defenestrato da Strum. E’ a quel punto che torna a far coppia con Settles, pure lui nel frattempo spostatosi a Los Angeles. Settembre, anno domini 1980, nascono i Bitch. A dispetto del provocatorio monicker scelto (che sta per “donna dai costumi non proprio irreprensibili”, ma anche “cagna” e/o “stronza”), inizialmente il gruppo era inteso come tutto al maschile, non era in progetto di avere una ragazza in formazione, men che mai una frontwoman. Il proposito in realtà dura poco perché Carruth è sempre più coinvolto da gruppi guidati da cantanti donne, come i Pretenders, i Pearl Harbor And The Explosions, i Blondie; tuttavia il suo progetto diventa farne una versione più intensa e pesante, fortunatamente trovando in questo anche il consenso di Settles. Serviva dunque individuare chi potesse incarnare i panni della fatidica “bitch” del caso. Il primo giro di “stronze” (inteso in senso buono) riguarda delle chitarriste, che a cantare fosse un uomo rimaneva un punto fermo.
Carruth e Settles (rispettivamente chitarra e batteria) pubblicano comunque un annuncio anche per una cantante, giusto per vedere l’effetto che fa, e l’unica a rispondere è una tale Betsy M. Weiss, ventenne originaria del New Jersey trasferitasi in California 12 anni prima, grande fan di Alice Cooper, David Bowie e Cheap Trick, ma anche delle Ruanaways, degli Angel e dei Judas Priest. Canta sin dai tempi del liceo, pensa di cavarsela bene col microfono ed ha una spiccata predilezione per le esibizioni grintose. Ha già fatto parte di altre band, come ad esempio i The Boxboys, dediti inizialmente ad un rock influenzato dalla new wave per poi spostarsi su territori schiettamente mod, ska e reggae. Si esibivano vestiti di tutto punto con uniformi in linea con lo stile musicale, divise dal taglio maschile che nei concerti doveva indossare anche Besty (cosa che in effetti gradiva poco). Betsy fa appena in tempo a comparire su due 7” pollici pubblicati dal gruppo per poi decidere di interrompere quell’esperienza (venendo sostituita da Lisa Bosch poco prima che il gruppo si areni definitivamente ma, nonostante questo, acquisendo ugualmente un certo status di cult band negli USA, tanto che gli Untouchables – tra i nomi più importanti dello ska americano – li considerano i propri numi tutelari).
Betsy Weiss, libera da ogni ingaggio, decide di rispondere all’annuncio di Carruth e Settles. Alla domanda su quali fossero le sue esperienze pregresse, Betsy invita i ragazzi a comprarsi un singolo dei The Boxboys. Risposta secca e un po’ sfacciata, alla sua maniera. Carruth e Settles non si scompongono ed obbediscono prontamente. Un nuovo orizzonte si spalanca loro davanti: avere una personalità vistosa, marcata e smagliante come biglietto da visita della band (a cui affibbiare il nomignolo di “bitch”), anziché una chitarrista che avrebbe pur sempre dovuto combattere con un cantante uomo per strappare un po’ di attenzione. Pare l’uovo di Colombo ed in effetti lo è. Assunta la nuova ragazza e imbarcato pure Kevyn Redwine al basso, la line-up è completa. Il nome sul palco della Weiss sarà Betsy Bitch; nessun problema per Betsy, sentirsi chiamare ogni sera “stronza” fa parte del suo personaggio, esattamente come quello che interpreta Vincent Damon Furnier, aka Alice Cooper, solo che nel caso di Betsy il confine con il proprio alter ego è parecchio più sottile. Musicalmente il motore dei Bitch è Carruth ed il bacino di utenza del suo songwriting sono il punk, la new wave, il pop più energico e potente, la NWOBHM ed il garage rock. La sua band preferita all’epoca sono i The Dictators ma scova nomi sperduti e li sottopone continuamente ai compagni perché si facciano le ossa con un certo sound, vedi ad esempio i francesi The Warning (orbitanti tra sonorità NWOBHM e punk), assieme a marchi più solidi e in ascesa in quel periodo come Iron Maiden, Saxon e Angel Witch. Carruth macina rock e metallo nascente, assommando gruppi ed influenze come una vorace betoniera, vedi Riot, Michael Schenker, Gary Moore, Legs Diamond, primi Scorpions, Motörhead, ovviamente Deep Purple e Led Zeppelin.
II – datemi una frusta e solleverò il mondo
Nel volgere dai ’70 agli ’80 il negozio di dischi Oz Records a L.A. è una tappa obbligata (anche per Carruth). Ci lavora Brian Slagel con il quale David fa presto amicizia. Slagel è matto per il metal americano e di importazione tanto quanto Carruth. Fonda una fanzine (The New Heavy Metal Revue) e organizza concerti underground; mette assieme le due cose e decide di produrre un album di sampler da allegare alla webzine e distribuire ai concerti. Si chiamerà “Metal Massacre” (non so se vi ricorda qualcosa…). Invita Carruth a farne parte con i suoi Bitch, purché gli sottoponga un loro demo. Carruth non se lo fa ripetere due volte e gli consegna presto quattro tracce: “Never Come Home”, “You’re On Your Own”, “I Think We’re Alone Now” e “Live for the Whip”. Slagel sceglie l’ultima e la posizione come seconda in scaletta nella sua compilation (tra gli Steeler ed i Malice); si tratta del debutto ufficiale dei Bitch (1982), discograficamente parlando, perché il loro primo palco è quello del Troubador, il 1° maggio del 1981, assieme ai Dante Fox (futuri Great White). All’epoca il nome della band è certamente un tabù più forte di quanto non lo sarà qualche decade dopo (ampiamente sdoganato, tanto da far apparire “Bitch” una scelta persino timida alla luce di volgarità, blasfemie e mostruosità varie partorite dal fecondo universo borchiato), prova ne sia che il cartellone della serata reca i “Pitch” anziché “Bitch” come live act. Finalmente Betsy non si esibisce più acconciata da maschiaccio, anzi, urla il suo sex appeal a pieni polmoni, come del resto il monicker della band richiede, e quel magnetismo animale non passa affatto inosservato agli occhi dei maschi sotto il palco.
Costituitasi la Metal Blade Records con a capo Slagel, è piuttosto naturale che il primo album dei Bitch sia prodotto proprio dall’amico fraterno di Carruth. “Damnation Alley” arriva nei negozi il 1° dicembre 1982, un regalo natalizio di 21 minuti suddivisi in cinque tracce e con un paio di maliziosissime tette in copertina, quelle di Betsy naturalmente, sovrastate da una collana luccicosa che funge da logo della band. Il vinile ha il foglio interno dei testi e le prime copie recano l’autografo della band e una spilletta omaggio. “Never Come Home” e una nuova versione di “Live For The Whip” sono in scaletta, assieme ad altre tre tracce inedite. Al basso c’è Richard Zussman, che però lascerà subito dopo le registrazioni. Lo sostituirà Mark Anthony Webb, accreditato come musicista dell’album pur non avendo suonato mezza nota. La versione di “Live For The Whip” è una ri-registrazione professionale del pezzo già apparso su “Metal Massacre”, nessuna variazione sostanziale, solo prodotta con un miglior budget. L’immaginario dipinto dai Bitch in “Damnation Alley” mette assieme un po’ di maledettismo stradaiolo (nella title-track), un po’ di romance e ovviamente ammiccamenti sessisti, contenuti in Saturdays” (dove l’uomo a cui Betsy si rivolge le dedica attenzioni solo nei giorni feriali perché quando arriva il sabato va in cerca di altre “esperienze”) e nella canzone della frusta – “Live For The Whip” – inizia qui l’epopea sadomaso della band. Riguardo all’impronta fetish che ha finito col caratterizzare tutta la prima parte di carriera dei Bitch, Betsy ha più volte dichiarato che fu una precisa scelta estetica, una visualizzazione grafica adottata per caratterizzare i concerti e offrire al pubblico una semantica forte e memorabile. Questo inizialmente ebbe come rovescio della medaglia che Betsy riceveva lettere da fan e spettatori delle sue performance nelle quali le veniva chiesto di offrire prestazioni private a casa come dominatrix, e non di rado veniva scambiata per una vera e propria escort.
III – sporcizia in onda
Dopo lo split del 1983 contenente sul lato A “I’m In Love” dei Bitch e sul lato B “Nightmares” degli Hellion (un’altra forza della natura, Ann Boleyn), nello stesso anno viene pubblicato “Be My Slave”. La copertina è quanto di più esplicito possa esserci, praticamente la declinazione plastica ed inequivocabile del concept Bitch. Una foto “a tutto schermo”, si direbbe oggi, di Betsy in tenuta “da guerra”, con un gatto a nove code (comunemente detto frustino) nella mano destra ed una catena in quella sinistra. Coincidenza, appena un mese dopo, ad agosto, i Savage Grace faranno uscire l’Ep “The Dominatress” con una copertina decisamente in scia a quella dei Bitch. Col dito indice Betsy ci invita ad entrare nel suo mondo, ci sta aspettando, il suo sguardo ci sta già mangiando con gli occhi e nel momento in cui ci chiuderemo dietro la schiena la porta del suo dungeon saranno dolori. La promessa è solenne, corroborata anche da una quantità sparpagliata di “attrezzi di piacere” attorno a Betsy. Il titolo dell’album poi non lascia adito a dubbi. Tutti i testi stavolta escono dalla penna di Betsy, tranne “Riding In Thunder” (scritta in toto da Webb). L’album viene pubblicato sia in vinile che in cassetta, offrendo internamente due diverse foto della stessa sessione fotografica, e in più la tracklist lato A della cassetta offre di nuovo “Live For The Whip” come traccia bonus. Tra leather, sottomissione, guerra, sesso e heavy metal, l’orizzonte “culturale” di “Be My Slave” è decisamente intenso e minaccioso; certamente viene percepito come tale dalla Giovanna D’Arco della borghesia perbenista benpensante americana, Tipper Gore, moglie del quasi Presidente Al Gore, nonché leader del Parents’ Music Resource Center, arcinoto come PMRC. L’Associazione si impunta in una crociata contro il metal, i suoi testi e le sue immagini, altamente diseducativi per i ragazzi cresciuti dallo zio Sam. La copertina di “Be My Slave” viene additata come pornografica (con precisi riferimenti ai testi di “Leatherbound” e “Gimme A Kiss”). Si citano articoli di giornale come ad esempio quello del Washington Post intitolato “Filth on the Air” – sporcizia in onda – scritto da William Raspberry, nel quale si mettono in guardia le radio dal trasmettere quella musica (dove “quella” sono i Bitch) che i genitori non vorrebbero far ascoltare ai propri figli. A causa di questo attacco diretto, sulle successive stampe dell’album viene affisso l’adesivo “Warning: Adult Content” (diverso dal leggendario “Parental Advisory: Explicit Lyrics” col quale abbiamo poi familiarizzato), un battage pubblicitario ideale che fa da propellente ai Bitch e per il quale Betsy non ha mai finito di ringraziare Tipper Gore.
Betsy si afferma definitivamente come un’eroina del rock duro (ironizziamo il meno possibile su quel “duro” per piacere…), in un momento nel quale il female fronted metal non è esattamente all’ordine del giorno. Betsy catalizza l’attenzione, non ha l’ugola fantasmagorica di una Ann Wilson, non ha la prestanza fisica di una Lorraine Lewis, non ha l’aggressività di una Sabina Classen, non ha l’ortodossia di una Doro Pesch, non ha insomma molte delle caratteristiche che contribuiranno a declinare lo stereotipo della metal lady; Betsy però è tosta, volitiva, determinata, provocatoria, un po’ strafottente, ha una voce potente ma non esagerata, non copre un range di ottave stratosferico, non è casta ma non è neanche “zoccola” fino in fondo. Ammicca e allude ma canta, la sua sensualità è pur sempre sostenuta e controbilanciata dalla performance canora, impressionante per potenza; ha grinta ed è energica, ed è un valore aggiunto alla sua band. Pure la faccenda del BDSM…. per quanto in ambito metal tutto venga sempre vissuto con grande seriosità, accentuando ed esasperando ogni sfumatura come si trattasse di dogmi sacri ed in violabili (in fin dei conti, esattamente l’approccio del PMRC), la band gioca molto su quell’aspetto, costruendo un’immagine e degli spettacoli finalizzati al puro intrattenimento; certo, avendo la strada spianata grazie ad una femminilità prepotente ed esibita come quella di Besty Weiss, ma anche facendo ricorso ad una certa dose di ironia che perlopiù le platee metal non sembrano afferrare fino in fondo, ottenebrate dai seni di Betsy sempre in evidenza e dai sex slaves (rigorosamente maschili) che strisciano sul palco durante i concerti della band.
IV – una sgualdrina upper class
Passato il ciclone moralista che costringe i Bitch ad occuparsi di burocrazia e scartoffie anche legali per qualche anno, nel 1987 esce finalmente un seguito di “Be My Slave”, ovvero “The Bitch Is Back” (titolo chiaramente debitore di Elton John, nel senso che la canzone che dà il nome al disco è proprio una sua cover). C’è un nuovo bassista in formazione, è Ron Cordy, precedentemente negli Overkill, omonimi dei metallers col teschietto alato di New York (tant’è che avevano la desinenza L.A. per indicare la propria provenienza geografica), autori di un EP nell’82 e di un unico full length nell’85, e ospitati su “Metal Massacre n. 2” con una propria canzone in scaletta. Il produttore è una vecchia conoscenza di Betsy, addirittura un suo ex compagno di scuola, si tratta di Joe Romersa, che suona anche le tastiere in alcune canzoni. Di nuovo l’album contiene al suo interno i testi mentre la foto in copertina gioca più di fino, Betsy è nuda ma un nudo elegante, senza parafernalia fetish, piuttosto una specie di novella Venere che emerge da un lampo di luce su sfondo rossastro (più alla Russ Meyer che botticelliana), con trucco, parrucco e gioielli da gran signora dei quartieri bene (ma dalle pessime abitudini in camera da letto). A scanso di equivoci comunque il titolo dell’album ci ricorda che la “stronza è tornata”. Il tono generale è sempre bollente ma complessivamente più signorile e raffinato. Praticamente si compone perfettamente il quadro rappresentato nel film con Joan Collins (proprio “The Bitch”, del 1979), con la bella signora dal ricco conto in banca ma dalle abitudini da bordello, impossibile che Carruth e Settles non ci abbiano pensato quando hanno progettato il concept dei Bitch. Musicalmente l’album procede con coerenza allo stesso modo, “The Bitch Is Back” è un’evoluzione minimamente più aggraziata di “Be My Slave”, c’è del velluto ma non per questo i Bitch hanno perso mordente, quando c’è da menare alzano le mani senza tanti complimenti. Diciamo che il sound è meno a testa bassa e più ragionato, del resto la maturazione porta anche a questo. Il disco diventa il loro best seller, trainato da tracce portentose come “Do You Want To Rock”, “Hot & Heavy”, “Head Banger”, “Turns Me On”. Stando a quanto dichiarato dai due, è anche il preferito di Carruth e Settles in carriera. L’assolo di sassofono sulla title-track è eseguito dal sassofonista jazz Stan Weiss… esatto, il padre di Betsy.
Il bel successo di “The Bitch Is Back” mette fame alla band, si sa l’appetito vien mangiando. Pare che i tempi siano maturi per trascendere i confini e spingersi persino oltre il metal, magari verso quel power pop che Carruth ha sempre seguito con ammirazione. Il primo e più grande ostacolo verso il mainstream è naturalmente il nome della band, volgare ed esplicito. Dunque “new name, new approach” (come reciterà l’adesivo appiccicato sulla copertina del nuovo album). Step numero 2, un budget all’altezza perché, se nel metal la produzione non è sempre di primaria importanza nel successo di un album, fuori da quei confini talvolta può persino “risolvere” le sorti di dischi mediocri a livello di songwriting. Bitch diventa Betsy, senza bisogno che il riflettore si sposti di un centimetro dalla frontwoman. Come produttore viene individuato Chris Minto, già a lavoro per Kiss, Whitesnake, Armored Saint, Pat Benatar e Patti Labelle. Ed è proprio una presunta somiglianza timbrica tra Betsy e la Benatar che stimola Minto a lavorare per Metal Blade al disco. Nel processo di scrittura viene coinvolto pure Pam Barlow, amico della moglie di Minto, il quale a sua volta butta dentro il progetto altri colleghi, Bruce Turgon (songwriter per Warrior, Lou Gramm e Foreigner) e Gary Cambra (The Tubes). Questa armata discografica partorisce un lavoro decisamente più commerciale (volutamente tale), che sposta l’asse dal metal all’hard rock e all’Aor. “Devil Made You Do It”, “You’ll Never Get Out (Of This Love Alive)” e “Turn You Inside Out” vengono scelti come singoli e per due di questi – “Turn You Inside Out” e “You’ll Never Get Out (Of This Love Alive)” – vengono girati i relativi videoclip. La copertina è elegante, da grand soirée nella metropoli; skyline illuminato sullo sfondo, nuovo logo modello lussuosa auto d’epoca (ridisegnato da tale Rockwood Rice) e Betsy pronta per il suo principe azzurro, cena al ristorante stellato, teatro e fine serata (si spera) promettente….
Nulla però va come previsto, l’album non viene accolto e non vende come band e label si aspettano, i Betsy non riescono ad andare in tour per supportarlo e pubblicizzarlo adeguatamente. Per qualche motivo, il passato dei Bitch pesa sul futuro dei Betsy, un po’ come accade alla pornostar che cercano di riciclarsi con nuove carriere fuori dal circuito delle luci rosse. Il metal difficilmente perdona queste alzate di testa, vissute come veri e propri “tradimenti”, e d’altrocanto “Betsy” rimane un album sin troppo rock e affilato per piacere ad un’audience che tradizionalmente non è avvezza a quelle sonorità. D’accordo l’eleganza patinata, ma pur sempre tale se rapportata alla ruvidità borchiata, perché oltre tali colonne d’Ercole tutta questa aristocrazia elegiaca non viene affatto percepita. La band meritoriamente non ha mai rinnegato questo esperimento commerciale, segno che in fondo ci credeva oltre che sperarci; Betsy stessa lo reputa addirittura il suo album preferito del franchise dei Bitch. Indubbiamente lo sforzo produttivo di “Betsy” è il più importante di tutta la loro carriera, il lavoro viene approntato con i fiocchi, sia professionalmente che badando alla sostanza (le canzoni); non credo si possa dire che sia un disco fiacco o mediocre. Le sonorità si ammorbidiscono ma la qualità c’è, in questo sono totalmente d’accordo con Carruth e Betsy. Metal Blade non ha mai ristampato l’album.
V – il nome della rosa
Nel 1989 viene pubblicato un best of intitolato “A Rose By Any Other Name”, ultima release con la line-up classica della band. Si ritorna al monicker storico, il passo nel mainstream è andato male, beffardamente male, e allora tanto vale rimettersi la maschera da “stronze”, chi nasce tondo non può morire quadrato. L’album si apre con “Walls Of Love”, l’unico vero inedito, “Throw Me In” arriva dalle sessions di “The Bitch Is Back”, la strumentale “Crashthepartysmashthecake” da quelle di “Be My Slave”, le restanti sono remixed versions. Abitualmente questo viene considerato l’ultimo album prima dello scioglimento dei Bitch, che in effetti però non si sono mai sciolti ufficialmente. Saltuariamente la band continua ad esibirsi dal vivo tra gli anni ’90 e i 2000 senza mai cedere alle sirene dei trend imperanti, niente flanella, nu metal o clangori industriali. Coltivano magari individualmente piccoli progetti locali ed underground senza mai coinvolgere ed infangare il blasone dei Bitch. Dieci anni dopo la Rosa, Betsy sembra sul punto di accordarsi con Metal Blade per un nuovo album, vengono scritti diversi pezzi e registrati in versione demo da una line-up diversa da quella originale. Il progetto sfuma e nel 2003 Carruth non fa più parte ufficialmente dei Bitch, all’indomani del “final show” del 27 giugno 2003 al Bang Your Head di Balingen (che già vedeva Johnny Zell al basso al posto di Cordy). Ironia della sorte, l’ultimo show è anche il primo mai avuto dai Bitch in Europa e per altro davanti ad un pubblico così ampio.
Irriducibile e confortata dal responso dei fans della vecchia Europa, Betsy cerca di mantenere i Bitch in piedi in qualche modo (verrebbe da dire in ogni modo), arruolando via via musicisti che le possano garantire innanzitutto esibizioni live e magari chissà, in un futuro prossimo un nuovo contratto discografico ed un clamoroso ritorno dei Bitch. Se ne parla ciclicamente da 20 anni oramai. Gli album della band vengono ristampati e di tanto in tanto si legge di questo o quell’axeman messo sotto contratto da Betsy. Così passano sostanzialmente le prime due decadi del nuovo millennio. Nel 2008 a Los Angeles Betsy scambia una B con una W e diventa (temporaneamente) la frontwoman dei trash metallers Witch (trash senza acca), sostituendo Peter Wabbit. Robby Settle muore di leucemia nel 2010 e il luttuoso evento viene incorniciato da un memorial privato al quale partecipano molti nomi coinvolti nella storia dei Bitch, intendendo rendergli omaggio, i quali si esibiscono suonando canzoni della band, cover dei Black Sabbath e dei Cheap Trick, ed eseguendo degli standard blues. In questi anni Betsy ha mantenuto una presenza vivace sui social, io ebbi occasione di intervistarla da qualche parte intorno al 2010 e si rivelò molto affabile e disponibile. La sua passione per la musica non è mai venuta meno, così come quella per la cucina, i cani ed il fitness. In mille foto pubblicate sui suoi profili fa sfoggio con un certo autocompiacimento della sua invidiabile muscolatura scolpita, notevole per una classe 1957, nonché del suo seno importante, pure quello decisamente aumentato rispetto agli anni ’80 (Betsy non ha mai nascosto di essere ricorsa alla chirurgia estetica). Indossa i solito completini pelle e borchie, e continua ad esibirsi in club, locali e – quando capita – in manifestazioni più importanti come i festival, mantenendo viva la leggenda dei Bitch, che non sarà quella dei Beatles ma una fettina di cuore ce l’ha strappata. In fondo la frusta è stata croce e delizia per questa band, le tematiche fetish così spiccate e caratterizzanti hanno finito con il riassumerla ed assorbirla completamente, mettendo in secondo piano l’effettivo valore dei Bitch. Besty, David e Robby sono stati altro e oltre i loro attillati indumenti di pelle, le scollature provocanti e gli ammiccamenti sessuali on stage, c’era decisamente più peso specifico da tenere in considerazione nei solchi dei loro album; ma vuoi per la loro inadeguata capacità di bilanciare i due aspetti (musica ed immagine), vuoi per un certo pressappochismo facilone e semplificatorio del pubblico metal, i Bitch sono rimasti col frustino in mano ed una discografia conclusasi troppo presto.