Da promessa in erba a Campioni del metallo in tre anni. Un fulmine a ciel sereno che nella prima decade dei 2000 è esploso in modo del tutto inaspettato nei cieli borchiati. Poi nell’arco di appena un lustro il prezioso patrimonio viene dilapidato attraverso release sempre meno incisive. I Benedictum hanno fatto tutto alla svelta e la band si è dissolta senza neppure che la cosa fosse formalizzata ufficialmente. La leader Veronica Freeman ci ha quindi provato in veste solista, “veste” ora da amazzone, ora dominatrice, ora strega, ora dea cannibale… ora non c’è più neanche lei.
Contenuti:
1. Into Glory Ride (1995 – 2005)
2. Ai cancelli dell’Olimpo (2006 – 2007)
3. The bigger they are… (2008 – 2011)
4. V per Veronica (2012 – 2015)
1 – Into Glory Ride
Il Big Bang fu “#4”, terzo pezzo in scaletta estratto da “Uncreation”, che il magazine italiano Rock Hard nel 2006 inserì nel suo CD allegato alla rivista, contenente i singoli degli album rock metal in uscita. Non avevo mai sentito parlare dei Benedictum di San Diego, né avevo la più pallida idea di chi fosse Veronica Freeman. Il monicker era di facile confusione con i Benediction, death metallers albionici con gli attributi a poligono ottagonale, mentre la frontwoman, con il suo nome da attrice di serial televisivi, senza alcuna immagine a darne corpo, rimaneva soltanto qualcosa di astratto ed indefinito. Tuttavia l’ascolto della canzone fu folgorante. Anche perché sulle prime non mi resi affatto conto che quelli erano i Benedictum; mi aspettavo una cantante donna e, giuro iddio, di voci femminili io non ne avevo sentite tra i samples di Rock Hard. Dovetti prendere in mano il cartoncino del CD per capire in che posizione fossero questi benedecti-Benedictum e scovare “#4”.
Nella seconda metà dei ’90 a San Diego si esibiscono a livello underground i Malady, noti sostanzialmente per due ragioni, una cantante il cui aspetto che non passa inosservato e l’aver aperto i concerti locali di Saxon, Thin Lizzy, Quiet Riot e Lynch Mob. Forza trainante della band sono Veronica Freeman e il chitarrista Pete Wells. Dieci anni di “Malattia”, senza infamia e senza gloria, e il project si sfalda, lasciando il passo ai Bound, sempre col duo Freeman/Wells al timone, ma con l’aggiunta di Blackie Sanchez alla batteria e Chris Morgan alle keyboards (sodale della Freeman in una tribute band dedicata a Ronnie James Dio chiamata Evilution). Ronnie James Dio, un nome che non può rimanere in background nella storia dei Benedictum. L’elfo è spesso tra i primi ad essere evocati per descrivere l’ugola della Freeman, per altro a ragion veduta; inoltre il suo chitarrista Craig Goldy (pure nei Giuffria) è tra le amicizie della Freeman e si spende per introdurre la band negli ambienti giusti. Ad esempio quelli contigui a Jeff Pilson, bassista dei Dokken e produttore wannabe. Dopo le prime esperienze in consolle con il suo progetto War And Peace, Pilson si sente motivato, anche perché con i Bound, divenuti nel frattempo Benedictum, c’è pure l’opportunità di suonare le linee di basso e i ragazzi hanno un bel tiro. Sui credits di “Uncreation” figura Jesse Wright, che però lo strumento lo vede solo in fotografia, la sua, quella che appare nel booklet; in realtà in studio c’è Pilson, eccezion fatta per “The Mob Rules” (cover dei Sabbath), suonata da Jimmy Bain. La collaborazione con Goldy data 1993, quando Pilson scrive a quattro mani alcuni brani per il primo album solista di Goldy, “Insufficient Therapy” (Shrapnel Records). All’epoca i due si dedicano parallelamente pure ad un ulteriore gruppo di stampo heavy prog chiamato 13th Floor, anche se non arrivano alla pubblicazione di alcun materiale. Nel 2006 Pilson è impegnato su due fronti, il live album dei Foreigner e “Uncreation”, debutto di questa next big thing di San Diego guidata da un’autentica forza della natura, una specie di Xena decuplicata in prestanza. Dapprima è il turno di un demo di tre tracce; la fortuna arride al gruppo, visto che l’iberica Locomotive Records si lascia convincere dal potenziale dei Benedictum e redige un contratto. E’ fatta.
II – Ai cancelli dell’Olimpo
Con una presenza scenica che mette assieme Chuck Billy e Vanessa Del Rio, Veronica Freeman pare spuntata fuori dal nulla a sparigliare il banco, la carta di una regina di cuori dalle forme esplosive che non può non calamitare ogni attenzione su di sé, e conseguentemente riverberarla sulla band, come un prisma amplificatore. Nella sua voce, nella sua fisicità e nel suo stare on stage i Benedictum trovano la spinta propulsiva che li catapulta improvvisamente dal campionato dilettanti alla Champions League, come avere un CR7 nell’area di rigore avversaria pronto a infilare palloni in rete a macchinetta. La goleada è assicurata. Tommy Herniksen, ex Warlock, affianca Pilson al missaggio, e un’altra scelta per attirare l’attenzione si rivela quella di coverizzare ben due brani dei Black Sabbath. Naturalmente non due pezzi dell’era Ozzy – troppo lontana dalle corde del metal suonato dai Benedictum e dalla attitudine mascolina e virile della Freeman – quanto ovviamente due espressioni dell’era Dio, “Heaven And Hell” e “The Mob Rules”. Canzoni che i nostri sono soliti suonare sin dai tempi degli Evilution, e che dunque sono una tappa obbligata e naturale per il loro battesimo nel circuito del metallo ufficiale. Come detto, l’ex Dio (e Rainbow) Jimmy Bain viene ospitato alle quattro corde (mentre Goldy si concede per la parte solista su “Valkyrie Rising”). Una scaletta fatta di undici pezzi in totale, prodotti discretamente (magari per la batteria si poteva fare qualcosa di più e di meglio), rispettosi dell’essenza rude della band e tutti decisamente incandescenti.
Finalmente “Uncreation” arriva sul mercato, nei negozi, nelle redazioni dei magazine specializzati, negli stereo dei metalkid americani ed europei. E’ proprio il Vecchio Continente ad accogliere a braccia aperte i Benedictum, e segnatamente l’Italia, dove una certa predisposizione verso il metal ruspante e le forme giunoniche c’è sempre stata (al Gods Of Metal milanese del 2006 il live set della band miete vittime e cuori infranti). La formula di “Uncreation” è relativamente semplice, metal possente, classico, di scuola prettamente americana, baciato dall’avvenenza di una cantante dalle curve impossibili ma dotata di una voce la cui femminilità è indirettamente proporzionale al suo physique du role. In fin dei conti nel 2006, tolte sparute mosche bianche come Doro, Jutta Weinhold o Leather Leone, in ambito heavy metal (strettamente heavy, quindi lasciate perdere le Sabine Classen o le Angele “fuffe” Gossow) le female metal singers sono ancora piuttosto legate al ruolo di fatine gotiche e/o folk, e/o operatiche, se non direttamente ascrivibili alla lacca per capelli e ai rossetti di matrice hard rock e hair metal. Una maschiaccia come la Freeman mancava ed il fatto che tanta potenza vesta una quinta abbondante e poggi su dei quadricipiti e degli adduttori degni di uno spartano alle Termopili produce un corto circuito che fa la fortuna della band. Oltre a Mr. Padovana, sono Geoff Tate, Tony Martin, Rob Halford i numi tutelari della Freeman e, tra le donne, se proprio occorre indicarne una, Veronica si rivolge ad un’altra amazzone corazzatissima, Tina Turner.
“Uncreation” non ha ballad, quando rallenta è per rendere il suono sulfureo, melmoso, ancora più avvolgente. Savatage, Judas Priest, Metal Church, Dio e mille altri heroes del denim & leather a stelle e strisce echeggiano nelle note dell’album, mentre la Freeman si spende come una guerriera assetata di sangue. La band ha fame, l’album mangia l’asfalto, non ce n’é per nessuno. E’ successo immediato e, col senno di poi, assolutamente ovvio. Come avrebbe potuto essere altrimenti, a fronte di un pacchetto chiavi in mano “ottima musica/singer ultra sexy”? Dopo la promozione dell’album e dopo innumerevoli concerti furenti, viene scritto e registrato il successivo “Seasons Of Tragedy”. Se nel 2006 i Benedictum erano una neo promossa chiamata a difendersi con i denti e le unghie in serie A, a fianco dei colossi da vertice della classifica, questa volta gli stessi Benedictum sono tra i favoriti al titolo di leader, il loro nuovo album promette sfracelli ed è atteso spasmodicamente come la conferma di tutto il buono dispiegato su “Uncreation”. Jeff Pilson e Tommy Henriksen sono sempre a capo del team produttivo. Il dokkeniano George Lynch, Craig Goldy, Manni Schidt (Grave Digger, Rage) e lo stesso Pilson sono gli stranieri di lusso che impreziosiscono le trame di gioco della band, con i propri tocchi di fino. Viene nuovamente registrata una cover, spingendo ancora più avanti il concept “maschio” inaugurato con i Sabbath di Iommi e Dio. La Freeman non è tipo da andare in cerca di canzoni di colleghe sirenette, vuole roba tosta, massiccia, testosteronica. Cosa di meglio allora degli Accept e della loro “Balls To The Wall” (ovvero la condizione nella quale la Freeman – c’è da crederci – mette i suoi oppositori maschi quando le gira di traverso)? Ma non è tutto, come bonus track pure “Catch The Rainbow” (ebbene si, ancora Ronnie James).
III – The bigger they are….
Il disco è licenziato sempre da Locomotive Records, i cui colletti bianchi si devono essere fregati le mani per un bel po’, avendo contrattualizzato una gallina dalle uova d’oro del genere. “Seasons Of Tragedy” evidenzia un gruppo che non è salito sul podio per caso. C’è sostanza, c’è determinazione, c’è talento. L’album è prodotto meglio del precedente e lo eguaglia – se non addirittura lo supera – qualitativamente. La prima cosa che salta all’occhio naturalmente è sempre la Freeman, capace di tener testa a qualsiasi collega dotato di sacca scrotale. Ma sarebbe fare un torto ai suoi band mates parlare soltanto della sua carica animalesca e del suo tracotante sex appeal. Alle sue spalle – intenti come possono a distogliere lo sguardo da quel fondoschiena continuamente shakerato sul palco – ci sono quattro musicisti che sanno il fatto loro e che fanno quadrato erigendo un wall of sound perfettamente calibrato sulla veemenza della frontwoman. I Benedictum sono al nirvana di uno stato di grazia che non fa prigionieri e che non tradisce i propri fans al varco della seconda prova in studio. Due album, due roncolate fenomenali, con il valore aggiunto di possedere una leader che nessun’altra band può vantare e che catalizza su di sé copertine, chiacchiericci da forum e attenzioni ai limiti del morboso. Il metal dei Benedicum cresce in intensità, sempre mantenendo un perfetto equilibrio tra muscoli e minacciosità. Senza andare a pescare baracconate circensi da modernismo ansiogeno, il gruppo prende una ricetta classica, la inietta di anabolizzanti e la ripropone lustrata e scintillante ad un pubblico affamato di robustezza, vigore ed energia.
Tra la conquista del mondo e i Benedictum si frappone soltanto un paio di décolleté tacco 12; Roma capta est, la band ascende all’Olimpo, e ogni nuovo testo riguardante la musica metal dovrà tenerne conto ed essere riscritto e revisionato alla luce di una valchiria indomabile che ad un certo punto prese per le palle il rock e se le mangiò (assieme ad una bistecca). Proprio quando tutto sembra troppo facile però l’insidia si cela nelle tenebre. Il putrido veleno del successo? Il denaro che comincia ad annaffiare i conti correnti? La gelosia verso una splendida vedova nera che inevitabilmente finirà col concentrare su di sé tutte o quasi le attenzioni, cannibalizzando il resto della band? Cosa avviene a San Diego in seno (vabbè….) ad una delle band più incisive e scoppiettanti del nuovo millennio? La line-up si sgretola, Veronica e Pete Wells si ritrovano incredibilmente ad essere i soli Benedictum operativi. Gli altri se ne vanno? Vengono cacciati? Quel che è certo è che gli amministratori delegati dell’azienda devono ricostituire una line-up per proseguire la guerra borchiata. E non è tutto. Il contratto con Locomotive si chiude, si fa avanti la Frontiers, che scrittura i Benedictum. Jeff Pilson si dice impossibilitato a lavorare ancora con il gruppo per via dei suoi sempre più “pressanti impegni” con i Foreigner (forse ha annusato che qualcosa non gira più come dovrebbe). Lo sostituisce in consolle il Grammy awarded Ryan Greene. Bisogna aspettare il 2011 perché il terzo titolo della casa venga finalmente pubblicato. “Dominion” diventa un disco spartiacque, e purtroppo le acque che separa sono nettamente contrapposte.
Sebbene i cambi di producer, label e line-up non siano elementi esattamente da sottovalutare, alcune costanti comunque rimangono per i Benedictum. Pilson e Goldy si rendono disponibili per un’ospitata di lusso, idem l’ex Quiet Riot/Ozzy Osbourne/Whitesnake Rudy Sarzo. Il tris di musicisti che affianca la Freeman e Wells è composto da Chris Shrum al basso, Tony Diaz alle tastiere e Mikey Pannone alla batteria, gente che – al di fuori della militanza nei Benedictum – nemmeno Metal Archives sa chi sia. E la cover? Stavolta quale ruggito leonino avrà scelto la Freeman? Sorprendentemente nessun machissimo e roboante metal singer viene “attenzionato” dalla lady di ferro. Dopo innumerevoli giri, il collo di di bottiglia si ferma su “The Temples Of Syrinx” dei Rush (da “2112”). I Rush? Geddy Lee??! Sospendiamo un attimo il giudizio al riguardo e consideriamo più globalmente “Dominion”. I grovigli fumanti di sangue, sudore, passione e Red Bull che caratterizzavano le precedenti prove della band vengono clamorosamente a mancare. Complice una produzione meno bombastica, ma soprattutto un songwriting meno stentoreo e taurino, i Benedictum improvvisamente si sgonfiano come un soufflé venuto male. “Dominion” è un album qualsiasi di una band US Metal qualsiasi. E’ evidente a questo punto che qualcosa si è rotto dentro il gruppo; la diaspora dei musicisti e del producer, unitamente al subentro di Frontiers dietro il progetto, erano avvisaglie profetiche.
Come spiegare questa (anti)rivoluzione copernicana? Certamente nulla di troppo vistoso, anzi apparentemente le coordinate sonore rimangono le medesime, ma a ben vedere (anzi a ben ascoltare) le sfumature da cogliere sono tante. Il metal ordito dai nostri si ripulisce, diventa più “a modino”, meno scomposto e pacchiano forse ma, per contraltare, anche meno mordace. L’ansia di proporsi al pubblico come un progetto oramai adulto e maturo, dopo gli esordi berserker – morbo che affligge tanti musicisti evidentemente in cerca di conferme genitoriali – gioca un brutto scherzo. Fatto sta che i Benedictum ed il loro heavy metal incalzante, forzuto, tonante, si danno una calmata, preferendo lustrare le cromature anziché far esplodere a pieni giri il motore. Certo, pezzi come “Grind It”, “Bang”, “At The Gates”, flettono un pochino i muscoli, ma è troppo poco considerando a cosa eravamo stati abituati. L’enfasi della Freeman è andata persa, il tappeto sonoro che la dovrebbe sostenere è moscio. Anziché evitare tutte le spine e esplorare controtempi e pseudo tecnicismi esecutivi (“The Shadowlands”, “Dark Heart”), i nostri avrebbero dovuto mantenere vivi gli occhi della tigre e continuare a respirare la polvere della strada. Invece niente, arriva perfino una lagna come “Sanctuary” (ancorché relegata a bonus track) a mettere in discussione lo stato di cult band dei Benedictum. La rincorsa ai Rush poi è una pallida imitazione dei Benedictum che ringhiavano su “Balls To The Wall”, una canzone valorizzata come se fosse stata scritta appositamente per la Freeman. Dato il tonfo, il prossimo album – se avrà corso – sarà indubbiamente quello decisivo.
IV – V per Veronica
Ed eccolo il nuovo album, si chiama “Obey”, lo licenzia Frontiers nel 2013 e annovera ancora musicisti diversi in formazione. Rikard Stjernquist (ex Jag Panzer) alla batteria e Aric Avina al basso. Un artwork di copertina anonimo e banale trasmette un gran brutta presentimento. In consolle siede John Herrera, sin qui producer per nomi di piccolo calibro (Wardog e Ballistic i suoi highlights), oltre ad aver curato il suono della batteria di “The Scourge Of The Light” degli Jag Panzer (del resto nasce come batterista). Le premesse per la disfatta ci sono tutte. E infatti puntuale arriva, ineluttabile e drammatica. Si perché, sempre per tornare a Xena, the bigger they are… the bigger they fall, e la vetta che i Benedictum avevano raggiunto nel 2008 era sufficientemente alta per far fare loro un brutto capitombolo una volta schiantatisi a terra. “Obey” purtroppo conferma a pieno le nuvole nere di “Dominion”, e cancella (oramai per sempre?) la band che si era resa protagonista della infernale doppietta “Uncreation”/”Seasons Of Tragedy”, stregando – all’epoca – i cuori di tanti fans increduli. La prima metà della tracklist crea qualche debole illusione, non siamo in presenza di candelotti di dinamite come “#4”, “Ashes To Ashes” o “Beast In The Fields” ma, sforzandosi un po’, ci si potrebbe anche accontentare. Il fatto è che questo lotto di songs viene dopo il già modesto “Dominion” ed è legittimo aspettarsi ben di più dalla band esplosa nel 2006. Ed un altro fatto è che la seconda metà dell’album si inabissa in modo preoccupante, lasciando poche speranze. E’ vero che questi Benedictum sono in crisi di identità, non sono più i bucanieri all’arrembaggio della prima parte di carriera, e sembrano privilegiare la ricerca di un profilo più calibrato e “classy” (per quanto i ruggiti della Freeman possano consentire l’ingresso in un circuito “classy” oriented), ma è altrettanto da considerare che la ragione sociale della band è stata un’altra, la sua fondazione, il cuore pulsante, nonché il motivo del suo successo pressoché istantaneo risiedono in un sound più crudo e selvaggio, oltre ovviamente alla presenza di un femminone come la Freeman dietro il microfono. Inutile negarlo, giusto o sbagliato senza una donna del genere a guidare la band i Benedictum avrebbero riscosso la metà dei consensi ricevuti, e quando anche il livello del songwriting cala, la sola pantera non può mantenere in piedi la baracca con le sue (pur ragguardevoli) forze.
Tirando le somme, “Obey” è perlomeno superiore a “Dominion”, ma non basta a ridare credibilità ad un monicker che pare destinato al declino. Il suono è migliore, il songwriting stringe più all’angolo le tentazioni eleganti e l’apporto tastieristico, ma la lucida irruenza del passato e soprattutto l’ispirazione di quei giorni non ci sono. C’è però un piano “b”, Frontiers ci vede lungo e prova a capitalizzare il punto di forza del marchio. Il jolly inevitabilmente diventa: la carriera solista di Veronica Freeman. Ufficialmente i Benedictum sono in stand by, mentre Miss V (come viene ribattezzata) si dedica alla pubblicazione del suo prima album in solitaria. Ci sono diversi indizi da mettere in fila per capire dove si va a parare. Il marchio Frontiers, un lascito dei Benedictum purtroppo in perdita, un sensibile incremento di fotografie a forte connotazione sexy, scollature che scoppiano, persino reggiseni in tiratura limitata (baciati ed autografati) in vendita sul website personale della Freeman, ed un singolo (“Again”) – con relativo videoclip – ad alto tasso di BDSM. E guarda caso, a fronte di tutto ciò, le sonorità di “Now Or Never” si rivelano all’insegna di un ulteriore ammorbidimento. Hai voglia a inondare l’album di ospiti (Leather Leone, Tony Martin, Jeff Pilson, Meliesa McDonell, Mike Lepond, Michael Sweet, etc.), hai voglia di rendere fosforescente la Freeman a forza di photoshop, ciò che va a verbale è l’opera di “softizzazione” di Giunione. Intendiamoci, il punto non è che rendere la musica più “radio friendly” sia di per sé una blasfemia, non sono uno di quei duri e puri che vivono all’insegna del “seek and destroy” come unica filosofia di vita possibile. E’ la manipolazione del dna di Veronica che digerisco a fatica. La volitiva guerriera che si batte sotto le insegne di Ronnie James Dio e dello US Metal è sparita, il suo profilo artistico viene stravolto, trasformato in qualcosa di assimilabile a duchesse del rock come Robin Beck e Stevie Nicks, etc, insistendo per altro ossessivamente sul richiamo sexy. E non fatevi ingannare dalla grinta di “Again”, il pezzo che apre l’album, quello più furbescamente in odore di Benedictum. Che vogliamo dire allora di “Starshine”, “Line In The Sand” o “L.O.V.E.”? Amore, coccole e bacini sono gli argomenti portanti, la fiera pantera è diventata un innocuo cucciolotto di peluche, pronto a far le fusa, sbattere le ciglia e, all’occorrenza, lasciare sbadatamente che la camicetta si sbottoni alla giusta altezza. Frontiers e la Freeman si giocano la carta della rinascita in chiave rock ‘n’ roll (sexy) lady – nomea che un tempo apparteneva a Lisa Dominique – una scelta tesa ad includere nuovi fans, ma che inevitabilmente ne esclude parte dei vecchi, almeno quelli che, oltre a fissare le tette per un quarto d’ora, ascoltavano poi anche la musica.
Da quello che ho potuto leggere in giro, complessivamente l’accoglienza di “Now Or Never” non è stata malvagia, anzi, perlopiù positiva, anche se gli svenimenti registrati per la pubblicazione di “Uncreation” non si sono verificati. Rimaneva da capire cosa sarebbe potuto accadere in futuro. Un secondo album di Miss V? Dopo tutto quel tempo pareva improbabile. Un ritorno dei Benedictum? Avrebbe avuto più senso, ma era ancora meno probabile. Ed in caso, con che formazione? E soprattutto, con quali sonorità? Quelle della prima metà di carriera o quelle degli anni dell’incertezza? Nel frattempo Veronica assume anche il microfono in qualità di ospite per i The Rods, durante parte del loro tour europeo del 2015, e si parlava di una carriera di attrice. Da tempo presiede un’azienda di accessori per moto da applicare a biciclette sportive. Da parte mia, ricordo con piacere le interviste (purtroppo solo mailer) condotte con lei, sia all’epoca del debutto sia per “Seasons Of Tragedy”; disponibilissima, cordiale, alla mano, fonte ricchissima di aneddoti. Tra le tante domande, ricordo quella a proposito del suo non essere la classica “bambolona” metal tutta sospironi e moine, alla quale mi rispose che non era per niente nelle intenzioni infatti, e che i ragazzi della band intendevano tenere un baricentro ben pesante del sound, scelta sulla quale anche lei era d’accordo. Con “Now Or Never” le cose andarono in direzione diametralmente opposta, non un album di orgasmini e miagolii per carità, tuttavia un passo più netto in direzione della erotizzazione della sua musica, senza che questo per altro abbia poi portato alcun vantaggio.
Discografia relativa
- Benedictum:
- 2006 – Uncreation
- 2008 – Seasons Of Tragedy
- 2011 – Dominion
- 2013 – Obey
- Miss V:
- 2015 – Now Or Never