Metal e cristianesimo sono sempre stati un binomio difficile e coraggioso, se poi ci si aggiunge una concezione progressiva e avantgarde della musica, e si insiste ulteriormente cambiando continuamente pelle fino ad approdare ad una formula alternative, certamente al passo con i tempi ma parecchio distante dagli esordi, è facile capire come i Believer non siano una band alla quale piaccia vincere facile. Una carriera praticamente spaccata in due, stilisticamente e temporalmente (come il cuore sanguinante di una buona parte dei fans che hanno vissuto in diretta il passaggio dagli anni ’90 ai 2000).
Contenuti:
1. Battesimo (1986 – 1989)
2. Comunione (1990)
3. Cresima (1991 – 1993)
4. Resurrezione (1994 – 2017)
1 – Battesimo
La storia dei Believer inizia sui banchi di scuola, come tante, a Colebrook in Pennsylvania Kurt Bachman conosce Scott Laird, uno che ne sa di musica, è il suo insegnante e presto diverrà anche una parte importante ed inalienabile della narrazione di una band che si accollerà importanti meriti nello sviluppo della musica metal. Il batterista Joey Daub fa coppia con Bachman dall’86, il duo mette assieme percussioni e chitarre, Bachman sa padroneggiare anche il microfono ma occorre un bassista; arriva nella persona di Howe Kraft e al team si aggiunge pure una seconda chitarra, quella di David Baddorf. Insieme il quartetto assume il nome di Deceiver e si propone con delle cover di Iron Maiden, Judas Priest e Saxon, i classici insomma (tutti britannici per altro). Una prima epifania giunge con l’ascolto di “Believer” di Ozzy Osbourne (da “Diary Of A Madman”), la prospettiva si rovescia, dal grande Ingannatore (il Diavolo) al Credente. Proprio Ozzy canta “I’m a believer, I ain’t no deceiver“, dunque la svolta sta lì, offerta su di un vassoio d’argento, pare sia Ozzy in persona a caldeggiarla. Il testo di “Believer” dice che devi essere il primo a credere in te stesso altrimenti non saranno certo gli altri a farlo; per una band agli esordi è propellente motivazionale, nel caso di Bachman e compagni evoca qualcosa di più profondo e quel significato obliquo e sottile emergerà a breve non appena avranno l’occasione di poterlo mettere nero su bianco. Oltre al monicker, anche il sound della band progressivamente va plasmandosi ed assestandosi. Da un metal classico e melodico (rintracciabile sul demotape “The Return” del 1987) ad un approccio decisamente più aggressivo ed aguzzo, i Believer diventano una thrash metal band a tutti gli effetti e questo viene motivato con la più lineare e lapalissiana delle affermazioni: “eravamo semplicemente migliori a suonare thrash che qualsiasi altra cosa”. Nel 1989 arriva il contratto con R.E.X. Records (label fondata appena due anni prima a Chicago e specializzata nel metal cristiano, come lo stesso nome lascia intendere), la quale intende pubblicare il debutto della band; intanto nell’88 sulla compilation “East Coast Metal” e l’anno dopo in “Classic Metal” compare il pezzo “The Chosen”.
L’esordio “Extraction From Mortality” esce nel 1989 dapprima nelle librerie cristiane ma, grazie ad un consenso e ad una popolarità sempre crescenti, travalica quei confini per raggiungere anche orecchie meno devote, come ad esempio quelle della Roadrunner (che infatti non tarderà a contrattualizzare il gruppo). L’album propone un approccio severo e scarno, un thrash metal col coltello tra i denti, puntellato da un riffing incessante, senza soluzione di continuità, quasi circolare; non c’è nessuna camera di decompressione, le ritmiche sono pressoché esclusivamente in tupa-tupa e, anche quando Daub concede delle momentanee “aperture”, il guitarworking di Bachman e Baddorf non diminuisce di intensità, una sorta di nodo scorsoio che stringe e stringe al collo, fino al soffocamento (pure il basso tutto sommato va in asfissia, poiché difficilmente se ne coglie il pulsare lungo la scaletta, totalmente stritolato dalla ragnatela tessuta dalle chitarre e da una produzione senz’altro migliorabile). Una critica su Metal Archives parla di “totale assenza di riff sull’album…nient’altro che una serie di note che confluiscono una dentro l’altra senza distinzione”. Non la penso così ma capisco il punto, è la versione “bicchiere mezzo vuoto” rispetto alla mia impressione delle chitarre su “Extraction”. Se non altro un punto di vista che corrobora quanto la loro proposta sia effettivamente ostica. La voce di Bachman poi è un capitolo a parte, difficilmente si riesce a rimanere equidistanti o mediani, o la si apprezza per grinta e veemenza o la si respinge per un eccesso delle stesse; pare davvero abbia una sega sulle corde vocali, non esattamente un idillio, Bachman urla a pieni polmoni, sempre.
L’immediato riferimento affibbiato ai Believer sono giocoforza gli Slayer (curioso, certamente non una band in pace col Signore…), il che in parte ci può stare ma non esaurisce lo spettro della band. Il thrash dei Believer per quanto è primitivo, lapidario, secco ed affilato, nonché disinteressato alla melodia, riecheggia nella propria pancia anche qualcosa dei Dark Angel nonché la lezione di band europee come Kreator, Destruction e Sodom. Il primo verso della prima canzone in scaletta (“Unite”) chiarisce da dove arriva il nome della band: “Rise up, so you can take a stand against the schemes of evil. Courage, be strong in the Lord and in His mighty power…” E così sarà per tutti i 41 minuti del disco; idolatria, ipocrisia, vanità, il flagello della droga, i peccati di Sodoma e Gomorra, il libro delle verità dei Believer è tutto appannaggio di Dio, una versione meno naive ma altrettanto militante degli Stryper (che intanto nell’89 erano già arrivati a “In God We Trust”). La title-track è forse il passaggio più ambizioso del platter, amplificata da una intro orchestrale (bellissima) creata da Laird (che suona anche viola e violino), tuttavia è “Shadow Of Death” il pezzo che nel tempo i fan hanno consacrato ad emblema dell’album. “Blemished Sacrifices” è forse quello meno interessante (quasi parossistico nel suo incedere, tutto ripiegato su se stesso) mentre la conclusiva “Stress” è un qualcosa a metà tra una joke song ed una sperimentazione, chiaramente un corpo estraneo rispetto alla scaletta, nel quale la band si prende delle libertà, divagando tra sampler e suggestioni di varia natura. Per diversi anni “Extraction From Mortality” sarà un disco sostanzialmente irreperibile, nel 2001 verrà ristampato una prima volta da un’etichetta chiamata M8 con una tiratura di appena 2000 copie e con 2 bonus track, la su menzionata “The Chosen” e un remix di “Vile Hypocrisy” (pure questa derivante da una precedente compilation, “Argh!!!”). Nel 2007 la Metal Mind Productions ristampa altre 2000 copie in versione digipack ma senza bonus track. Piccola notazione glamour, il logo della band (molto anonimo a livello di fonte) è interamente rosa.
II – Comunione
“Extraction From Mortality” mette già in mostra, ben evidenti, alcuni trademark dei Believer. Il thrash è furioso e senza compromessi eppure, anche nella caustica spigolosità, lascia baluginare una discreta padronanza tecnica, dei brevi lampi all’insegna del techno-trash che tuttavia i Believer si affrettano a ricacciare in fondo al calderone, preferendo (per ora) l’intensità alla complessità. Naturalmente ci sono i prodromi delle orchestrazioni che poi esploderanno strada facendo. Il drumming di Daub è essenziale ed il suo insistere sul tupa-tupa finisce col togliere un po’ di dinamismo alle partiture, perlomeno a mio gusto. Certamente non sarà stata una sua iniziativa autonoma, la musica dei Believer è stata concepita prevedendo quel tipo di respiro percussivo e quindi il merito, o il demerito, è da attribuirsi all’intera line-up; tuttavia ho sempre pensato che con un drumming un po’ più articolato e vario soprattutto i primi due album avrebbero potuto compiere un ulteriore salto di qualità. Lo stesso dicasi per la voce di Bachman, alla quale tuttavia ho finito con l’abituarmi ed affezionarmi, anche se riconosco che può essere uno di quei motivi per cui i Believer hanno trovato resistenze (come nel caso di King Diamond). Il loro è sempre stato un pubblico di nicchia anche se, a livello di retaggio ed influenza sul movimento thrash, molto musicisti ne hanno riconosciuto l’importanza. “Not Even One” compare sulla compilation del 1990 della Roadrunner “At Death’s Door”, la cui track-list ospita molte death metal band (decisamente poco “cristiane”), ad intendere che i Believer hanno le spalle sufficientemente larghe da poterne reggere la contiguità.
A seguito dell’avvicendamento al basso di Wyatt Robertson per Howe Kraft, i Believer sono pronti con il secondo capitolo della loro storia: “Sanity Obscure”. Prosegue la collaborazione con Laird ed anzi si espande, non solo perché viene coinvolta anche sua sorella, la soprano Julianne, ma soprattutto perché l’apporto orchestrale è decisamente più rilevante stavolta, tanto in termini qualitativi quanto quantitativi. Non più una semplice intro, bensì una intera traccia, “Dies Irae (Day Of Wrath)”, che mette assieme due universi finora paralleli, la musica classica e il thrash metal. Ancora queste due anime continuano a marciare sostanzialmente appaiate senza compenetrarsi del tutto, ma il confine è oramai talmente sottile che a breve cederà definitivamente. Il disco viene nuovamente licenziato da R.E.X. Records (esclusivamente per il mercato “cristiano”, per il resto il marchio è Roadrunner). Il successo rispetto a “Extraction” è esponenziale ed i Believer guadagnano l’opportunità di andare in tour con i Bolt Thrower e i canadesi Sacrifice (affini per credo religioso). La Roadrunner si giocherà anche la carta di mettere assieme Believer, Cynic e Pestilence formando un ideale trio futurista all’insegna del metal progressivo (concettualmente parlando) e chiamando questa squadra “The Breed Beyond” in uno split album del 1993 (assieme a Treponem Pal e Fear Factory).
“Sanity Obscure” è una prosecuzione coerente rispetto al 1989, i Believer sono riconoscibili in riferimento al proprio debut album e tuttavia è evidente come siano già maturati, la crescita è in ogni aspetto. La cattiveria è intatta ma l’articolazione del songwriting evoca una maggiore complessità, più varietà, più diversificazione. Quando Daub parte in tupa-tupa è sempre il Gran Premio di Formula 1 ma la scaletta del disco concede spazio anche ad altro. I Believer stanno imparando da loro stessi, stanno evolvendo. Se fossimo i commentatori di una partita di calcio potremmo parlare di frequenti “ripartenze”, dei veri e propri contropiede che ci tolgono il fiato e rovesciano il fronte di attacco. Il logo migliora decisamente così come anche l’artwork di copertina risulta assai più affascinante di quello di “Extraction”. A livello testuale, senza nulla togliere alla matrice cristiana di ogni cosa, i Believer si confrontano con temi più laicamente “sociali”, come ad esempio l’inquinamento in “Nonpoint” o la guerra ed i conflitti etnici e politici nella sbalorditiva rendering della canzone degli U2 “Like A Song” (originariamente contenuta in “War”). I Believer riescono a prendere un brano di un gruppo pop/rock antipatichino dal successo planetario, rovesciarci sopra una colata di acido muriatico (senza stravolgerlo però, anzi mantenendo intatto lo stesso luminoso intreccio di melodia e speranza) e suonarlo come fosse la rebel song che salverà il mondo; inutile dire che, a mio modesto parere, “Like A Song” dei Believer è infinitamente migliore della (lagnosetta) originale.
La title-track, che apre anche le danze, è un piccolo grande capolavoro, tra gli highlights di tutta la carriera della band, e infatti amata urbi et orbi dalla loro audience. Anche il riffing frazionato e saltellante di “Nonpoint” lascia indubbiamente il segno, tra gli episodi migliori del platter. “Stop The Madness” ha lo stesso titolo della campagna antidroga della Roadrunner, che ne stampigliava il logo su ogni vinile pubblicato; i Believer decidono di supportare la propaganda benefica (e Daub nella foto del retrocopertina indossa esplicitamente una t-shirt con la scritta “dope” ed un povero disgraziato completamente consumato dalla dipendenza). La drammatica “Dies Irae (Day Of Wrath)”, ispirata dalla Messa di Requiem in Re minore K 626 di Mozart, avvicina i Believer a gruppi come i Mekong Delta ma allo stesso tempo infonde loro uno spessore di personalità e carisma che d’ora in poi diverranno irreversibili. Nuovamente le prime stampe, sia R.E.X. che Roadrunner, diventano rapidamente oggetti introvabili, nel 2005 la canadese Retroactive Records ristampa 1000 copie dell’album accludendo la bonus track “I.Y.F.”, una strumentale dal demo del 1987; questa scelta accende dei contrasti con la band che afferma di non condividere tale aggiunta (poiché secondo loro va ad alterare l’integrità dell’album, concepito per essere così com’è). Nel 2007 Metal Mind si occupa di ristampare anche “Sanity Obscure”, sempre in versione digipack, con delle nuove liner notes nel libretto del cd. La canzone “Sanity Obscure” finirà anche nel videogame Doom, con il titolo di “On The Hunt”, secondo la versione approntata per il gioco dal musicista Robert Prince.
III – Cresima
Per quanto la band stesse crescendo e si apprestasse a salire il gradino più alto della propria storia, producendo un album che a suo modo avrebbe fatto storia e sarebbe stato eletto – perlomeno a casa mia – come il loro capolavoro, 2 membri su 4 della formazione lasciano, Robertson e Baddorf, sostituiti da Jim Winters, bassista che all’occasione imbraccerà anche la chitarra. Il 1993 è finalmente l’anno di “Dimensions”, pubblicato con la stessa formula diversificata a seconda dei mercati di riferimento tra R.E.X. Records e Roadrunner (però anche con due copertine diverse, orrenda quella della R.E.X., fantastica quella della Roadrunner, raffigurante una sorta di natura morta astratta con violino). Il progetto sperimentato con “Dies Irae (Day Of Wrath)” ora va ad occupare una intera facciata del vinile (il lato B) e si tripartisce in una suite di circa 21 minuti declinata in tre capitolo più introduzione. E’ la “Trilogy Of Knowledge”, riguardante la vita di Gesù e l’eterna lotta tra Bene e Male attraverso la narrazione di episodi biblici. Tutto il platter è impregnato di ambizione e coraggio, i Believer sono consapevoli di avere materiale infinitamente più elaborato, tecnico e progredito che in precedenza e intendono spingersi a largo fin dove questo materiale potrà condurli, come novelli esploratori dell’Età Moderna pronti a spingersi verso luoghi ignoti. La definizione di thrash metal band ora va decisamente stretta ai Believer, assai più prossimi ad un’idea libera e progressiva della musica. Tra i crediti dell’album figurano anche colte “referenze testuali” (studi biblici, apologetica cristiana, filosofia e testi scientifici come quelli di Einstein e Hawking) e soprattutto il primo ringraziamento della lista va “al Creatore di tutto ciò che vediamo e che non vediamo”. Le prime 6 tracce sulla facciata A del disco si muovono su coordinate prog/thrash decisamente più ariose rispetto al songwriting della band pre 1993, un suggestivo incedere pieno di fascino e riflessione. I Believer stavolta si prendono il loro tempo per condurre la nave, senza correre a perdifiato.
“Future Mind” introdotta (e poi chiusa) da samples ipnotici e sintetici, si trasforma piuttosto rapidamente in un assalto thrash che aumenta decisamente i bpm rispetto all’opener “Gone”, ma comunque i Believer trasmettono una sensazione di minor caos, come se stavolta la violenza fosse sotto controllo, tenuta al guinzaglio (anche se affatto depotenziata). Il pezzo è pieno di dissonanze che gettano un ponte verso mondi industriali che presto (o tardi) entreranno a far parte della visione dei Believer. “Dimentia” è emozionante sin dai suoi arpeggi iniziali, poi sovrastati da una narrazione analitica sulla veridicità di Dio, una traccia che non dà punti di riferimento e si rivela piuttosto originale come struttura, fino a concludersi trasformandosi in un’elegia lirica. La musica dei Believer sembra sempre più una sfida all’ascoltatore, procedendo con “What Is But Cannot Not Be” se ne ha la conferma, pura progressione in forma di note. “Singularity” e “No Apology” riportano per una decina di minuti la barra sul thrash (sebbene tutt’altro che dritto e lineare), i Believer hanno quasi del tutto abbandonato la scalpello appuntito del tupa-tupa per definire la propria scultura artistica, ora sembrano preferire tempi dispari e meditati. Ha quindi inizio la storia della vita di Cristo con l’intro (rumoristico) “The Birth”; è il turno poi del primo Movimento della “Trilogy Of Knowledge”, ovvero “The Lie”; l’entrata in gioco delle orchestrazioni e del sinfonismo (accompagnati dalla voce della soprano Julianne Laird) è subitanea, potente, marchiana. Siamo nel Paradiso Terrestre e l’episodio è quella celebre della mela. Il secondo Movimento (“The Truth”) riguarda le tentazioni di Gesù nel deserto da parte del Diavolo dopo quaranta giorni e quaranta notti di digiuno. L’ultimo movimento è “The Key”, forse il più suggestivo e complesso dei tre. Al termine di questa impressionante carrellata sospesa tra Metal e Classica (sigillata da una voce che, rivolgendosi all’ascoltatore, si congeda con “we love you, take care, bye bye“), rimane difficile non immaginare che molte band venute dopo non abbiano guardato ai Believer per elaborare il proprio sound.
IV – Resurrezione
Lo sforzo creativo è tale che i Believer vanno in stand-by e progressivamente lo stand-by si trasforma in iato e poi in scioglimento (formalmente dichiarato nel 1994). Una volta liberi, Bachman si laurea in Medicina, Daub diventa un biker semi professionista in sella alla sua BMX, Winters è l’unico che prosegue con la musica riciclandosi negli Starkweather e negli Earth Crisis. Tuttavia negli anni successivi anche Bachman e Daub tornano ad impegnarsi ma come produttori (per Turmoil e Living Sacrifice), poi Duab riprende effettivamente in mano le bacchette e si siede al drumkit dei Fountain Of Tears (suonando nel loro debutto omonimo del ’99 e più recentemente nel seguito del 2007, “Fate”). La notizia che tutti i fan dei Believer aspettavano arriva nel 2005, allorché Duab comunica dal suo sito web che sta nuovamente lavorando con Bachman a musica inedita. Concretamente la pre-produzione di nuovo materiale ha luogo nel 2007, intanto la Metal Mind ristampa il catalogo dei Believer, tuttavia il contratto per il nuovo album viene firmato con la Cesspool Records (sottodivisione di Metal Blade) di proprietà di Howard Jones dei Killswitch Engage, grande fan della band.
Nel marzo del 2009 esce “Gabriel”, quarto capitolo a firma Believer, evidentemente riferito all’arcangelo portatore di buone nuove. Oltre a Bachman e Daub, sono della partita vari musicisti ospiti, tra i quali Joe Rico (Sacrifice), Rocky Gray (Living Sacrifice, Soul Embraced), lo stesso Jones e l’immancabile Laird. L’artwork è splendido, futurista e spirituale al contempo ma è soprattutto la musica contenuta nei 55 minuti di “Gabriel” a lasciare esterrefatti. Si tratta di una band completamente nuova e profondamente cambiata rispetto agli anni ’90. L’input orchestrale viene totalmente abbandonato, Bachman e Daub ripartono dalle distonie e dalle disparità del sound dei Believer trapiantandole però nella contemporaneità, dunque un thrash metal a tinte avantgarde, core e industriali, decisamente poco accogliente sulle prime e affatto nostalgico della “old school”. L’album viene salutato tutto sommato discretamente, da una parte lo status di leggenda aiuta la band, dall’altro il passato non la appesantisce e tutta una nuova schiera di fans, a digiuno dei vecchi album dei Believer, impara a conoscerli in questa nuova veste. Per quanto “Gabriel” abbia una sua solidità, una sua visione ed anche un suo perché, che riconosco e rispetto, ho fatto una gran fatica; se non fosse per la inconfondibile voce di Bachman (ma qua e là c’è qualche ospite vocale), per la consueta affilatura delle chitarre e per una vena sperimentale che oramai ha totalmente cannibalizzato il duo Bachman/Daub (nel bene e nel male), di primo acchito si stenta a riconoscere il profilo familiare della band seguita fino al 1993. Bachman presenta l’album come “un incrocio un po’ malato di Tool, Voivod, Nine Inch Nails e Destruction” e sottolinea la ferma intenzione di cercare nuove sonorità che non si fossilizzino sulla sterile riproposizione di un altro “Sanity Obscure” o di un altro “Dimensions”, pur mettendo in conto qualche malumore da parte della fetta più intransigente e conservatore del proprio pubblico.
La progressione musicale cammina e cammina, fino a giungere a “Transhuman” (2011) che nelle intenzioni dei Believer recupera qualche spunto orchestrale da “Dimensions” ma lo rielabora alla luce della nuova anima (cangiante) della band. L’album si presenta con un artwork che pare una versione di “Gabriel” immersa nella luce, dal blu notte al bianco accecante e con la modella scornificata e trasformata quasi in un androide. Se “Gabriel” aveva indisposto i vecchi fan dei Believer “Transhuman” gli dà il colpo di grazia, dando al pubblico una band che oramai è dedita ad un alternative modern metal fastidiosamente melodico (di quella melodia petulante ed enfatica tipica delle band dei 2000 alla In Flames e compagnia tatuata), quasi del tutto scevra di qualsivoglia elemento thrash. Persino Bachman canta in pulito, un’altra piccola rivoluzione. 54 minuti così saranno lunghissimi. Ed infatti arrivare in fondo è un’agonia. C’è una frattura netta tra i primi tre album dei Believer ed i successivi due, ci sono 16 anni a separarli ed una band che praticamente cambia completamente dna. Va detto che fin dal primo giorno i Believer hanno mostrato di avere una predilezione per la sperimentazione e l’evoluzione, semplicemente da un certo punto in poi la loro ricerca va in una direzione che, almeno per quanto mi riguarda, non riesco più a sposare. Con “Gabriel” va molto meglio, di tanto in tanto provo a tornarci sopra con spirito costruttivo, “Transhuman” proprio è indigeribile ma sono disposto a concedere l’onore delle armi e a comprendere che, nel suo genere, abbia uno spessore considerevole. L’attenzione attorno alla band comunque scema, decisamente gli album dei 2000 smuovono molta meno hype dei precedenti. Nel 2017 i Believer pubblicano 6 tracce in versione singoli a coppie…. la china rimane quella di “Transhuman”. A proposito del messaggio squisitamente cristiano, molto forte all’inizio e poi attenuatosi album dopo album, Duab ha dichiarato che i Believer non hanno mai voluto fare proselitismo o schierarsi apertamente, ma solo esprimere il proprio sentire, una dichiarazione ad onore del vero un po’ paracula perché leggendo i testi perlomeno dei primi due album ci sono davvero poche zone grigie, eppure Daub ha di fatto rifiutato l’etichetta di band “cristiana”, certamente poco funzionale al nuovo corso della band.
Discografia Relativa
- 1989 – Extraction From Mortality
- 1990 – Sanity Obscure
- 1993 – Dimensions
- 2009 – Gabriel
- 2001 – Transhuman