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Bathory: Destroyer Of Worlds

QUORTHON VS OPPENHEIMER

A distanza di parecchi anni dalla sua pubblicazione mi sono reso conto che “Destroyer Of Worlds” è probabilmente l’album più estremista dei Bathory. Non tanto a livello di sound, i primi 3 non si battono in tal senso; parlo di estremismo concettuale. Dopo una carriera trascorsa ad alternare black metal (intinto di thrash) ed epic metal in salsa norrena, Quorthon ha smesso di piantare steccati tra un argine e l’altro, e ha semplicemente lasciato che i due fiumi confluissero nello stesso letto. Non pago, ci ha buttato dentro dell’altro, memore del decennio appena trascorso, quello nel quale non aveva avuto di timore neppure di dare alle stampe un album solista bollato (negativamente) come un tradimento grunge e alternative. Quorthon però ha sempre avuto l’aria di quello che se ne fregava del resto del mondo e fino al 2001 oggettivamente lo ha fatto.

Contenuti:

1. Le intenzioni
2. L’album
3. Considerazioni

1 – Le intenzioni

Quando il 9 ottobre 2001 “Destroyer Of Worlds” uscì nei negozi per la solita Black Mark Production non poteva non deludere le aspettative. La montagna sulla quale Quorthon era salito con “Hammerheart” e “Twilight Of The Gods” era così alta che qualunque altra cima sarebbe sembrata inferiore e modesta. Per altro i due lavori rilasciati immediatamente dopo, “Requiem” nel 1995 e “Octagon” nel 1996, non solo mollavano temporaneamente l’epoca vichinga per tornare al blackened thrash, ma pur inseriti nel proprio filone di rispondenza sembravano due dischi tutt’altro che ispirati ed illuminati. Nel 1996 “Blood On Ice” arrivò a risanare un po’ questa ferita, anche se tutto sommato si trattava di materiale vecchio rispolverato e prodotto a livello di demotape. Indubbiamente la qualità delle canzoni c’era tutta, la magia della narrazione fantasy e pagana sfoggiata da Quorthon a cavallo tra la fine degli ’80 e i primi ’90 pure, proseguiva coerente, e “Blood On Ice” finì col far tirare un sospiro di sollievo a molti fan, soprattutto quelli acquisiti durante il periodo norreno rispetto ai blackster e ai satanachisti più incalliti. Quorthon sembrava non avere pace, pubblicando album a nastro, nello stesso anno di “Requiem” ne mette in circolazione anche uno solista (chiamato proprio “album”), una specie di capriccio nel quale Thomas Börje Forsberg esplora territori che il monicker dei Bathory decisamente gli avrebbe precluso. In che anni siamo? Quelli del grunge e dell’alternative, e perché lui non avrebbe dovuto sperimentare e cimentarsi in qualcosa di completamente diverso? In molti non glielo perdonarono, qualcuno rimase perlomeno incuriosito anche se magari non esattamente entusiasta della musica proposta. Sta di fatto che quel capitolo strambo, sorprendente ed imprevisto gettava una nuova luce sull’anima nero pece dello svedese. I tempi erano cambiati, lo erano già da “Blood Fire Death” che aveva introdotto l’epopea vichinga tanto nei testi quanto nel suono; ora stava per accadere di nuovo? Dove ci avrebbe portato Quorthon?

La metà degli anni ’90 pareva all’insegna dell’indecisione, troppe parti in commedia, il black, il thrash, satana, il paganesimo, l’epic ma anche il rock. Quindi dopo questa infornata di album, dopo i passi in avanti seguiti da quelli indietro e poi anche di lato, cosa ci saremmo dovuti aspettare dal quartier generale dei Bathory? E’ proprio in quel punto che si colloca “Destroyer Of Worlds”. Un intero lustro lo separava dalle precedenti release, segno che Quorthon, l’irrequieto Quorthon, una qualche pausa di riflessione se l’era presa, o forse semplicemente si era fermato a ricaricare le pile non avendo più molto da dire. Titolo ed artwork sembravano presagire un certo vigore, una certa aggressività. Per quello che era dato vedere, potevamo stare tanto dalle parti dei guerrieri del nord come dei diavoli del sud, e infatti Thomas sostanzialmente si piazza proprio nel mezzo, anzi come un polipo stende i tentacoli in direzioni multiple. “Destroyer Of Worlds” è un album difficile, soprattutto è difficile capire quale fosse il target di Quorthon quale ritenesse che realisticamente sarebbe potuto essere il pubblico per quei 65 minuti. Magari in un eccesso di hybris deve aver pensato che il nome Quorthon oramai fosse un marchio capace di chiamare a raccolta una audience a prescindere (dal genere), che avesse insegnato ai propri fan a non fossilizzarsi in una trincea bensì ad alzare la testa, aprire occhi ed orecchi e disporsi anche alla contaminazione; o più prosaicamente non avrà fatto alcuna valutazione di marketing, limitandosi ad incidere semplicemente ciò che gli andava di suonare, che si fottessero tutti, pubblico, critica e addetti ai lavori di ogni ordine e grado. Torniamo alla congettura iniziale, il 10° album ufficiale della discografie dei Bathory non poteva non deludere le aspettative, per la sua indecifrabilità.

bathory 1

II – L’album

Ben 13 tracce spalmate su troppi generi, dall’epic alla “Hammerheart”/”Twilight Of The Gods” al thrash di metà anni ’90, naturalmente sempre memore della lezione delle origini (con Venom e Kreator su tutti, “Bleeding” ad esempio pare veramente un pezzo uscito dal songbook di quelle due band), passando anche dall’heavy rock muscolare e un po’ sborone di “Krom” (che con il suo rombo di motore iniziale evoca imperatori del pacchian metal come i Manowar o persino i Motley Crue) all’heavy thrash di “Sudden Death” e “White Bones”. Quest’ultima in particolare fa ricorso anche ai corettoni epic per poi concedersi un’apertura ariosa e sognante alla maniera dei Trouble che fanno il verso ai Pink Floyd. Tanta carne al fuoco (troppa?) derivante del repertorio quorthoniano e oltre. La produzione rigorosamente autoctona non è di grandissima qualità, l’album ha un sapore raw, sicuramente selvaggio ma gli manca profondità e respiro, e lo si accusa in particolar modo nei pezzi dal taglio più epic. Quorthon suona tutto, come forse ha sempre fatto oppure no, c’è molto mistero al riguardo, in questo caso però non risulterebbe così difficile crederlo vista la performance esecutiva globalmente piuttosto lineare. Ciò che si respira abbastanza chiaramente tra i solchi di “Destroyer Of Worlds” – il cui testo per altro è un chiaro riferimento ad Oppenheimer – è una certa libertà compositiva, Quorthon va a briglia sciolta, saltando di palo in frasca e non preoccupandosi granché di una scaletta decisamente eterogenea e potenzialmente ostica da metabolizzare, anche per un fan, poiché non è poi così raro imbattersi in estimatori dei Bathory epici ma poco avvezzi a quelli proto black (mentre è meno frequente il contrario, anche se dei puristi ci sono pure lì). Quorthon insomma va libero e questa percezione arriva chiara e netta, c’è freschezza e genuinità tra le note (sempre roboanti) del disco, per quanto il rovescio della medaglia sia chiudere l’ascolto con la testa un po’ frastornata.

La spontaneità di cui sopra non deve far pensare ad un lavoro dal sapore leggero o spensierato, tutt’altro, “Destroyer Of Worlds” è cupo, livoroso, denso. Non bisogna dimenticare che l’album esce 29 giorni dopo l’attentato alle torri gemelle di New York, il mondo è sconvolto ed un disco che paventa nel titolo la distruzione del pianeta, raffigura le fiamme della fine nucleare e cita apertamente il padre della bomba atomica non deve certo essere stato accolto e recepito come una pomata lenitiva su di una ferita profondissima e sostanzialmente inguaribile. Quorthon non aveva la più pallida idea che i tempi del terrorismo e quelli della sua musica sarebbero coincisi, tutta la fase di songwriting è ovviamente avvenuta prima, ma per un caso fortuito la release date sconta un momento storico alquanto delicato e problematico, e la postura nichilista e distruttiva di Quorthon e della sua musica ne accentuano ogni disagevole asperità. Se anche questo abbia inciso nel feedback raccolto dal platter non saprei dire. ma indubbiamente è un dettaglio impossibile da ignorare.

III – Considerazioni

Quando l’album uscì lo acquistai in vinile ed il primo ascolto non fu entusiasta. Lì per lì rimasi favorevolmente impressionato dai pezzi maggiormente epic (“Lake Of Fire”, la title-track, “Ode”, “Pestilence”, “Day Of Wrath”). Per la verità tra questi “Ode” mi sembrò abbastanza debole mentre la venomiana “Bleeding Thrash” nella sua rozzezza mi piacque parecchio. Si avvertiva che il peso specifico non era più quello del ’90/’91, eravamo sideralmente distanti da quella qualità, ma allo stesso tempo era un bel segnale di ripresa rispetto al periodo “Requiem”/”Octagon”, piuttosto involuto e ripiegato su se stesso. Col senno di poi, allontanatisi sempre più gli anni della golden age bathoriana, perduto persino lo stesso Quorthon nel 2004, il ritorno sui solchi di questo “Destroyer Of Worlds” è stato più dolce e tollerante. Sedimentatosi tutto il repertorio della band, devo dire che per quanto mi riguarda ho minimamente rivalutato il disco. Non è mai stato e continua a non essere né un capolavoro né una delle migliori prove dei Bathory, ma non è neppure così male. A me ad esempio l’accoppiata dei “Nordland” ha sempre detto poco, mi pare che a quei due album manchi la genuinità e l’urgenza che invece non solo avevano gli originali dischi epic dei Bathory (“Blood Fire Death”/”Hammerheart”/”Twilight Of The Gods”) ma che tutto sommato ha anche lo sbilenco e incerto “Destroyer Of Worlds”, a suo modo. Ne vedo tutti i difetti ma non per questo non ne colgo i pregi e nella mia personale classifica dei dischi bathoriani lo metto senza grandi difficoltà sopra la produzione post 1991, ad eccezione del solo “Blood On Ice” che nonostante tutto conserva ancora cristalli di luce antica al suo interno. Un pezzo come “Death From Above”, per citarne uno come ideale paradigma dell’intero album, non inventa nulla, lo si può persino definire ordinario ma diverte, fa il suo dovere, rispettando ogni stereotipo e comandamento borchiato. Per lo stesso motivo Lemmy e i Motorhead sono diventati divinità fuori dallo spaziotempo occupato da noialtri comuni mortali.

Sarebbe davvero interessante scoprire cosa avrebbe fatto “dopo” Quorthon, se un infarto non se lo fosse portato anzitempo nelle sale dorate del Valhalla. Avrebbe fatto come i Megadeth, ovvero dopo un periodo di sperimentazione e curiosità verso altri riferimenti musicali si sarebbe rimesso l’elmetto e la canottiera col caprone, e avrebbe ripreso diligentemente a sfornare album conformi al canone che la fan base pretendeva? Oppure avrebbe fatto come i Metallica, sbandando prima a destra, poi a sinistra, poi magari finendo pure fuori strada, ma cercando di mantenere una qualche integrità ed onestà verso se stesso, lasciandosi trasportare dove il suo spirito voleva (veramente) andare? Tutto questo al netto della qualità compositiva, sto parlando di mera filosofia e personalità di un artista, poi gli album si possono azzeccare come sbagliare. Quorthon però è sempre sembrato uno vero, integralista nel senso più positivo del termine, anche per questo motivo i due “Nordland” mi lasciarono l’amaro in bocca, una retromarcia troppo facile, troppo comoda, troppo prevedibile. Forse Quorthon sarebbe stato semplicemente Quorthon, più vecchio, più saggio, ed avrebbe scelto una terza via, quella di Quorthon, che mi piace pensare sarebbe assomigliata idealmente alla formula del bizzarro “Destroyer Of Worlds”, magari più raffinato e scolpito dall’esperienza accumulata negli anni.

Discografia Relativa

  • 2001 – Destroyer Of Worlds

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