Secondo un criterio meramente soggettivo, punto il radar su quella che a mio avviso è l’autentica golden age degli Anthrax, sei anni declinati in tre album che, per chi scrive, rappresentano il non plus ultra della band newyorkese, il loro climax artistico. Il che non significa che il prima ed il dopo non valgano, ma semplicemente che il momento di maggior fulgore ed ispirazione nella storia degli Anthrax è raccolto qui, spalmato lungo tre lavori per altro estremamente diversi tra loro: lo scanzonato (fino ad un certo punto) e piacione “State Of Euphoria”, il razionale e speculativo “Persistence Of Time”, l’avventuroso e destabilizzante “White Noise”. Un ideale podio che probabilmente fotografa davvero le tre migliori prove in carriera degli Anthrax, dettate dal coraggio che allora certamente non mancava alla band.
Contenuti:
1. Gung-Ho (1987)
2. Operation: Euphoria (1988)
3. C’è poco da ridere (1990)
4. Attenzione, questa non è un’esercitazione! (1993)
5. Finale
1 – Gung-Ho
“I’m The Man” e “Walk This Way” hanno cambiato tutto per quanto riguarda la commistione di musica metal, funky e naturalmente rap. Forse non si sarà necessariamente trattato dei primi esperimenti in assoluto in tal senso (qualche topo borchiato d’archivio saprà sicuramente trovare casistiche precedenti), ma sono indubbiamente due episodi che hanno avuto una larghissima risonanza mediatica e pertanto hanno dettato la via e influenzato altre band tentate e disposte a perseguire una strada simile, senza paura di infangare l’ortodossia. Gli Anthrax in particolare venivano da “Among The Living”, pubblicato appena qualche mese prima, bagnato da un grande successo di pubblico e critica, e che in breve avrebbe ereditato la nomea di “capolavoro” della discografia degli Anthrax. “I’m The Man” arriva un po’ a sparigliare, lì per lì non viene percepito come troppo dirompente o pericoloso, perché l’idea è che sia pur sempre una parentesi temporanea, un divertissement che per dei burloni caciaroni come gli Anthrax ci può anche stare, glielo si può concedere, sicuri che poi al momento giusto sapranno ricomporsi e tirare fuori gli attributi, producendo album di thrash grintoso e fiammeggiante. A ben vedere uno spirito ironico e sornione la band newyorkese lo ha sempre avuto, all’altezza del 1987 lo sta solo accentuando, “Efilnikufesin” o “Imitation Of Life” nella tracklist di “Among The Living” erano delle avvisaglie già molto chiare. Dal vivo gli Anthrax se la godono, scherzano, ridono, giocano, i ragazzi gigioneggiano on stage, Scott Ian fa del suo “Not” un monumento che ruba la scena, ci sono cartelli, pupazzi, le facce truci e i grugni cupi degli Slayer o financo dei Metallica non si vedono in giro quando sul palco si esibiscono i bacilli d’antrace indossando bermuda e cappellini con la visiera. Certo “I’m The Man” esaspera parecchio questo andazzo, la stessa canzone è una macchietta molto divertente, un patchwork di citazioni e omaggi che vanno dal folk ebraico a “Master Of Puppets”, passando per il cinema e i Beastie Boys (vero faro di un’operazione del genere).
“For a heavy metal band raps a different way, we like to different and not cliche, they say rap and metal can never mix, well all of them can suck a….” è una delle strofe del pezzo ma è anche un manifesto d’intenti, una dichiarazione di libertà e autarchia che prepara (o almeno avrebbe dovuto) il pubblico a ciò che sarebbe arrivato di lì a poco in casa Anthrax.

II – Operation: Euphoria
Il 19 settembre 1988 Megaforce/Island Records pubblicano “State Of Euphoria”, quarto studio album della band. Il concepimento della maggior parte delle songs è attribuito a Charlie Benante, per quanto ovviamente tutta la band abbia poi contribuito all’amalgama finale, così come per i testi il nome di riferimento è quello di Scott Ian. L’album si presenta con una dominante cromatica gialla, una spirale ansiogena in copertina che ritrae la progressiva collera di un volto (instabile, ma tutt’altro che euforico), mentre sul retro il quintetto è ritratto fumettisticamente da una delle matite dello storico magazine satirico Mad (Mort Drucker). Per la fine dell’anno il disco raggiunge la 30esima posizione nella Billboard 200 americana e per febbraio dell’89 acquisisce lo status di disco d’oro. Non un disastro commerciale ma nemmeno un trionfo. L’accoglienza è decisamente tiepida, l’album viene inappellabilmente ritenuto inferiore a tutti i suoi predecessori, senza possibilità d’appello. Cosa è che non funziona secondo i fan più critici e la critica meno affezionata? Sostanzialmente due aspetti, il songwriting complessivamente meno convincente ed un troppo esibito approccio ridanciano e scanzonato che stroppia. Sul primo ho sempre fatto una gran fatica ad individuare lo stigma; personalmente trovo che il songwriting di “State Of Euphoria” sia molto brillante, fresco, meno ingabbiato di quello di “Among The Living”, ovvero più sciolto e dinamico. Alcuni dei pezzi contenuti in questa track-list sono, a mio gusto, tra i migliori di tutta la discografia della band, mi riferisco al blocco della prima facciata del vinile e perlomeno alla fantastica “Finale” che – nomen omen – chiude l’album alla grande e con una discreta frenesia. Posso concordare sul fatto che la seconda metà della scaletta conosca una lieve flessione, ma non si tratta di una discesa nella mediocrità, il terzetto composto da “Now It’s Dark”, “Schism” e “Misery Loves Company” (perché “13” sono appena 51 secondi di strumentale) è più che dignitoso ed anzi per quanto mi riguarda tiene egregiamente botta; ma posso essere d’accordo sul fatto che il meglio dell’album risieda nella restanti canzoni prima menzionate. Sarà che l’ho ascoltato talmente tanto da aver letteralmente consumato il vinile ed averlo conseguentemente dovuto riacquistare una seconda volta, ma quando ognuna di queste dieci tracce attacca le mie endorfine fanno un incessante lavoro di esaltazione del piacere, 52 minuti di puro godimento, dall’inizio alla fine.
Per quanto attiene all’eccesso di faciloneria buffonesca dell’album, andrebbe chiarito più puntualmente di cosa stiamo parlando. “Be All, End All” è il pezzo che apre il disco e che appare più strettamente legato al titolo ed al concept; se il testo gioca con le parole e la loro assonanza (“be all, and you’ll be the end all, life can be a real ball…“), musicalmente gli Anthrax non accennano minimamente ad edulcorare il portato del loro thrash metal groovoso e martellante. “Make Me Laugh” fa tutto tranne che ridere; oltre ad essere un’eccellente prova strumentale, fa riferimento alla grande ipocrisia (criminale) dei tele-evangelizzatori americani, un’autentica piaga nella terra dello zio Sam degli anni ’80. “Misery Loves Company”, come da titolo, ci porta nel mondo paranoide della protagonista del romanzo di Stephen King Misery; “Now It’s Dark” in quello deviato e sociopatico di David Lynch (in riferimento al film Velluto Blu); “Schism” tratta di odio e discriminazione; “Antisocial” oltre ad essere una meravigliosa cover della già spumeggiante canzone originale dei francesi Trust, non si occupa certamente di cose particolarmente frivole o comiche. Per non parlare del momento liricamente più alto dell’album (ovvero l’altro singolo, con relativo videoclip, assieme ad “Antisocial”), “Who Cares Wins”, tra le canzoni più belle in assoluto della carriera degli Anthrax, ritmicamente elaborata e decisamente raffinata, ancorché fosca ed amarissima. “Finale” è probabilmente il pezzo più leggero e scemarello dell’album, come umore, per quanto la band pesti a scapicollo per congedarsi al meglio dal proprio pubblico. Questo equivoco del disco troppo allegrotto ed ironico andrebbe definitivamente sfatato e fondamentalmente nasce dall’impostazione di una band che sta (ed è sempre stata) agli antipodi della misantropia accigliata ed arrogante di un Kerry King o della tracotanza da bullo di un Phil Anselmo. “State Of Euphoria” non era affatto così superficiale rispetto ad un “Among The Living”, è anzi un lavoro più che solido ma la confezione ha finito col prevalere sul contenuto, il significante si è mangiato il significato, ed è passata l’idea della band che si sbellica dalle risate invece che suonare del buon thrash.
III – C’è poco da ridere
La pioggia di critiche permea gli Anthrax che se la legano al dito. Loro stessi si rimproverano pubblicamente un eccesso di frettolosità nel confezionare l’album che forse è andato a detrimento della resa finale. Passato il tour dedicato a “State Of Euphoria” saranno sostanzialmente “Antisocial” e “Be All, End All” i soli pezzi ad essere suonati dal vivo, in una sorta di rimozione collettiva di un album che aveva scontentato troppi. Con questo stato d’animo (evidentemente non “euforico”) gli Anthrax si accingono a registrare il successore, siamo all’alba dei ’90, molte cose stanno cambiando e gli Anthrax vogliono, fortemente vogliono cambiare, o perlomeno dare un’idea di cambiamento agli occhi della propria fan-base. Cosa c’è di più opposto della presunta immaturità di un disco “infantile” come “State Of Euphoria”? La maturità di un nuovo album serioso e riflessivo: 21 agosto 1990 arriva “Persistence Of Time”. Sebbene il singolo che anticipa il disco sia “solo” una cover di Joe Jackson debitamente metallizzata (“Got The Time”) ed anche l’artwork di copertina sia tutto sommato cartoonesco nel tratto, anche se più oscuro nel cromatismo e nel concept (ossa come lancette e teschi per le ore scandiscono forse il countdown finale?), complessivamente si tratta di una prova assai più austera e contegnosa rispetto a “State Of Euphoria”. Durante la lavorazione dell’album un grave incendio si mangia oltre 100,000 dollari di attrezzature, motivo per il quale la band è costretta a trasferirsi in un altro studio per portare a termine le registrazioni. Il malessere derivante dall’accoglienza ricevuta nel 1988, unitamente a questo incidente di percorso, al travaglio matrimoniale di Ian che divorzia dalla moglie e allo zeitgeist che anticipava una decade uggiosa e ombrosa, segnano l’anima del nuovo album. I testi sono assennati e socialmente impegnati, il sound è nero, problematico e marcatamente progressivo nel suo dipanarsi, la lunghezza di molte tracce si espande sensibilmente anche se l’architettura delle canzoni procede per microvariazioni, stratificazioni di elementi che poco a poco ingrossano l’architrave, come affluenti del grande fiume. Tutto ciò non va però a discapito dell’elemento thrash, sempre generoso e ben alimentato dal carburante incessante derivante dagli strumenti dei cinque orologiai. Come si è probabilmente capito, “State Of Euphoria” non mi era affatto dispiaciuto ma ciò nonostante non mi è davvero possibile muovere alcuna critica a “Persistence Of Time” il quale, pur essendo per certi versi il rovescio esatto di quella medaglia, da un punto di vista compositivo è forse la vetta compositiva degli Anthrax, il loro album più importante, profondo e riuscito e, mi sento di dire, a tutt’oggi ineguagliato. Affettivamente il mio cuore sta con “State Of Euphoria”, che è anche il disco con cui ho scoperto gli Anthrax, ma razionalmente se devo individuare la loro miglior prova credo proprio si tratti dell’immenso “Persistence Of Time”, capace di creare un’atmosfera omogenea, compatta e assolutamente peculiare che lo rende inconfondibile nel panorama del thrash di quegli anni.
La Billboard 200 certifica la numero 24 come la miglior posizione raggiunta dall’album, appena 6 scalini sopra “State Of Euphoria” (…non un miglioramento sensazionale) e, come quello, raggiunge il disco d’oro nel giro di qualche mese. Globalmente tuttavia critica e pubblico lo digeriscono assai meglio del disco euforico, è più nelle corde della band, o semplicemente è più nelle corde di chi voleva la band in un certo modo, per quanto sin dall’85 Ian e Benante (ma pure Dan Lilker, che figurava nella line-up di “Fistful Of Metal”) avevano mostrato una spiccata tendenza al cazzeggio, appaiandosi a Billy Milano nei dissacranti S.O.D.. Dopo “Persistence Of Time” cambieranno molte più cose di quanto i fans si sarebbero aspettati ed avrebbero auspicato. Se il quinto titolo degli Anthrax rappresentava una discreta svolta ma pur sempre all’interno di un solco definibile come “comfort zone” per il metallaro dell’epoca, il successivo “White Noise” sfigura completamente la band, o almeno quella era la prima impressione, a caldo. Cambio di etichetta (firma con la Elektra), cambio di produttore (il Dave Jerden di Alice In Chains e Jane’s Addiction al posto di Mark Dodson), cambio di decennio (il metal degli ’80 improvvisamente è materiale da archeologi), cambio di cantante (Joe Belladonna cede lo scettro-microfono dopo un tempo con la band che sembra infinito).
Si narra che la collaborazione con i Public Enemy (eroi incontrastati di Scott Ian) su “Bring The Noise”, dove in effetti Belladonna si limita a fare ammuina, sia stata la goccia che abbia fatto traboccare il vaso, ma tutto stava comunque portando nella direzione di una separazione da Joe, in primis la ferrea volontà dei compagni d’arme di aprirsi al nuovo, alla contaminazione, ad input che andassero oltre il thrash primigenio che aveva garantito una prima fisionomia e riconoscibilità alla band. Evidentemente non la stessa “cup of tea” dell’italo-nativo americano Belladonna, all’anagrafe Joseph Bellardini. E pare che già all’epoca di “Persistence Of Time” la band avesse accarezzato l’ipotesi di un cambio di cantante, opzione coltivata all’insaputa di Belladonna, che comunque aveva i suoi alti e bassi tra alcol e cure riabilitative. Nonostante le candidature di Mark Osegueda dei Death Angel e Spike Xavier dei Mind Over Four, in sostituzione arriva John Bush dagli Armored Saint, un uomo che aveva rifiutato i Metallica per poi accasarsi negli Anthrax. Detta così non pare una genialata ma il contesto era drammaticamente cambiato; se all’epoca dell’offerta dei Metallica gli Armored Saint avevano mille aspirazioni da soddisfare, al tempo dell’arruolamento negli Anthrax i Saints uscivano da un capolavoro assoluto come “Symbol Of Salvation” che tuttavia era andato suppergiù come tutti i dischi precedenti dei Saints, grandi vittorie morali e pacche sulle spalle schiantate dal disinteresse dei metalkids, sempre interessati a qualche nome più grande e ora forse neppure più interessati al metal tout court, una realtà da ingoiare dura come il cemento. Pur promettendosi che quello con i losangelini sarebbe stato solo un arrivederci e non un addio, Bush decide di giocarsi la carta del nome mainstream che gli permetta finalmente una carriera con l’iniziale maiuscola (…così spera lui).

IV – Attenzione, questa non è un’esercitazione!
“White Noise” è al contempo vicino e lontano dagli Anthrax. E’ una continuazione persino coerente con quanto messo in mostra su “Persistence Of Time” (progressivo allontanamento dal thrash asfittico, in parallelo ad una maturazione emotiva e politica della band), eppure allo stesso tempo è il ritratto di un gruppo profondamente diverso da quello di “State Of Euphoria” ma anche di “Spreading The Disease”. Il biglietto di presentazione degli Anthrax 2.0 è il singolo “Only”, che ha davvero un effetto dirompente su chi veniva da “Antisocial” e “Got The Time”, è tutto un altro sound, un altro mondo, un’altra attitudine, di colpo è tutta un’altra epoca storica. Adesso gli Anthrax vengono dal futuro, non sono più ascrivibili al passato e dunque incarnano famelicamente il presente; incerto, instabile, fragile, cangiante ma al contempo pulsante, vitale, intenso. Il connubio della voce di John Bush (e dunque dell’inevitabile portato Armored Saint), più sofferta, calda e penetrante di quella rotonda e rassicurante di Belladonna, con le chitarre di Spitz e Ian, con il drumming di Benante e con il basso di Frank Bello è miracoloso; un amalgama che sorprende come quando in cucina si mescolano due ingredienti che sulla carta si dovrebbero respingere ed invece creano una sintesi inebriante nel palato. Una canzone bellissima che dischiude un intero universo di nuove possibilità, che poi sono quelle contenute su “White Noise”, il rumore bianco formato da tutto lo spettro sonoro possibile. Un’oretta scarsa declinata in 11 capitoli ermetici, sfidanti (a titolo esemplificativo cito “Black Lodge”, che porta addirittura la firma di Angelo Badalamenti direttamente da Twin Peaks, nient’altro che blasfemia per le orecchie di un fan duro e puro di “Metal Thrashing Mad”), ma dal peso specifico enorme. Già perché per paradosso la maggior presenza di melodia sovverte l’ordine costituito e destabilizza assai più che un nodo gordiano di avvitatissimo e furioso thrash. Con le dovute differenze di contesto, “White Noise” sta agli Anthrax un po’ come “Motley Crue” sta ai Motley Crue, in entrambi i casi una band storica rivisita completamente il proprio genere di riferimento sull’onda emotiva del cambio di cantante e così facendo scrive uno dei migliori album della propria storia (non riuscendo poi a dargli un seguito all’altezza). Il punto non è se “White Noise” sia o meno un buon album, perché lo è (lasciate perdere l’ossessivo rimando al grunge brandito dai suoi detrattori, ok il grunge sarà pure un’influenza ma questi non sono gli Anthrax In Chains); il punto è quanto si è disposti a seguire gli Anthrax in terra straniera, quanto si è disposti a lasciare gli ormeggi sicuri del thrash degli anni ’80 per avventurarsi in mare aperto, per quanto i primi sentori, i primi odori di questo inesplorato giardino liquido siano inebrianti, per non dire entusiasmanti. La differenza nella fan-base degli Anthrax del 1993 la fa sostanzialmente questa volontà, nuotare a largo senza appigli o rimanere dove “si tocca”.
Quello che non è affatto comprensibile è un certo livore che accompagna la scomparsa all’orizzonte del piroscafo Anthrax, gli improperi, gli accidenti, le accuse rancorose di questo e quello, mosse da chi si era ritrovato tra le mani il giocattolo rotto, non aveva capito ciò che aveva ascoltato e si era sentito di colpo orfano, abbandonato all’autogrill lungo l’autostrada. Si è scritto degli Anthrax “conformisti”, saliti sul carrozzone del trend imperante in quel momento, beh, cosa dovremmo dire allora degli Anthrax odierni, mestamente cristallizzati dentro una palla di vetro recante la targhetta “1987”? La nuova via era più commerciale? Probabilmente sì, sempre intesa nei limiti dell’heavy metal, certo la band di Scott Ian e soci non va in tour con Madonna e i Pet Shop Boys ma comunque, da che metal è metal, una qualsiasi forma di alleggerimento e/o maggiore intellegibilità è sempre stata interpretata come opportunismo e genuflessione al business. In tal senso i pubblici ministeri contro gli Anthrax non fanno eccezione e la band perde una discreta fetta di estimatori e seguaci. Se poi a questo si aggiunge che gli album immediatamente successivi (appena due lungo tutto il resto della decade) si rivelarono assai più modesti dell’esplosivo “White Noise”, alimentando la convinzione che gli Anthrax avessero fatto il passo più lungo della gamba senza sapere esattamente dove andare a parare, risulta chiaro come anche la bell’anima di “White Noise” abbia subito ex post le conseguenze di un declino inesorabile della band che ha “imbruttito” pure un album che di brutto aveva solo la copertina.

V – finale
In fin dei conti è vero che dopo “White Noise” gli Anthrax non abbiano saputo che fare, dove andare, cosa suonare. “Stomp 442″ e ” Volume 8: The Threat Is Real” non sono album abominevoli in tutto e per tutto, qualche traccia che vale la pena c’è sempre, ma traspare marchiano un senso di smarrimento, di inconsistenza, di confusione, di perdita di identità. Gli Anthrax non volevano e non potevano più essere quelli di prima ma non erano ancora diventati qualcos’altro, il solo “White Noise” non aveva compiuto la transizione, non aveva definito nettamente una personalità e dunque la band era come rimasta in un limbo, a metà del guado, né di qua né di là, acefala e sempre più involuta. Dan Spitz questo lo annusa, perché prima della registrazione di “Stomp 442” se ne va lasciando gli Anthrax in forma di quartetto, seppur con ospitate di prestigio alle sei corde come quella di Dimebag Darrell e con Charlie Benante ad occuparsi della chitarra (assistito da Paul Crook poi lead guitarist in sede live). “We’ve Come For You All” è il primo album dei 2000, si aggiunge la seconda chitarra di Rob Caggiano e intanto gli anni ’90 sono diventati una fotografia, esattamente come accaduto agli ’80 prima di loro. Si può (finalmente) provare a strappare qualche radice e fare un passo in avanti… anzi indietro. Intendiamoci, a livello di produzione il disco è moderno, né vi è traccia del songwriting del 1985, tuttavia rispetto agli immediati due predecessori “We’ve Come For You All” rimette un po’ più a fuoco gli Anthrax classicamente intesi, c’è insomma relativamente meno sperimentazione ed il sound è più quadrato e pragmatico. In qualche misura è anche un po’ un disco di riciclo, che prova a far smussare il broncio a qualche vecchio fan, riuscendoci poco, ma comunque sempre di più di quanto avevano ottenuto gli Anthrax lungo gli accidentati anni ’90.
Che la vena di avanguardia si stia esaurendo lo si capisce anche dal fatto che Bush smonta le tende e torna a casa, da bravo figliol prodigo. Bush è costitutivamente incapace di vivacchiare di revival, diventerebbe soltanto un mestiere anziché una passione, praticamente ne snaturerebbe l’anima. Come quando il vento porta la pioggia, si annusa nell’aria cosa hanno voglia di fare gli Anthrax… ha un nome e un cognome, e un copricapo, quello degli indiani. Facilitato dal propedeutico e programmatico (e furbacchione) best of “The Greater Of Two Evils”, nel quale Bush interpreta tracce del repertorio “old school” della band (quindi quello di Belladonna), il cambiamento dei newyorkesi è quanto mai gattopardesco, cambiare tutto per non cambiare niente. Ed ecco che al campanello di casa si presenta Joe Belladonna, inamidato di tutto punto, col ditino a fare plin plon. Si torna al vecchio, all’usato sicuro, a quello che gli Anthrax “avrebbero sempre dovuto continuare a fare” senza imbarcarsi in metamorfosi “senza senso”. Nel 2011 gli Anthrax incidono per Megaforce e al microfono c’è Belladonna, pare Ritorno Al Futuro, un lungo trip durato 20 anni, e invece sono gli Anthrax, pigri e pavidi come mai, abbarbicati con le unghie e coi denti agli anni ’80 che non devono andare (mai) più via, speranzosi di riprendersi ogni singolo fan perduto sin lì, anche se nel frattempo si è sposato, ha fatto figli, ha divorziato, ha perso i capelli ed il girovita è drammaticamente precipitato). Il resto è storia.
Discografia Relativa
- 1987 – I’m The Man (Ep)
- 1988 – State Of Euphoria
- 1990 – Persistence Of Time
- 1993 – White Noise