Per Alice Cooper ci vorrebbero almeno 5 o 6 speciali monografici, la sua carriera è talmente vasta da richiedere una trattazione rispettosa, diffusa ed analitica. L’intento di queste righe è quello di prendere prevalentemente in esame la produzione discografica degli anni ’80, con i suoi prodromi nei tardi ’70 ed il suo riverbero nei primi ’90. Un artista poliedrico, fortemente creativo, in lotta con le dipendenze ma in perenne riscrittura e trasformazione, fino a metà anni ’80, quando la necessità di trovare equilibrio e stabilità – mentali e fisici prim’ancora che creativi ed economici – lo portano ad ancorarsi ad un personaggio che sostanzialmente non mollerà più, anche se musicalmente la sua creatura continuerà invece a progredire musicalmente, nel male (la parentesi “spazzatura” con Desmond Child e Jack Ponti) e nel bene (il ritorno all’antico con “The Last Temptation” e le solide produzioni del 2000).
Contenuti:
1. Alice goes solo (1975 – 1976)
2. I demoni degli anni ’80 (1977 – 1980)
3. Gli album del blackout (1981 – 1983)
4. A tutto horror (1984 – 1987)
5. Dolce veleno (1988 – 1991)
1 – Alice goes solo
Cosa può fare una rockstar quando ha conosciuto fama, successo e denaro? Darsi all’alcol ed eventualmente alle droghe. I paradisi artificiali sono per coloro che rifuggono dalla realtà, coloro i quali vogliono costruirsi un mondo parallelo in cui le cose vanno per il verso giusto, o perlomeno per il verso che intendono loro. Ma non è così semplice. Anche quando tutto gira a meraviglia e non si potrebbe chiedere di più succede che il peso da portare sulle spalle sia troppo, eccessivo, sfibrante, nonostante le gioie e l’entusiasmo, e si senta il bisogno di un amico al quale appoggiarsi per condividere il fardello dorato. Quell’amico magari ha sembianze vitree e diventa una bottiglia di gin o di whiskey. Ad Alice Cooper è successo. Intorno al 1976, dopo la pubblicazione di quello che ancora oggi viene ritenuto probabilmente il punto più alto della sua carriera, “Welcome To My Nightmare”. L’incubo di Alice arriva a seguito della fine della band intesa come collettivo. “Muscle Of Love “(’73) è l’ultima release degli Alice Cooper, e “Welcome To My Nightmare” è il primo album di Alice Cooper, ovvero Vincent Damon Furnier, classe 1948, nativo di Detroit, una delle città più dure ed ostili d’America. I musicisti che lo accompagnano nella costruzione del racconto della vita di Steven (una personalità prossima alla paranoia) arrivano dalla line-up di Lou Reed ed anche stilisticamente Alice dà una sterzata al proprio sound, rimarcando con maggior vigore gli elementi tetri ed orrorifici della sua poetica (c’è persino Vincent Price come voce narrante).
“Alice Cooper Goes To Hell “(’76) assesta ed attesta Alice come un esponente di spicco della scena rock, anche adesso che è divenuto un solista. Occorre però innanzitutto uscire dall’equivoco che l’artista sia relegabile esclusivamente ed unicamente ad un universo genericamente rock (men che mai al metal, come invece pensano molti suoi giovani estimatori cresciuti con gli album degli anni 2000). Alice ha più in comune con David Bowie, Elton John, Gary Glitter, Meat Loaf e Suzi Quatro che con Iron Maiden, Motorhead e Judas Priest. E soprattutto ha una carriera che ha sfondato il mezzo secolo di vita, con ben 28 dischi (rimanendo solo agli studio album pubblicati a nome Alice Cooper). Continuano dunque le avventure di Steven, anche se il pezzo di “Goes To Hell” che guadagna più attenzione è una ballad, come “Only Woman Bleed” (che non riguarda le mestruazioni… e non ridete, perché questo equivoco ne ha limitato moltissimo l’airplay radiofonico). Sto parlando di “I Never Cry”, ovvero quella che Alice definisce la sua “alcoholic confession”; il singolo (12esima posizione nelle charts americane) anticipa i problemi del singer con l’alcolismo, che a breve sarà la piaga che lo terrà occupato più di ogni altra cosa e che lo costringerà al ricovero in rehab. Per giunta il tour dell’album viene annullato a causa di problemi di anemia. Il ragazzo si sbatteva parecchio.
II – I demoni degli anni ’80
Alcol e globuli rossi non fermano però la produzione discografica, che vede un nuovo capitolo nel ’77 con “Lace And Whiskey”, un lavoro che cerca di spezzare le catene del personaggio che Alice si stava costruendo. Smessi temporaneamente i panni dell’inquietudine e dell’oscurità morbosa, Furnier si cala in quelli di un ispettore buffo e malinconico, un ideale punto di incontro tra Marlowe, Agatha Christie e il Clouseau di Peter Sellers. Il whisky è presente sin dal titolo dell’album, dunque il bicchiere non si molla, anzi. Tuttavia, bottiglia dopo bottiglia, viene partorito un disco sostanzialmente rock oriented ma non privo di aperture pop, siparietti teatrali e persino atmosfere in chiave anni ’40 e ’50, periodi storici verso i quali Alice Cooper si sente fortemente attratto. Il tour concepito a sostegno dell’album è assai spettacolare, con scenografie complesse, coreografie e ballerini. Al termine delle date live però Alice crolla fisicamente e viene confinato in una clinica per alcolisti di New York.
Con “From The Inside” letteralmente si intende “dall’interno del sanatorio”, ovvero la cronaca dell’inferno vissuto da Alice durante la permanenza nella clinica della Grande Mela. I compagni di questo viaggio – gli altri degenti – sono ritratti nell’artwork del disco, e sono descritti nelle canzoni. La stessa copertina, se osservata bene, non è semplicemente il faccione di Alice Cooper, ma l’ingresso alla sala d’aspetto dell’ospedale, decorato proprio con le fattezze della maschera del cantante, nelle cui pupille, come imprigionati, vediamo i pazienti della clinica. Giocoforza il disco è intenso e decisamente biografico, praticamente due sinonimi in questo caso. Un buon lavoro, sofferto ed emozionante, che mantiene alta l’asticella della qualità. Assieme al protagonista ci sono appendici di Elton John, il suo chitarrista Davey Johnstone, il suo bassista Dee Murray, il suo paroliere, Bernie Taupin, e Steve Lukather alla chitarra. La band che seguiva Alice però si è disfatta alla notizia del ricovero per alcolismo. Parte dei musicisti mette in piedi i Million Dollar Babies (che fantasia!) con Michael Bruce al microfono, e sostanzialmente cerca di rubare con un po’ di opportunismo il giocattolo al legittimo proprietario, o perlomeno di sfruttarne la fama. Ma non dura.
Avvengono spesso cambiamenti drastici nella vita di persone instabili e soggette a dipendenze. Nel caso di un musicista questi cambiamenti non possono non riflettersi anche nel suo ambito professionale e creativo. “Flush The Fashion” dice questo. E’ l’album che battezza gli anni ’80 e Alice lo indica sin dal monicker in copertina, assegnando il disco al curioso marchio “Alice Cooper ’80”, quasi a dire: “fanculo tutti, ci sono arrivato comunque, anche se mi avevate dato per morto e spacciato“. E però “Flush The Fashion” vende cara la pelle. E’ uno schiaffo all’audience più intransigente del rocker. Se “From The Inside” aveva rappresentato un doloroso atto di verità verso se stesso ed il proprio pubblico, questo dodicesimo titolo in carriera sembra voler prendere per il culo il mondo intero. Altro giro altra corsa. Influenze new wave, repentini cambi di sonorità dal rock al pop ed una foto di Alice sul retro copertina che grida vendetta (ed autoironia). Una faccia di tolla ed un look senza pari. Inaspettatamente l’azzardo ripaga Alice Cooper (anche se c’è chi solleva subito l’accusa di perdita di identità), l’album vende bene ed a distanza di tempo si è guadagnato (meritatamente) la patente di piccola gemma nascosta nella sua discografia. Il ricovero per alcolismo e la conseguente raggiunta sobrietà sono stati preziosa merce di scambio (promozionale) per il cantante, anche se nessuno sa (e dice pubblicamente) che nel frattempo Alice ha barattato questa guarigione con un’attrazione spiccata verso la cocaina (sotto il cui effetto “Flush The Fashion” ha visto la luce).
III – blackout
Nonostante il percorso catartico elaborato con “From The Inside” Alice Cooper in realtà non sta uscendo dal tunnel, ci è appena rientrato. Le successive tre release discografiche diverranno tristemente note con il nome di “blackout album”, i dischi di cui Alice non ricorda assolutamente nulla. Non ricorda di averli incisi, non ricorda quel periodo, non ricorda aneddoti e stralci di vita risalenti a quei giorni. Tre album, tre anni – 1981, 1982 e 1983 – nei quali tuttavia Alice c’è, canta, scrive e pubblica. Ed il paradosso è che “Special Forces”, “Zipper Catches Skin” e “DaDa” non sono affatto pessimi lavori, anzi. La memoria di Alice è indirettamente proporzionale al valore di questi titoli, poiché ognuno di essi merita a pieno titolo il monicker che porta ed una menzione di tutto rispetto nella discografia di Alice Cooper. Dopo “DaDa” verranno gli album più smaccatamente ottantiani di Alice, “Constrictor” e “Raise Your Fist And Yell”, e poi sarà il momento della “svolta” (nonché resurrezione) commerciale con “Trash” e “Hey Stoopid”, due lavori amatissimi dai fans ed economicamente fruttuosi ma, per quanto mi riguarda, anche enormemente sopravvalutati, soprattutto se paragonati al periodo del “blackout”, nel quale Alice scrive (evidentemente in stato dissociativo) musica decisamente migliore e di gran lunga più sostanziata di quella contenuta nei solchi milionari di “Trash” e del suo successore. “Special Forces” gioca la carta della pantomima militare (Alice va in tv a promuoverlo in tenuta da berretto verde), non senza mettere in mostra un discreto umorismo (non una novità per il nostro eroe).
Il conseguente tour è un successo, tuttavia i pezzi del disco non hanno mai conosciuto una grande frequenza dal vivo dopo, eccezion fatta per l’opener “Who Do You Think We Are”, riproposta più volte. Il tour si chiude nell’82 e ci vorrà un bel po’ prima che Alice sia in grado di intraprenderne un altro. Crack e alcol si riaffacciano prepotentemente nella sua vorticosa vita, pregiudicandone la salute e la stabilità psicofisica ma, come per molti rocker, non l’ispirazione artistica (c’è anche chi, sotto sostanze psicotrope ha scritto i suoi album migliori, un certo Dave Mustaine per esempio). “Zipper Catches Skin” Alice lo promuove in modo piuttosto aggressivo, definendolo un lavoro controcorrente, inviso ai cliché, molto hardcore, un disco che “totally kill”. Il piglio è diretto e un po’ scorbutico, in questo senso viene letto anche come un lavoro dall’approccio (idealmente) punk. Non viene fatto alcun tour (Alice, come detto, non è in grado) e le sue canzoni non sono praticamente mai state proposte dal vivo, evidentemente anche a distanza di anni Alice non lo ha ritenuto meritevole di un palco. Credo abbia inciso parecchio il fatto che si tratti di uno dei famigerati blackout album, e così abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca perché “Zipper Catches Skin” è un lavoro divertente, pungente, interessante come e più di altre produzioni a marchio Alice Cooper (tuttavia è anche il primo a non sfiorare posizioni degne di classifica). Al solito, l’artwork è degno di menzione; se la copertina riporta i testi, con la particolarità grafica di una striatura di sangue, la foto che ritrae Alice lo vede in una mise alla GQ, con problemi di cerniera lampo capricciosa ed un’espressione che definire sorniona e paracula è dire poco.
Si narra che le sessioni di registrazione fossero così composte: Alice appollaiato su uno sgabello, intento a fumare pipe di crack, il microfono davanti ed un sipario nel mezzo. Intossicato da droga e alcol Alice non perde comunque la sua curiosità artistica, volando anche alto, o perlomeno andando a cercarsi territori non convenzionali né facili. Prendere a modello il dadaismo come tematica di sfondo di un album non corrisponde esattamente a voler “vincere facile”. Neppure aprire la scaletta con una sorta di suggestiva intro come è la title track, per poi farla seguire da una canzone infingarda (ma crudissima a livello lirico) come “Enough’s Enough”. “DaDa” è un lavoro eccellente, pieno di pezzi sensazionali (“No Man’s Land”, “Scarlet And Sheba”, “I Love America” sono alcuni di questi), di nuovo poggiati su una storia di alienazione, dissociazioni di personalità e disagio mentale, stavolta il protagonista si chiama Sonny (ma si potrebbe chiamare Vincent). La Warner Bros non rimase affatto soddisfatta dell’esito e il contratto con l’artista si concluse con questa release. Nel ’96 Alice ha dichiarato sorprendentemente che “DaDa” è stato l’album più spaventoso che abbia mai fatto e che in realtà non ha mai avuto la minima idea su dove volesse andare a parare. Ovviamente, zero promozione, zero tour, canzoni mai riproposte dal vivo.
4 – a tutto horror
Gli anni ’80 per Alice sono anche gli anni della costruzione dell’immagine di culto che poi lo consegnerà tout court all’horror. Se l’inquietudine fino ad ora era stata solo una delle componenti della sua musica e del suo personaggio (anzi, negli anni del blackout un’attitudine persino accantonata in favore della ricerca estrosa di altri elementi descrittivi della sua personalità), con la riemersione dal baratro dell’alcolismo e della dipendenza dalle droghe Alice intende evidentemente fare poche cose, ma chiare e fatte bene. Un percorso netto che gli garantisca un risultato, riconoscibilità e stabilità. Nell’84 partecipa addirittura ad un horror di Claudio Fragasso, Monster Dog – Il Signore Dei Cani, una coproduzione italo-spagnola nella quale interpreta una rockstar di nome Vincent Raven, con evidenti tratti autobiografici (e due canzoni piazzate nella colonna sonora). Nella pellicola di Fragasso Alice è l’eroe buono, mentre tre anni dopo con Carpenter, ne Il Signore Del Male, è solo un mendicante posseduto da forze diaboliche, poco più che un cameo (ma anche qui realizza la canzone che porta il titolo del film). Nel ’91 fa addirittura il padre adottivo di Freddy Krueger nel sesto Nightmare (uno dei peggiori della serie), forse un favore reso a Robert Englund, il quale era stato l’ospite di lusso su “Lock Me Up”, contenuta in “Raise Your Fist And Yell”. C’è un altro sesto capitolo al quale il suo nome rimane legato, è quello della saga dei Venerdì 13. La sua “He’s Back”, estratta da “Constrictor”, è la theme song di Jason Vive. Tra musica e cinema insomma Alice va ponendo i mattoni della sua nuova maschera orrorifica, e sono proprio “Constrictor” e “Raise Your Fist And Yell” a consacrarlo come il Re, anzi, il Principe delle Tenebre.
“Constrictor” vede Kip Winger al basso e il muscoloso Kane Roberts alla chitarra, due ospiti che servono a fare hype. Il target è una nuova platea di teenager da fidelizzare con Alice Cooper, il bau bau che esce dall’armadio quando in cameretta le luci si spengono e ti terrorizza fino al sorgere dell’alba. Nulla da temere realmente, una paura controllata, come quella del tunnel dell’orrore del luna park o, appunto, di un buon film coi mostri e i vampiri. “Constrictor”, la cui copertina vede Alice stritolato per l’appunto da un serpente con quel vizietto, inaugura una nuova stagione di tour. The Nightmare Returns si chiama lo spettacolo che Alice porta on stage. Musicalmente l’album è schietto, diretto, rock n roll, estremamente melodico, e sornione come al solito. Alice si “normalizza”, abbandona ogni sperimentazione e si relega ad un ruolo dal quale non uscirà più, lo showman pazzoide, il Frank-N-Furter del Rocky Horror ma senza implicazioni sessuali. I pezzi di “Constrictor” trovano spazio dal vivo fino al 1989, consumati fino all’inaridimento, poi vengono sostanzialmente dismessi. “He’s Back”, che assieme a “Teenage Frankenstein” diventa la canzone più rappresentativa del disco, è una melodia leggera, sorretta perlopiù da un synth, qualcosa di estremamente evanescente, tuttavia si afferma con prepotenza e conferma ad Alice che più che alla sostanza d’ora in poi sarà bene badare maniacalmente alla forma. Non è più tempo per il noir anni ’40 o il dadaismo, nessuno lo seguirebbe più su simili terreni. Edonismo e divertimento a tutti i costi, possibilmente mantenendo comunque quella qualità creativa che Alice era in grado di dare.
“Raise Your Fist And Yell” esce per MCA, come “Constrictor”. Alice ci ha preso gusto, la strada è quella giusta, ed il tour che consegue all’album – segnatamente le date europee – è ricordato come uno dei più espliciti e violenti di sempre (il Live In The Flesh). In Germania ed in Inghilterra qualcuno chiede addirittura che venga bandito e censurato, tutta pubblicità che cola. Le morti che si possono vedere on stage sono ispirate da pellicole dell’orrore, compresa quella del tizio che va in bici e rimane impalato (una citazione da Il Signore Del Male). Mr. Cooper si professa un grande fan degli horror e degli slasher movies; vero o non vero, Alice lo diventa per contratto, fa gioco al suo alter ego e il mondo gli va dietro. Di nuovo, una volta esaurita la spinta propulsiva dell’album e del tour, praticamente nessuno di questi pezzi trova più posto negli spettacoli del cantante. Sia “Constrictor” che “Raise Your Fist” sono buoni lavori, pop-corn album divertenti e ben fatti (il secondo debitamente irrobustito in chiave metal), che nella loro semplicità fracassona riconciliano Alice con il suo pubblico (vecchio e nuovo) e stabiliscono il canone al quale aderire ora e per sempre. Alice Cooper è l’horror per famiglie.
IV – dolce veleno
Il terreno è preparato, le potenzialità ci sono, la fan-base risponde, è ora di fare il salto di qualità e riprendersi lo scettro di rockstar di successo. Hair e glam metal imperversano che è un piacere e Alice decide che quella è la nuova direzione da seguire per stare a galla e vedersi piovere un po’ di dollari addosso (non le banconote finte che dispensa durante i live set di “Billion Dollar Babies”). Da che mondo è mondo, chi si chiama in America quando vuoi un disco di successo, con hit da classifica ed un’attitudine rock patinata? Desmond Child, il risolvi problemi. Detto fatto, “Trash” (autoironicamente “spazzatura”) diventa il “big selling album” di Alice Cooper. Bon Jovi, Richie Sambora, Stiv Bators, Steven Tyler, Joan Jett, Diane Warren, John McCurryas sfilano come ospiti in parata sul disco, Kane Roberts è ancora al fianco di Alice, il tour è un trionfo ed i pezzi fioccano nelle charts, da “Poison” a “Bed Of Nails”, da “House Of Fire” a “Only My Heart Talkin”. Insieme a quantità invereconde di lacca per capelli, nei video di Alice arrivano pure le fighe strappa mutande, come si trattasse di un Bon Jovi qualunque. L’impressione è che Alice abbia un po’ venduto l’anima al diavolo. “Trash”, assieme al successivo ed altrettanto ruffiano “Hey Stoopid”(ugualmente zeppo di nomi roboanti e co-scritto pure con un altro re mida del rock finesse, Jack Ponti), è tra i dischi meno rappresentativi di Alice Cooper, un sound che non lo definisce affatto, lontano anni luce da tutta la sua produzione anni ’70 (ma anche dei primi ’80), uno specchietto per le allodole che deforma la sua immagine e la offre al pubblico lisciando il pelo al trend del momento.
Alice si “accoda”, compiendo una scelta indubbiamente vincente in termini finanziari (meno in quelli artistici, a mio parere). Ho visto due volte dal vivo Alice Cooper ed entrambe sono rimasto basito dalla risposta del pubblico non appena partono le note di “Poison”. La sola “School’s Out” è in grado di rivaleggiare con essa; non “Elected”, non “Department Of Youth”, non “Welcome To My Nightmare”, non “Ballad Of Dwight Fry”, è “Posion” la canzone che infiamma l’audience! “Poison” è la “Wind Of Change” di Alice Cooper, una canzone alimentare con la quale il cantante viene oramai sommariamente e brutalmente identificato. Decenni di carriera e di grandissima musica, dopo aver dato del tu a Salvador Dalì, Andy Warhol e Vincent Price, e tutto o quasi si riduce ai quattro minuti e mezzo di “Poison”. Roba da non credere. Un esito davvero beffardo. “Trash” e “Hey Stoopid” valgono davvero pochissimo (a mio gusto, s’intende), sono i lavori più trascurabili dell’epopea Alice Cooper, eppure a tutt’oggi rimangono tra i titoli più venduti del suo catalogo. Me ne sono fatto una ragione, anche se ancora sussulto quando in una conversazione qualcuno mi fa: “ah si, Alice Cooper…You’re poison runnin through my veins…“. Maledizione, no!
Discografia relativa
- 1976 – Alice Cooper Goes To Hell
- 1977 – Lace And Whiskey
- 1978 – From The Inside
- 1980 – Flush The Fashion
- 1981 – Special Forces
- 1982 – Zipper Catches Skin
- 1983 – DaDa
- 1986 – Constrictor
- 1987 – Raise Your Fist And Yell
- 1989 – Trash
- 1991 – Hey Stoopid