Il punto è che in fondo i dischi brutti degli Aerosmith, quelli compresi tra il 1979 e il 1985, così brutti poi non sono. Durante le registrazioni di “Night In The Ruts” Perry se ne va ma il grosso del materiale lo ha già coperto, quindi di fatto è un album degli Aerosmith praticamente come gli altri ed infatti sta in piedi più che dignitosamente. “Rock In A Hard Place” è probabilmente il più fragile dei tre, il blocco chitarre è totalmente rinnovato, manca il tocco di Perry e non tutta la scaletta brilla e scintilla, ma comunque ha i suoi buoni momenti (vedi “Jailbait”, “Lightning Strikes”, “Joanie’s Butterfly”, la title-track), e per altro mostra anche una certa vena sperimentale che con la formazione standard gli Aerosmith non avevano mai avuto lo stimolo di perseguire. “Done With Mirrors” vede il rientro del toxic twin mancante (e pure di Whitford), ma all’epoca scontò la poca fiducia del pubblico, disinnamoratosi sulla fine dei ’70 e poco incline a scommettere di nuovo sugli Aerosmith. Sarà “Permanent Vacation” a mondarli da ogni peccato passato e ad avviare la risalita della china, ma negli anni della “crisi” la band (e con essa tutto il corredo di vizi e stravizi) è riuscita in qualche modo a tenere botta e a non scendere mai sotto un livello di decenza che l’avrebbe probabilmente distrutta per sempre.
Contenuti:
1. Dream On (1969 – 1973)
2. Sweet Emotion (1974 – 1977)
3. Livin’ On The Edge (1978 – 1982)
4. Let The Music Do The Talking (1982 – 1987)
1 – Dream On
Nel 1962 Steven Victor Tallarico del Bronx, di origini italiane, tedesche, russe e cherokee, figlio di un musicista e di una mamma insegnante di musica, è il batterista della Vic Tallarico Orchestra, che condivide con l’amico Ray Tabano. Si esibiscono al Trow Rico Lodge sul Lago Sunapee nel New Hampshire, locale di proprietà dei genitori Tallarico; qui però i ruoli sono invertiti, Tabano suona la batteria mentre Steven la chitarra e canta. Il ragazzo del Bronx fonda ed entra in diverse band rock (Maniacs Up, Dantes, Left Banke, The Chain, Fox Chase, The Strangers, con questi ultimi apre persino uno show degli Yardbirds nel Connecticut). Beve già come una spugna, fuma marijuana e viene bullizzato col nomignolo di “labbra da negro” (nigger lips). Nel 1969 fa amicizia con Joe Perry, un ragazzo problematico di origini portoghesi che lavora all’Anchorage sul Lago Sunapee e suona nella Jam Band, infatuato dei Beatles. Steven va spesso a mangiare all’Anchorage e quando lo vede suonare ne rimane piuttosto impressionato. Torna a New York e prova ad assemblare l’ennesimo gruppo ma si stufa rapidamente; prova quindi a ricercare Perry per proporgli qualcosa assieme. Con Joe suona già Tom Hamilton ed in breve tempo i tre (quattro più Tabano) si ritrovano assieme attorno agli strumenti. La truppa si sposta a Boston per volere di Perry ed Hamilton, il 6 novembre 1970 gli Aerosmith suonano il loro primo concerto in una High School di Mendon, nel Massachusetts, alla batteria c’è Joey Kramer. Una manciata di mesi dopo Tabano lascia le sei corde a Brad Whitford, Tabano tuttavia non si allontana dai compagni, disegnando anzi il logo ufficiale della band.
Appena due anni da quel battesimo live e il debutto omonimo degli Aerosmith è negli scaffali dei negozi grazie alla Columbia Records, il cui allora presidente Clive Davis era rimasto talmente colpito dal quintetto da correre a metterlo sotto contratto. Di per sé quel vinile che mescola aneliti di Rolling Stones, Beatles, Led Zeppelin, Yardbirds e Fleetwood Mac (di Peter Green), non provoca grandi terremoti, anzi passa abbastanza in sordina, pur non trattandosi di un fallimento commerciale conclamato (e al netto del buon responso locale riscosso nella zona di Boston). Infatti nel 1974 la band può tranquillamente dargli un seguito sempre sotto l’egida della Columbia. Di quella produzione Tyler ricorda in particolar modo la sfiducia verso la propria voce e l’insicurezza generale che regnava nella band, dovuta all’inesperienza; né il produttore Adrian Barber fu granché d’aiuto, apparentemente disinteressato del risultato finale o forse semplicemente non all’altezza. Tutto avviene molto velocemente e gli Aerosmith col senno di poi avranno la netta sensazione di non aver mostrato tutto il proprio potenziale in termini di resa sonora. Tyler cambia proprio il suo modo di cantare, mascherando la sua timbrica e cercando di somigliare il più possibile ad un bluesman, anche se l’effetto finale – a suo dire – assomiglia più a Kermit, la rana dei Muppets. Per altro la Columbia sembra decisamente più interessata a supportare un altro esordio decisamente promettente, quello di Bruce Springsteen. “Aerosmith” esce senza la minima pubblicità, poco e niente su radio e giornali; viene sbrigativamente bollato come una copia meno riuscita del sound di Rolling Stones e New York Dolls, un disco come tanti. Come è noto l’album verrà generosamente rivalutato negli anni a venire, eternandosi addirittura come una pietra miliare del rock settantiano, nonché influenza imprescindibile di dozzine di rock band a cominciare dai Guns ‘n’ Roses.
II – Sweet emotion
Nel 1974 “Get Your Wings” non bissa il moderato successo dell’esordio, il produttore cambia, arriva Jack Douglas nella speranza di instaurare una chimica migliore con la band. In realtà la Columbia si era rivolta a Bob Ezrin, producer di Alice Cooper, e questi aveva introdotto Douglas come una sorta di ufficiale di collegamento. Douglas di fatto poi produce l’album, con Ezrin che non si fa mai vedere in studio. Il gruppo vive il disco come una transizione, una tappa di passaggio, Perry ha la netta sensazione che gli Aerosmith hanno non abbiano centrato il bersaglio, non siano arrivati a mettere in luce la loro vera essenza. Tyler fa pace con la sua voce convincendosi del fatto che ciò che fa di un cantante un “cantante” non sia la bellezza delle corde vocali ma l’attitudine che è in grado di esprimere. Complessivamente le recensioni vanno meglio, sono più accoglienti, anche se la band è sempre tacciata di essere derivativa, poco personale, un pensiero non troppo distante dal sentire dello stesso Perry. L’agognata quadratura del cerchio arriva nel 1975 con “Toys In The Attic” ed è dovuta principalmente al tempo trascorso on stage a suonare e risuonare il repertorio della band. Gli Aerosmith diventano musicisti migliori, più rodati e confidenti nelle proprie capacità e possibilità. Quando tornano in studio da Douglas sono una band cambiata, rinnovata, rinforzata, molto più centrata ed a fuoco anche riguardo al materiale da proporre per il terzo lavoro. Anche “Toys In The Attic” tuttavia, con la sua schiera di classici perfetti come “Walk This Way”, “Sweet Emotion”, la title-track, “No More No More”, eccetera, riceve lì per lì recensioni contrastanti, il magazine Rolling Stone lo valuta persino inferiore a “Get Your Wings” e c’è chi critica il taglio della produzione di Douglas. L’album comunque raggiunge l’11esimo posto nella chart e con la sfera di cristallo la band avrebbe potuto intravedere i milioni di copie (8 per la precisione) che avrebbe venduto in futuro.
Sull’onda del successo e dell’autostima nel 1976 gli Aerosmith pubblicano “Rocks”, da parecchi ritenuto il loro miglior album in carriera nonché uno dei dischi rock migliori di tutti i tempi. Terzo posto nella Billboard chart, concerti a pioggia in stadi e arene, e l’assunzione definitiva a filosofia di vita totalizzante della triade sesso, droga e rock ‘n’ roll, con conseguenze abbastanza nefaste (come accede nel 100% dei casi al 100% delle band, eppure non imparano mai). Ora dare un seguito a due album così acclamati e performanti (perlomeno dal pubblico) diventa di colpo una responsabilità, tanto più che la Columbia si aspetta vendite esponenziali ad ogni nuova release. “Draw The Line” arriva a vendere tre milioni di copie, grazie al nome che la band si è costruita, alle performance fiammeggianti on stage, al carisma ed alla personalità di due animali come Tyler e Perry, ma è opinione abbastanza diffusa che il livello dell’album si abbassi rispetto a “Toys In The Attic” e “Rocks”, nonostante la title-track fulminante posta proprio in apertura del disco. Lo sguaiato ed eccessivo stile di vita degli Aerosmith ne sta già minando le fondamenta, Perry dirà che all’epoca più che cinque compagni uniti dalla musica erano cinque tossici uniti dalla droga. Una polaroid impietosa. “Draw The Line” è l’inizio della fine (sempre secondo Perry). I gemelli tossici si mostrano sono poco coinvolti nella scrittura, Douglas sente che c’è qualcosa che non va e fatica ad investire completamente se stesso nel progetto. Al momento della sua (sofferta) pubblicazione “Draw The Line” viene battezzato dal solito Rolling Stone – abbastanza agguerrito con gli Aerosmith per la verità – come un lavoro “orrendo”, “caotico” e “malfunzionante”, alla band viene attribuita l’etichetta di “spompata”, cosa non troppo distante dalla realtà. “Draw The Line” ha una sua sconclusionatezza che non lo fa mai afferrare appieno durante l’ascolto; specchio abbastanza fedele del caos che regnava dentro la band. In un mese l’album diventa platino e col senno di poi molti toni aspri della critica si rimodelleranno, ma all’epoca “Draw The Line” quella linea la traccia per davvero, una linea amara e sottile che separa l’oro dal fango.
III – livin’ on the edge
A disco segue tour ed a “Draw The Line” segue il tour di “Draw The Line” che però si caratterizza più per lo sfacelo di Tyler on stage che per le performanti esibizioni degli Aerosmith. Non che Perry risulti in odore di santità, tant’è che proprio in questo periodo la coppia assume il poco lusinghiero epiteto di “toxic twins”. Svenimenti sul palco, defezioni, amnesie improvvise, pessime esibizioni, scazzottate, il circo Aerosmith inizia a seminare parecchio disappunto dietro di sé. Finito carponi il tour, gli Aerosmith giungono alla pubblicazione di “Night In The Ruts”, album numero sei in carriera. I rapporti interni al gruppo si sono deteriorati, corrosi dalla droga, dai capricci, dai rispettivi ego e dalla nefasta influenza di mogli e fidanzate altrettanto dispettose (si narra di oggetti vicendevolmente lanciati in pieno volto). Perry si era visto rifiutare un pezzo nelle session di “Draw The Line” (“Bright Light Fright” che poi si canterà da solo), segno di quanto ognuno oramai andasse per la propria strada, incurante di mantenere una minima empatia (anche creativa) all’interno della band. Stavolta Perry sbatte proprio la porta, abbandonando gli Aerosmith nel bel mezzo delle registrazioni. Pure Douglas (in crisi con la moglie dalla quale infatti divorzia) viene sostituito da Gary Lyons da parte della Columbia, già al lavoro con Foreigner e Humble Pie. Tyler è sfondato di droga, qualunque droga, non riesce a terminare il suo lavoro né come cantante né come scrittore di testi, i ritardi si accumulano. La label preme, vuole nuove hit e tanto incasso ma nessuno ha più il controllo degli Aerosmith, una locomotiva lanciata sui binari senza capotreno. La band viene spedita in tour per fare soldi, l’album non è neppure ancora finito e la frustrazione esplode a piena potenza. Mentre gli Aerosmith stavano morendo in studio il pubblico ne celebrava il fantasma dal vivo.
Alla fine il giorno della pubblicazione di “Night In The Ruts” arriva, è il 1° novembre 1979 ed è un piccolo terremoto perché è davvero il primo album senza Steve Perry alla chitarra, che non solo è Steve Perry, ma rappresenta comunque 1/5 degli Aerosmith e ad oggi questa è la prima vera defezione in seno alla band dal 1973. Le sue parti di chitarra, dove rimaste incomplete, sono coperte da Brad Whitford, Richie Supa, Neil Thompson e Jimmy Crespo (quest’ultimo ne diviene il sostituto effettivo). L’album non è accolto bene ma non è una novità per gli Aerosmith. L’album però non è nemmeno un disastro, non verrà certamente ricordato come il migliore mai prodotto ma ha qualche buon graffio che rimane, a dispetto dei più incalliti detrattori. Mi riferisco ad esempio a “No Surprize”, “Cheese Cake”, “Three Mile Smile”, al netto delle cover (che sono ben quattro su una scaletta di nove pezzi, evidenza plastica della difficoltà compositiva del gruppo). Un lavoro tutto sommato dignitoso per come porta a casa la pagnotta date le condizioni rovinose nei quali versano gli ex campioni di “Rocks”. Forse un po’ provocatoriamente Tyler ha poi addirittura espresso una sua particolare predilezione per questo disco, arrivando a definirlo una “eclissi solare” (…dove il sole era forse Perry?). E paradossalmente anche Perry lo salva, ritenendolo ad esempio migliore del confusionario – a suo dire – “Draw The Line”. La classifica americana lo relega al quattordicesimo posto e avanti il prossimo.
Perry si inventa solista e nel marzo del 1980 pubblica “Let The Music Do The Talking”. Suona familiare? Già… Gli Aerosmith rispondono con un “Greatest Hits” (che vende 11 milioni di copie solo in America). Le cose però non vanno affatto bene dall’interno, visto che anche Brad Whitford lascia. Ora i quinti mancanti sono due. Al suo posto (e a registrazioni pressoché terminate) arriva Rick Dufay. Il treno non si ferma, non se lo può permettere e dunque la catena di montaggio carica sul nastro un altro titolo, è la volta di “Rock In A Hard Place”, sempre per Columbia, anno di grazia 1982. Lo stato dell’arte della band è impressionante, ora ci sono due nuovi chitarristi di pacca e la cosa fa un certo effetto, c’è però anche Douglas nuovamente in consolle. Gli Aerosmith sono sempre loro e questo lo certifica Tyler collassando per l’ennesima volta sul palco durante una delle date del tour conseguente all’album (che ora fa spesso tappa in piccoli locali anziché in grandi arene). Nuova line-up vecchi vizi. Stavolta gli Aerosmith viene imputato di non avere più la magia dei ’70, quella del tempo dei loro “classici”… davvero impagabile certa stampa. Qualcuno legge l’album in una chiave particolarmente sperimentale ed avventurosa, naturalmente per via del fatto che la band si è drasticamente rinnovata. Kramer anni dopo dirà che “Rock In A Hard Place” non è affatto un pessimo album solo che non è un vero disco degli Aerosmith, mancando Perry e Whitford, va inteso piuttosto come un divertissement per lui, Tyler e Hamilton. Certamente è un lavoro che fa convivere la tipicità Aerosmith con la necessità fisiologica di provare ad esplorare anche altro, un album low profile che tenta di targhettare in avanti la band, in attesa di tempi migliori. “Jailbait”, “Lightning Strikes”, “Joanie’s Butterly” e la title-track si fanno apprezzare, anche se difficilmente troveranno posto in un best of della band.
IV – Let the music do the talking
Perry pubblica ben tre lavori solisti, dei quali solo il primo riceve una certa attenzione, Whitford se lo filano ancora in meno e la famigliola Aerosmith si vede suo malgrado accomunata dallo stesso destino, dentro e fuori la line-up la situazione è magra, c’è poco da stare allegri. Il primo passo lo fanno i figlioli prodighi Perry e Whitford che il 14 febbraio del 1984 si presentano nel backstage di un concerto degli Aerosmith a Boston. Tyler racconta che dopo 5 minuti di riavvicinamento la sensazione era quella di non essersi mai lasciati, uno iato di anni dissoltosi in pochi attimi. Gli Aerosmith tornano tutti assieme ma con un po’ di cambiamenti a spazzare via ruggine e polvere. Cambio di etichetta dalla Columbia alla Geffen, la quale si occupa di licenziare nel 1985 il primo album del nuovo corso, “Done With Mirrors”, con un nuovo produttore, Ted Templeman. Se per quanto riguarda il riscontro commerciale l’esito non è entusiasmante – il pubblico ancora non si fida della band – sul lato squisitamente artistico il disco registra un ritrovato slancio, attestandosi come una prova decisamente più solida e superiore a “Rock In A Hard Place”. La scaletta si apre proprio con quella “Let The Music Do The Talking” presa a prestito da Perry e il pezzo funziona maledettamente bene orchestrato da tutta la cricca degli Aerosmith. Il sound in fase di produzione non convince troppo, nemmeno il produttore per la verità, sicuro che avrebbe potuto fare meglio ad esempio con la batteria di Kramer. E proprio Kramer ritiene l’album un lavoro praticamente non finito, Perry ne parla in termini ancora più drastici, per lui “Done With Mirrors” non è stato niente di più che un mezzo per arrivare all’album successivo, decisamente un disco mediocre. In modo inversamente proporzionale rispetto al giudizio sprezzante della band, l’album viene tutto sommato ben accolto da critica e pubblica, pur tenendo adeguatamente distanti i fasti di metà anni ’70. Per altro questo sarà l’ultimo capitolo di una serie di titoli pubblicati senza l’ausilio di alcun songwriter esterno in appoggio alla band (se si esclude le cover naturalmente). Il titolo, tutt’altro che innocente, gioca sulla malizia del cosa si fa con gli specchi quando si ha a disposizione droga come la cocaina (ma i nostri non si sono fatti mancare nulla, dall’eroina all’oppio).
Con il 1985 di “Done With Mirrors” si chiudono convenzionalmente “gli anni della crisi” degli Aerosmith, visto che il nono album in studio della band, pubblicato nel 1987, sarà nientepopodimeno che “Permanent Vacation”, l’incarnazione del paradigma della fenice che rinasce dalle proprie ceneri, l’inizio della risalita del monte Olimpo degli Aerosmith, il ritorno alla gloria attraverso una catarsi che monda la band dalle tossine di un tempo. Una grande mano la danno più o meno consapevolmente i Run DMC, i quali riciclano “Walk This Way” in chiave crossover/rap rock, letteralmente risucchiando fuori dal sarcofago gli Aerosmith. Il relativo videoclip li riporta al centro dell’attenzione e Tyler, Perry e compagni sono bravissimi a stare al gioco, accettare la sfida e mettersi a disposizione. Nel solo 1987 “Permanent Vacation” vende cinque milioni di copie negli USA, numeri che gli Aerosmith non ricordavano quasi più. Geffen ha il merito di credere nella band nonostante “Done With Mirrors”; altra fetta di merito va al producer Bruce Fairbairn, il quale dà una sostanziale sverniciata al sound degli Aerosmith adeguandolo allo spaziotempo occupato dai cinque non più giovanissimi rockers. “Rag Doll” e “Dude (Looks Like a Lady)” sono due singoli killer, un po’ meno la ballad “Angel” che darà la stura a tutta quella messe di pallosissime ballad con cui gli Aerosmith ci appesteranno d’ora in poi. MTV si butta a capofitto nel repertorio Aerosmith, proponendone i videoclip in heavy rotation.
Paradossalmente, per quanto il vero rientro in pista della band fosse avvenuto nell’85 con “Done With Mirrors”, nell’accezione comune è “Permanent Vacation” il disco del ritorno, tanto da decretarlo l’album più venduto del decennio per gli Aerosmith. Senza ombra di dubbio è un ottimo lavoro, sebbene fortemente radicato negli ’80 a livello di immagine, attitudine e sonorità, ma esattamente come i dischi dei ’70 degli Aerosmith appartengono ai ’70. L’approccio si fa leggermente più sgraziato, grossolano e volgare, ma indubbiamente divertente e soprattutto energico, tradendo la voglia di tornare a contare, di essere in prima fila da parte della band. E così è stato, gli Aerosmith si sono effettivamente costruiti una seconda carriera nella modernità, riuscendo a sopravvivere alla droga, all’alcol, a loro stessi. “Pump” (1989) sarà un successo ancora più clamoroso, al quale seguiranno altri quattro album fino all’ultimo “Music From Another Dimension!” (2012), ufficialmente dichiarato il disco di commiato dal music biz degli Aerosmith, e se la promessa fosse mantenuta si rivelerebbe un congedo in grande stile, senza vistosi cali di qualità. Tuttavia a consuntivo, bisogna riconoscere che i dischi della “crisi”, quelli dal ’79 all’85, hanno tenuto in vita un cadavere apparente, hanno nascosto tra le proprie pieghe diverse piccole e grandi gemme che possono tranquillamente concorrere con qualche filler più recente o con le ignominiose ballad da latte alle ginocchia che hanno infestato le scalette dell’ultimo ventennio degli Aerosmith. Recuperando quegli album con un po’ di pazienza e scevri dal pregiudizio, si ha l’occasione di (ri)scoprire qualcosa che all’epoca è stato frettolosamente accantonato con troppo zelo e piccata severità.
Discografia Relativa
- 1979 – Night In The Ruts
- 1982 – Rock In A Hard Place
- 1985 – Done With Mirrors