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Zombie Di Provincia: “Make Them Die Slowly”

COMING SOON TO A THEATER NEAR YOU!

“Make Them Die Slowly” è il mio disco dei White Zombie. Dopo c’è “La Sexorcisto”. E quelli per me sono i White Zombie. La band ha prodotto altro? Certamente. Io lo ascolto? Preferibilmente no. Perché? Succede come la meringata, al primo boccone è appetitosa, al secondo già stucca. Fate prevenzione contro il diabete, leggete di seguito.

Contenuti:

1. Cinquanta e cinquanta 
2. L’America di Russ Meyer e di Tobe Hooper 
3. Lightning zombies 
4. Glamour zombies 

1 – Cinquanta e cinquanta

Il mio primo incontro con i White Zombie avvenne nel 1989, forse addirittura 1990, non ricordo con esattezza. Quello che ricordo è che ero alla ricerca di qualcosa da comprare, in uno dei miei soliti sabato pomeriggio vinilici in giro per i negozi fiorentini. Una delle mie mete saltuarie era Dischi Ghost in piazza delle Cure, saltuaria perché era perlopiù specializzato in roba goth/punk/new wave, sonorità alternative, sebbene avesse anche un po’ di metal e solitamente a prezzi non troppo esosi. Amara considerazione a margine, ovviamente anche Dischi Ghost, come il 90% dei negozi che ho frequentato in età adolescenziale, non esiste più in città. Insomma, fu lì che mi imbattei in questo album stralunato, la copertina era veramente qualcosa. Concettualmente nulla di nuovo, la band stava in posa in primo piano a farsi osservare dal potenziale acquirente, ma c’era un certo non so che che la rendeva magnetica, ipnotica, mesmerizzante. Il cromatismo innanzitutto, artefatto, posticcio, quasi alieno. I quattro zombie avevano l’aria sfatta, quattro brutti ceffi non esattamente raccomandabili se incontrati nel famoso vicolo buio ad orari improbabili. Che poi, a ben guardare, uno di loro sembrava una ragazza, e lo era (Sean Yseult aka Shauna Reynolds), ma sulle prime si confondeva perfettamente col resto della sua gang tossica. Dubito che in quella cricca fossero mai circolati shampoo e bagnoschiuma. L’unica maglietta riconoscibile era quella dei Misfits, indossata da quello che poi scoprirò essere Ivan De Prume, il batterista. Il titolo dell’album era sufficientemente truce ed in linea con l’immagine del gruppo: “fateli morire lentamente”, pareva la battura di un cannibal movie di Ruggero Deodato… e invece è di Umberto Lenzi, visto che il suo Cannibal Ferox è circolato a livello internazionale con il titolo alternativo di Make The Die Slowly. Passando al retro copertina, tutto si faceva ancora più cupo ed aggressivo, una morte secca ma con la testa simile ad un critter (gli “extra roditori” di Joe Dante) digrignava i denti minacciando l’osservatore, con sotto una fila di teschietti e ai lati i titoli delle canzoni. Una botta di acido notevolissima, un’immagine piuttosto hardcore punk. Ora, siccome io non avevo la più pallida idea di chi fossero questi White Zombie, ma ciò che vedevo mi stava piacendo da morire anche se non avrei saputo dire il perché, mi convinsi che di quello si trattasse, hardcore punk. Senza che neanche me ne rendessi conto, ero alla cassa a sborsare le mie 25 mila lire  dell’epoca per un disco che sarebbe potuto essere tanto orrendo quanto splendido. Cinquana e cinquanta.

white zombie 1

II – L’America di Russ Meyer e di Tobe Hooper

All’altezza del 1989 la band aveva già prodotto materiale, un Ep nel 1985 (“Gods On Voodoo Moon”) e il debutto “Soul-Crusher” nel 1987, entrambi su Silent Explosions Records. Ma io non lo sapevo, e come il calabrone che è anatomicamente inadatto a volare eppure vola lo stesso, io stavo per mettere sul piatto il secondo full-lenght dei White Zombie che per me stavano debuttano in quel preciso istante. L’impatto fu altrettanto efficace, coerente con quanto tutto l’aspetto grafico ed il mistero che (per me) gravitata su “Make The Die Slowly” avevano apparecchiato. Venivo dal metal e dall’hard rock, ed ero anche relativamente giovane come ascoltatore di quei generi poiché avevo cominciato con gli Iron Maiden nel 1988; i White Zombie andavano da tutt’altra parte rispetto a ciò a cui erano abituate le mie orecchie al tempo. Quello non era metal, non lo era nella misura in cui i White Zombie non erano una band strettamente metal, anche se in rapporto agli esordi avrei poi scoperto che un certo processo di metallizzazione era in corso.

La produzione di “Make Them Die Slowly” è molto low profile, la chitarra di John Ricci suona slabbrata, di cartavetro, aspra, bisbetica, esprime livore e voglia di attaccar briga. Il tutto è amplificato ed elevato a potenza dal cantato di Rob Zombie, una specie di predicatore ossessivo ed ossessionante, marcio, visionario e apocalittico. In questo Zombie rispecchia a pieno il suo background culturale, la provincia americana chiusa, ottusa e retriva dei b-movies di Russ Meyer, pietra angolare ancora più importante dell’horror e della fantascienza degli anni ’50 e ’60 per giudicare la musica dei White Zombie a mio parere, e calarsi con cognizione di causa nel loro immaginario narrativo e rappresentativo. Pare di vedere all’opera quei piccoli uomini bigotti, retrogradi e creduloni, ora sedotti da procaci virago fiammeggianti, ora annichiliti da alieni ipnotici e psichedelici dalle improbabili forme polipoidi atterrati su dischi e sigari volanti. Dentro “Make Them Die Slowly” c’è l’America di Russ Meyer e quella di Tobe Hooper, dei pastori delle chiese di legno sperdute nel nulla, mentre balle di fieno rotolano al vento senza incontrare ostacoli per miglia e miglia, cullate dal suono di insegne di metallo arrugginite penzolanti alle gas station. Nel songwriting di Zombie e soci si affacciano le fisionomie di Leatherface, dell’uomo lupo, dei motociclisti pazzi della bikexploitation di Motorpsycho!, dei protagonisti dei film di Tarantino e di John Carpenter. Un frullato di estremismi comportamentali e cognitivi trapiantati nella contea di Hazzard di Bo e Luke, tra una distilleria illegale e l’altra. La cosa interessante è il totale menefreghismo dei White Zombie per il compiacimento dello spettatore, la forma canzone è tutto fuorché conciliante e accomodante, la band fa un po’ quel che vuole, come e quando vuole; ripete, cambia, stravolge, si avvita ossessivamente su pattern che hanno in evidente ispregio l’airplay. Tutto è portato all’eccesso, costi quel che costi. I White Zombie sembrano suonare per loro stessi e per il proprio esclusivo appagamento, incuranti del pubblico. In questo indubbiamente c’è un purissimo atteggiamento hardcore punk che sta alla base dell’indole di un album adorabilmente squinternato come “Make Them Die Slowly”. Non sarà sempre così, purtroppo.

III – Lightning zombies

Per tutti i motivi detti, il secondo capitolo discografico dei White Zombie non è un lavoro che ti arriva subito, che ti entra dentro al primo ascolto e prende possesso delle tue vene. Io rimasi colpito, schiaffeggiato, bruciato ma ci vollero ripetute sessioni perché ne afferrassi il senso, mi orientassi, venissi pervaso dal suo feeling fino a farlo mio. A parte forse quello di “Disaster Blaster”, non ci sono grandi ritornelli cantabili, né ami ai quali farsi appendere per la bocca, “Make The Die Slowly” va preso nella sua interezza, nel suo complesso, un blocco di granito rancido e fetido che ti rovina addosso e di cui sperimenti tutta la consistenza ed il peso specifico mentre sostanza acide e insalubri ti colano addosso da qualche parte, creando ulcere e ferite sulla pelle. Pare poco invitante raccontato così, vero? Invece alla fine i White Zombie sanno il fatto loro e ti conquistano, uno squinternato squadrone suicida che non fa prigionieri, ti afferra per il collo e ti addomestica.

“Make Them Die Slowly” è il prodotto della scrematura di ben 16 pezzi che erano stati approntati per l’album, la scelta della scaletta pare sia avvenuta sulla base dei brani che più si discostavano dal precedente materiale, ovvero dalle sonorità maggiormente noise e psichedeliche di “Soul-Crusher”. Lo slittamento verso il nuovo avvenne anche grazie all’avvicendamento alla chitarra tra l’ex Tom Guay e il subentrante Ricci. Il produttore del disco, Bill Laswell, fu consigliato ai White Zombie direttamente da Iggy Pop, estimatore del gruppo, ma il matrimonio artistico non fu privo di spine. Al termine del lavoro gli zombie non si dissero soddisfatti. La Yseult in particolare dichiarò che pareva fosse stato registrato in un barattolo di latto, con un basso – il suo strumento – sostanzialmente inesistente ed ovattato. Il che è un po’ vero, così come anche il suono della batteria risulta troppo debole e fiacco. Ma una cosa che spesso i musicisti tendono a sottovalutare è che il sound particolare di un album, anche laddove particolare sta per deficitario e difettoso, contribuisce all’atmosfera generale. E con il passare degli ascolti e del tempo viene comunque metabolizzato dall’ascoltatore che lo impasta in modo inscindibile con il songwriting, concorrendo così – assieme a tutto il resto – a creare l’imprinting di quella band, fino al punto in cui quel disco non sarebbe potuto suonare in nessun’altra maniera che quella. Ne diventa una caratteristica saliente e da limite si trasforma persino in un elemento di forza. Tuttavia la Yseult non ha mai fatto pace con il processo di registrazione di “Make Them Die Slowly”. Laswell glielo fece ripetere tre volte per poi scegliere l’ultima sessione, la peggiore a detta della Yseult, la quale secondo il produttore doveva registrare seduta e con la dovuta leggerezza sulle corde per non inficiare la resa di ogni singola nota. “Un mucchio di stronzate!” per la Yseult, col senno di poi. Ricci fece in tempo a partecipare a questo unico album dei White Zombie per poi abbandonarli dovendosi dedicare al suo fastidiosissimo tunnel carpale. Rob Zombie dal canto suo faceva fatica a vedersi come un metallaro o uno interessato alla musica metal, anche se “Ride The Lightning” era un disco che lo aveva particolarmente impressionato e lo aveva parzialmente convinto a rivedere le sue posizioni, giungendo così alle sonorità di “Make Them Die Slowly”.

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IV – Glamour Zombies

Nello stesso anno la band dà alle stampe l’Ep “God Of Thunder”, la cui title-track è la cover dell’omonimo pezzo dei Kiss, cosa che fece saltare sulla sedia Gene Simmons (osservate la copertina). Alla chitarre c’è Jay Yuenger. Appena tre tracce in totale che fungono da ponte tra “Make The Die Slowly” e il successivo “La Sexorcisto: Devil Music Volume One”, titolo che porterà i primi riscontri commerciali e mediatici di un certo livello per i White Zombie, l’album che di fatto li fece arrivare al grande pubblico e ne cambiò la storia, o perlomeno quella di Rob Zombie, ma anche l’album che al contempo pose il primo mattone della fine. “La Sexorcisto” è un disco con la smania di auto confinarsi dentro tutti gli steccati e i recinti che servono per farsi notare. Robert Bartleh Cummings (il vero nome di Zombie) ha frecce al suo arco da giocare e sa sceglierle con cura, il songwriting del 1992 è elettrizzante, ammiccante, ruffiano, maledettamente studiato a tavolino ma indubbiamente adesivo come carta moschicida. I White Zombie hanno già preso un’altra strada, l’attitudine “sfanculata” dei primi due album viene soppiantata da un approccio più professionale, commerciale, industriale; la band si perde per strada un po’ della sua anima più verace e irriverente, geometrizza le forme, smussa gli angoli, dà logica e sensatezza alle canzoni, le inquadra e le normalizza, pur cercando di mantenere inalterato tutto l’humus visionario e narrativo derivante dalla cultura cinefila, letteraria e fumettistica di serie b di Rob. I White Zombie diventano qualcosa di più simile ad un circo (ambiente dal quale Rob proviene poiché quello era il lavoro dei suoi genitori). Da essere l’incarnazione di un certo universo semantico passano ad esserne la rappresentazione, pare una sfumatura ma ci passa un mondo nel mezzo. Se prima era come stare dentro La Notte Dei Morti Viventi di Romero, insieme ai suoi protagonisti, vivendolo in prima persona, ora era più come stare al drive in o in qualche grindhouse con la propria ragazza ed il barattolo dei pop corn in mano, a ridacchiare di improbabili rutilanti pellicole a basso costo, sapendo che ad un certo punto le luci sarebbero arrivate a porre fine alla messa in scena. 

Ribadisco, a scanso di equivoci, “La Sexorcisto” è un buon album ma cambia piano di lettura (della band), si mette più ninnoli addosso, addobba la vetrina e spera di riuscire a vendere più merce di prima. Gli White Zombie non stanno più suonando per loro stessi o per un pubblico immaginario di zombie sciancati come loro. Se possibile dopo andrà peggio. Con “Astro-Creep: 2000 – Songs of Love, Destruction And Other Synthetic Delusions Of The Electric Head” (1995), logorroico e pretenzioso sin dal titolo, questa propensione della band esploderà incontrollata, su Geffen. Nel frattempo alla batteria sarà arrivato John Tempesta (già con D.R.I., Exodus, Testament, e poi anche con Helmet, Prong e The Cult). A Rob Zombie piace piacersi e infatti fa il piacione, si lava sempre meno, è sempre più incatramato e bardato di stracci, oggetti e capelli, ma al contempo adora fama e successo, cerca spasmodicamente visibilità e la musica dei White Zombie sembra andare di conseguenza, ballabile, sempre più groovy e “industrializzata” come un robottino Transformer per bambini. Provate a ballare un pezzo di “Make The Die Slowly”, se vi riesce! A distanza di un anno viene pubblicato “Supersexy Swingin’ Sounds”, che altro non è che un remix di “Astro-Creep 2000”, la Geffen censura la copertina (ragazza in bikini al posto di ragazza nuda), poiché altrimenti non avrebbe potuto piazzare il disco nei mega centri commerciali come Wal-Mart. E da che mondo è mondo la censura aumenta tiratura e interesse non il contrario.

Inevitabilmente a forza di tirare la corda, si spezza. La band si disintegra e Rob scopre di essere un novello Leonardo da Vinci, cantante, art director, disegnatore, regista, sceneggiatore, produttore, probabilmente anche wedding planner e sommelier. Dal 1998 avvia la sua carriera solista, battezzata dal disco col solito titolo wertmulleriano (“Hellbilly Deluxe: 13 Tales Of Cadaverous Cavorting Inside The Spookshow International”). Al momento siamo arrivati a 7 titoli in studio, più vari live, remix album e raccolte, compreso anche un sequel di “Hellbilly Deluxe”. Dal 2003 Zombie si inventa regista, rigorosamente horror, esordendo con La Casa Dei Mille Corpi, e da quel punto di vista siamo a 9 titoli diretti sino ad oggi di cui uno rimasto inedito in Italia (il cartone animato The Haunted World Of El Superbeasto), oltre al divertissement Werewolf Women Of The SS, che fa parte del film Grindhouse di Tarantino e Rodriguez, e ad un episodio della serie CSI: Miami. Ma Rob Zombie fa pure il doppiatore, recita in tv, sceneggia e produce i suoi film, dirige i suoi videoclip, fa incetta di riconoscimenti e candidature, e trova pure il tempo di sposare Sheri Moon, divenuta per questo Sheri Moon Zombie, a sua volta attrice, modella, ballerina, stilista. Delle sonorità di “Make The Die Slowly” non c’è più traccia, come probabilmente è giusto e normale che sia trattandosi di qualcosa che risale a ben 36 anni fa. Io non sono lo stesso di 36 anni fa, voi non siete gli stessi di 36 anni fa. Questo significa che tutto ciò che Zombie ha prodotto dopo io debba accettarlo e sia esente da critiche solo perché “è l’evoluzione, baby“? Non credo, a ciascuno il suo, Rob ha una fantastica carriera multitasking da genio del Rinascimento da portare avanti, mentre io vi devo lasciare perché devo andare a mettere sul piatto uno dei dischi più marci della mia collezione, pubblicato nel lontano 1989.

Discografia Relativa

  • 1987 – Soul-Crusher
  • 1989 – Let Them Die Slowly
  • 1989 – God Of Thunder (EP)
  • 1992 – La Sexorcisto: Devil Music Vol. 1

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