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Nightwish/Tarja Turunen: La Matematica È Un’Opinione

L'UNIONE FA LA FORZA... FINCHÉ DURA

Un caso da manuale su come il giocattolo perfetto sia stato rotto, senza possibilità alcuna di tornare indietro. È accaduto ai Nightwish di Tuomas Holopainen e Tarja Turunen, ma ad esempio anche ai Theatre Of Tragedy con Liv Kristine, ai Queensryche con Geoff Tate o ai Great White con Kurt Russell; una volta separate, le parti hanno proseguito in parallelo per la propria strada, senza più riuscire a raggiungere i livelli di prima. Senza l’unione di quegli ingredienti perfettamente sinergici la magia svaniva, l’incantesimo non si realizzava e qualcosa andava irrimediabilmente perduto, per sempre. 

Contenuti:

1. La passione per l’Opera (1996 – 1998)
2. L’uccisione dei parenti (2000 – 2002)
3. La fine di un’era (2004 – 2005)
4. I carneadi (2007 – 2015) 
5. Tarja’s factory (2006 – 2023)
6. Tra i due litiganti il fan non gode

1 – La passione per l’opera

La storia dei Nightwish e di Tarja è il paradigma di come certe volte nel metal uno più uno non faccia due ma tre, e allo stesso tempo di come viceversa scomponendo una somma gli addendi non siano quelli che ci aspetta. Quando nel 1997 la band finlandese esordì con “Angels Fall First” si presentò al grande pubblico quasi in sordina, gli anni non erano particolarmente benevoli verso un genere musicale che aveva arrancato per il settennato dei ’90 appena trascorso; in realtà praticamente in contemporanea nella vicina Svezia gli Hammerfall davano l’avvio ad una (ancora inconsapevole) rinascita dell’heavy metal, con un album – “Glory To The Brave” – che avrebbe dato uno scossone alla scena, al di là dei suoi effettivi meriti. I Nightwish erano un fenomeno piccolino, incapace di esondare granché oltre i confini scandinavi, anche se l’album circolò in Europa e ricevette discreti consensi, ma non c’era affatto la percezione di cosa sarebbe poi diventato quel monicker e a che livello artistico sarebbero potuti arrivare poi quei cinque finlandesi. Gli stessi Nightwish non avevano quella percezione, vista la nascita quasi per scherzo, in una notte d’estate del 1996 in riva al lago Kiteenjärvi, quando Holopainen decise di fondare “una band che potesse esprimere attraverso la musica acustica le atmosfere sognanti, malinconiche e intimiste che la sua terra riusciva ad emanare”. Il primo nucleo comprendeva già Tarja Turunen, amica d’infanzia, allieva di pianoforte della madre di Tuomas dall’età di 12 anni. Appena un anno e il progetto acustico bucolico-agreste era già virato verso il metal elettrico, pur mantenendo l’ancoraggio di un’indole intimista e poetica che voleva differenziarsi dallo standard borchiato. In Finlandia “Angels Fall First” raggiunse il 31° posto della chart; certo, stiamo parlando di una nazione che ha la stessa popolazione del Lazio, ma in patria la band fu immediatamente compresa e apprezzata. “Angels Fall First” era forse un lavoro ancora parzialmente acerbo e indubbiamente assai più semplice, lineare e diretto rispetto ai successivi dischi della band (come la sua deliziosa copertina stilizzata), ma riascoltato a distanza di tempo e col senno di poi ha accresciuto enormemente il proprio valore, proprio grazie ai suoi presunti “difetti”.

È con “Oceanborn” (1998) che i Nightwish esplodono e danno forma al proprio sound in modo compiuto. L’aspetto folk viene quasi del tutto accantonato in favore di una più robusta sterzata metal, ma soprattutto si afferma a piena potenza il connotato operistico grazie alla performance canora di Tarja, vero valore aggiunto dei Nightwish, alla quale viene data assai più prominenza. Non esisteva una band così addentro alla lirica come i Nightwish del 1998, il panorama musicale circostante non esprimeva nulla di minimamente paragonabile, non in modo così strutturato, intenso, consapevole e soprattutto convincente. Qui non si trattava solo di ibridare il metal con un po’ di sinfonismo qua e là, magari in occasione di quel chorus o di quel break all’interno di una canzone, bensì di concepire una creatura che fondesse sistematicamente e con cognizione di causa heavy metal e opera lirica, un’intuizione che di colpò innalzò la band ad un livello empireo, sopra le teste di tutti i competitor coevi. Improvvisamente la Scandinavia era diventata troppo piccola per questo quintetto. Io conobbi la band grazie ad “Oceanborn”, acquistato tra mille aspettative ed ascoltato con i brividi addosso e la pelle d’oca, fu un’autentica epifania. Un album ricco e barocco, complesso eppure mai cervellotico in modo sterile o pedante. Elegiaco, visionario, emozionante, a tratti persino commovente, e nonostante tutto traboccante di epicità ad ogni fraseggio. Rimasi molto colpito da questi 49 minuti, consapevole di essere al cospetto di qualcosa di diverso e davvero innovativo, oltre che ammaliante. Sono pochi i dischi che nella mia carriera di ascoltatore di musica heavy metal mi hanno trasmesso una simile sensazione spartiacque, una cesura così netta tra il “prima” ed il “dopo”, si contano sulle dita di due mani e certamente “Oceanborn” è stata una di queste occasioni.

II – L’uccisione dei parenti

Date le premesse, non potevo che aspettare e conseguentemente accogliere con la medesima trepidazione anche il successore di “Oceanborn”, che arrivò due anni dopo, nel 2000, e rispondeva all’altisonante titolo di “Wishmaster”. Lì per lì fu un trionfo nel mio stereo, il disco mi piacque parecchio e girò per un bel po’, anche se non lo reputai superiore a “Oceanborn” neanche per un istante. Col senno di poi, “Wishmaster” è diventato una chiave di volta nella discografia dei finlandesi, ma non nel senso che probabilmente state pensando. L’album sbancò in patria finendo primo in classifica, piazzandosi bene in Europa, vendendo molte centinaia di migliaia di copie e venendo certificato disco d’oro. Metal Hammer lo definì il 18° miglior disco power metal di sempre. L’etichetta power chiarisce che le sonorità si erano ulteriormente spostate verso lidi sempre più ortodossi e metallici, infarcendosi di neoclassicismo e venature fantasy, tanto da aver tratto ispirazione in fase di composizione dal ciclo letterario delle opere di Dragonlance. Il punto è che “Wishmaster” segna un orizzonte oltre il quale la band modificherà irrimediabilmente il proprio dna. Da qui inizia un percorso che porterà i Nightwish a diventare altro, ad evolversi (?), a perdere progressivamente la pelle di una band che pubblica “semplicemente” dei dischi, per diventare invece qualcosa di “larger than life”, dedita alla ricerca spasmodica, maniacale e costante di una pietra filosofale che abbatta confini e trasformi i Nightwish in un carrozzone onnipotente, creatore di opere con la O maiuscola, colonne sonore immaginarie, entità musicali enormi, indisponibili ad una mera classificazione di symphonic metal e basta. Come non fosse abbastanza.

Il primo passo di questa mutazione si evidenzia con l’entrata in formazione di Marco Hietala, bassista con spiccate doti canterine, che comincia ad essere alternato a Tarja. L’utilizzo di Hietala non è affatto timido o centellinato, tutt’altro, il vichingo finnico si impone subito per quantità e qualità, entra col boost. Innegabile constatare come si tratti di un ottimo cantante, tuttavia ho sempre trovato sorprendente come una band con una Tarja Turunen in line-up abbia sentito l’esigenza di andare a pescare una controparte. Che fosse un probabile indizio di come ad Holopainen/Egolopainen cominciasse ad andare già stretto il protagonismo della “cara amica d’infanzia” e immaginasse un piano B nel medio-lungo periodo? Non lo sapremo mai, sta di fatto che Hietala dilaga in lungo e in largo. A ben pensarci è un assurdo, hai la miglior cantante in circolazione, una gemma più unica che rara, il principale elemento distintivo della tua band, e la annacqui con nonchalance? Follia, incoscienza… o mobbing preterintenzionale.

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III – La fine di un’era

“Century Child” è (a mio parere) il più debole dei dischi pubblicati sin lì dalla band (2002), un buon album ma certamente meno esplosivo dei precedenti, anche più interlocutorio, una sorta di fionda che con un po’ di rincorsa porterà il gruppo a “Once” nel 2004, il vero album spartiacque ma soprattutto spaccatutto (compresa la band stessa) nella storia dei Nightwish.

Salutato urbi et orbi come una specie di capolavoro totale, è il titolo che mette fine alla prima incarnazione dei Nightwish, sebbene agganci i nostri alla corazzata Nuclear Blast (spesso direttamente proporzionale a sconquassi in seno ai gruppi). “Once” eleva tutto a potenza, la componente pop già affiorata timidamente da qualche tempo qui non si nasconde più, men che mai neanche quelle metal, sinfoniche, power, atmosferiche e narrative. Al fianco della band si schiera addirittura una intera orchestra, la sinfonica Academy of St. Martin In The Fields (accademia da camera britannica) quella del film Il Signore degli Anelli… e già questo dovrebbe far capire dove stiamo andando a parare. Roadrunner Records distribuisce fuori dall’Europa, in USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Nella prima settimana di uscita “Once” è primo in Finlandia, Germania, Norvegia e Grecia. In poco tempo diventa disco d’oro e di platino, ovunque sulla stampa specializzata è un brodo di lodi e applausi sperticati. La band si tuffa nel più grande tour mondiale della propria storia con ben 150 date. Egolopainen è al top del suo suo narcisismo, inchiodato sul primo gradino del podio dell’onnipotenza, circondato da alloro e zecchini d’oro. Malmsteen spostati.

Al termine della produzione del DVD “End Of An Era” (leggete bene il titolo…), la band – cioè Egolopainen con l’assenso sincero e spontaneo degli altre tre gregari nonché stipendiati – dà il ben servito a Tarja scrivendole una lettera aperta nella quale l’accusano di essere profondamente cambiata, di non essere più l’angelo sottomesso del focolare dei bei tempi, ma di aver sviluppato una vena affaristica e commerciale sin troppo spiccata, alimentata dal perfido marito Marcelo Cabuli (la Yoko Ono dei Nightwish o, se preferite, la Gloria Cavalera). Tarja non era più ritenuta omogenea allo spirito fondativo della band e questo lo diceva la band, cioè Holopainen. La lettera viene consegnata a Tarja alla fine del concerto sold out all’Hartwall Areena di Helsinki, il 21 ottobre 2005. Contestualmente viene pubblicata sul sito della band. Come si fa all’asilo, anche Tarja risponde alla band con un’altra lettera aperta, contestando le accuse. Celebre la prima conferenza stampa post separazione, con fiumi di lacrime. Si dice scioccata e addolorata, racconta gli attimi post concerto, quando la band si è ritrovata e si è unita in un abbraccio (come di consueto), per poi consegnare nelle mani di Tarja la lettera, chiedendole di leggerla l’indomani. Tarja non si riconosce nella descrizione che viene fatta di lei, reputa che ci sarebbero stati altri modi per gestire la cosa, sicuramente più adeguati e privati. Si sente ferita per il marito tirato in ballo, l’uomo che ama, il suo più grande amico e sostegno, come lei stessa lo definisce. Tarja ora si sente tradita, ancorché grata per tutta la bella musica creata insieme. Ma è ora di voltare pagina.

IV – I carneadi

A seguito dello split si creano fazioni di fans contrapposte, anche se la nomea di strega acida e cattiva funziona sempre appioppata ad una donna, quindi Egolopainen gode da subito di molto credito ed aspettative, anche legittime, legate al fatto che il songwriter della band era lui, Tarja era “solo” una magnifica interprete (e per molti insostituibile). Cosa accadrà dunque? La prima a scendere in campo dopo il trauma è Tarja, che nel 2006 pubblica “Henkäys ikuisuudesta”, un album di musica classica contenente canzoni natalizie. C’è chi vede la mossa come una conferma di quanto sostenuto da Egolopainen, ovvero una scelta avida e venale. C’è chi legge nella scelta di Tarja un tentativo di affrancarsi dal metal che l’ha pugnalata alle spalle e lacerata dentro, la leonessa si sta leccando le ferite. Si tratta chiaramente di una pubblicazione interlocutoria, in attesa di capire cosa intenda fare Tarja da grande, tuttavia è innegabile che l’artista sia un soprano lirico e che quello sia il suo habitat naturale nonché congeniale. Il vero anno dello scontro tra i due eserciti è il 2007 quando sia Nightwish (a settembre) che Tarja (a novembre) pubblicano i rispettivi nuovi album, “Dark Passion Play” e “My Winter Storm” (la cui prima traccia, dopo l’intro, si intitola “i Walk Alone”, più chiaro di così).

I Nightwish compiono la stessa scelta fatta da Steve Harris nel 1994, quando per sostituire la monumentale figura di Dickinson Harris va a pescare un cantante “minore”, noto a pochi e diametralmente opposto al precedente frontman della band in tutto. Stessa scelta scellerata, Egolopainen nomina Anette Olzon (ex voce degli svedesi Alyson Avenue). Nota bene, la scelleratezza non è da intendersi per la qualità e la caratura dei cantanti designati, tanto Blaze quanto Anette sono due ottimi professionisti che hanno dato l’anima quando sono stati chiamati in causa, l’incongruenza nasce dall’aver scelto due persone incomprensibilmente distanti da tutto ciò che le band avevano rappresentato sin lì. Cosa poteva accadere a seguito di una mossa simile? Lo abbiamo testimoniato tanto negli Irons quanto nei Nightwish, perché puntualmente le conseguente scaturite sono state le stesse (non a caso), due album realizzati assieme e poi i cantanti vengono defenestrati per manifesta incompatibilità, o meglio, per manifesta non accettazione da parte del pubblico, oltre a tutte le conseguenze dovute al sostenere il vecchio repertorio dal vivo e alla prosecuzione della band sullo stesso stile del vecchio cantante con la pretesa però di averne uno totalmente diverso. Se gli album andavano bene era merito della band (cioè di Harris e Egopainen), se andavano male era demerito dei singer, perfetto capro espiatorio per tutto, alibi ed ancora di salvezza per i compagni che in ogni momento sapevano a chi addossare la zavorra. Allo stesso tempo per Bayley e Olzon si è trattato di un’occasione talmente irripetibile da trovarsi costretti a tentarla nonostante tutto. Personalmente nutro una spiccata simpatia per entrambi e quanto fatto nelle rispettive carriere post Maiden e Nightwish l’ho sempre apprezzato, quindi ad entrambi va tutta la mia solidarietà per essersi trovati in un meccanismo stritolante dal quale difficilmente sarebbero potuti uscire senza le ossa rotte.

Abbandoniamo gli Iron Maiden, utili come pietra di paragone, e rimaniamo sui Nightwish che nel 2015 imbarcano Floor Jansen, già cantante degli After Forever nonché mascotte mille usi per Arjen Anthony Lucassen (Ayreon e altri mille progetti e super gruppi paralleli). La scelta della Jansen appare molto più assennata, non solo è una cantante parecchio più in linea con il profilo della band, ma la sua versatilità all’occasione le permette anche di scimmiottare il lirismo della Turunen. Non ci sbagliamo, Floor non è una pura cantante lirica, così come Tarja non era una reale cantante rock e metal, ma entrambe hanno dato ampia prova di saper abitare un ambiente diverso dal proprio, con risultati egregi, anche se le vette liriche raggiunte da Tarja sul proprio campo da gioco ovviamente sono sempre rimaste precluse alla Jansen. Da “Endless Forms Most Beautiful” le cose cominciano a girare meglio per i Nightwish limitatamente all’incastro della cantante con la band. Diverso è il discorso sugli album in se e per sé. Devo dire di aver perso completamente interesse nei Nightwish a partire da “Once”, e release dopo release il muro di cemento e mattoni eretto da Holopainen con le sue opere musicali è diventato sempre più indigeribile. Le composizioni dei Nightwish hanno progressivamente smesso di perseguire l’interesse verso la “forma canzone” per attestarsi sempre più come composizioni tronfie, una bulimia di strati e ammassi di note e strumenti, estenuanti cattedrali sinfonico-megalomani che tradivano il sogno proibito di Holopainen di poter firmare le colonne sonore di qualche capitolo dei Pirati dei Caraibi o di Harry Potter. Non ricevendo alcuna chiamata, il povero tastierista si è dovuto accontentare di scrivere immaginarie colonne sonore di altrettanto immaginari film prodotti solo nella sua testa, arruolando di volta in volta centinaia di orchestrali, docenti accademici, nani, ballerine e angeli cherubini per il “più grande show sulla Terra”.

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V – Tarja’s factory

Tarja dal canto suo in venti anni ha pubblicato qualcosa come nove studio album, altrettanti live, cinque Ep, oltre a compilation, box set, singoli e dvd in quantità industriale. Un autentico rullo compressore, è fuori discussione che l’aspetto commerciale interessi a Tarja. Il problema della Turunen a mio parere è che non si è mai circondata di songwriter e di musicisti che le consentissero di sopravvivere da sola, senza i Nightwish alle spalle. Per sopravvivere è sopravvissuta ed anche egregiamente, visti i numeri appena menzionati, ma qualitativamente Tarja rimane ai margini, non è mai realmente riuscita a pubblicare un album che la eternasse, che le desse un profilo solido, maturo e convincente fino in fondo, che fosse un bell’album dall’inizio alla fine, pieno di buone canzoni e non di tappetini sonori utili solo a mettere in evidenza la sua voce senza farle troppa ombra. Tarja senza i Nightwish non esiste. E’ una donna di una bellezza notevole, è un talento vocale, magari è anche una buona donna d’affari, ma non è un’artista che verrà ricordata per il valore e la qualità della sua musica. In ogni suo album ci sono due, massimo tre canzoni discrete, forse messe tutte insieme farebbero una ideale scaletta appagante, ma siamo distanti anni luce da quanto realizzato a cavallo tra i ’90 e i 2000 con i Nightwish. L’ho vista dal vivo, la sua dimensione migliore, potente, coinvolgente, sempre sorridente, adoro gli artisti metal che anziché ingrugnirsi sul palco celebrano la gioia di esserci… persino con un sorriso! Anche Anette e Floor sono della stessa pasta. Ho acquistato i suoi album, la reputo una cantante che tutti vorrebbero avere in squadra (tutti tranne Egolopainen evidentemente), un po’ come il centravanti goleador di turno, il finalizzatore perfetto del lavoro di una grande squadra che ti porta davanti alla porta avversaria e ti lancia l’assist perfetto, ma ad oggi Tarja ha dimostrato di aver perso tantissimo senza un team produttivo di livello ad accompagnarla o dei creatori di musica all’altezza dei Nightwish. Questa è la verità.

Dal canto loro pure i Nightwish hanno irrimediabilmente perso qualcosa senza Tarja. “Qualcosa” di dimensioni affatto trascurabili. Il periodo con la Olzon è stato confuso (non per colpa di Anette), quello con Floor ha ritrovato la quadra, ma questi Nightwish non sono “quei” Nightwish, non solo in termini di frontwoman ma anche come impianto generale, stile e anima. C’è chi li preferisce persino al periodo con Tarja, anche se statisticamente si tratta di fan che li hanno conosciuti nel secondo tempo della loro carriera. È indubbio che nel complesso sia andata meglio a Egolopainen, chi scrive la musica vince sempre, un buon cantante in sostituzione si trova, anche se non eguaglia il campione; mentre avere belle canzoni ed in modo continuativo è assai più complicato, te ne fai poco di una voce virtuosa se non sai dove metterla. Detto ciò, Tarja ha ottimizzato al meglio che poteva, è tutto molto visivo e roboante, album su album, prodotti esteticamente sempre gratificanti, vinili speciali in edizione gatefold coloratissime piene di foto (ed è un bel vedere), dvd e packaging a cinque stelle, etc. Tuttavia ciò che più manca è la musica e la cosa non è affatto secondaria se la tua attività è… la musica. Forse Tarja deve scontare la troppa benevolenza delle Muse, essere dotata di una voce così speciale ed essere al contempo una creatura di tale bellezza è oggettivamente troppo, noi comuni mortali dobbiamo accontentarci di molto meno. La vita che conduce e che si evince dai social è di gran lusso, luoghi esotici, magici, il conto corrente evidentemente gira anche senza i Nightwish, ma chissà se quando a sera Tarja poggia la testa sul soffice e vaporoso cuscino di piume d’oca pregiate ha il cruccio di non essere (ancora) riuscita a pubblicare alcun “Oceanborn” nella propria carriera solista.

V – Tra i due litiganti il fan non gode

Quanto occorso ai Nightwish con Tarja è la dimostrazione che la matematica non si applica al metal. Quell’unità scomposta risulta inferiore al valore dei due addendi. Online circolano le versioni live di “Phanotm Of The Opera” con Tarja e con Floor, una delle tante rappresentazioni plastiche di quanto i Nightwish abbiano smarrito mollando Tarja, pur rimanendo una band dignitosa (per chi apprezza il genere “gaviscon metal”). Che si sia trattato della mitomania di Holopainen, del divismo avido della Turunen, di una incompatibilità caratteriale inconciliabile e destinata al collasso, non lo so; fatto sta che il giocattolo si è rotto ufficialmente nel 2005 ma credo si fosse già incrinato a partire perlomeno dal 2002. Economicamente non penso che i vari contendenti ci abbiano poi rimesso granché, hanno saputo far fruttare le armi a propria disposizione, chi è stato defraudato di qualcosa sono i fan, che hanno perso una band dal potenziale enorme, o meglio, l’incarnazione di una band che poteva ancora dare tanto ed era la sinergia perfetta di ingredienti assemblati secondo la giusta misura. Sinergia artistica evidentemente, perché quella umana non era affatto tale, anzi. Da una eccezionale ne sono scaturite due di livello inferiore, non è stato un buon affare. I Nightwish non sono gli unici ai quali è successo qualcosa del genere, un altro esempio che mi viene in mente sono i Theatre Of Tragedy all’indomani della separazione da Liv Kristine Espenæs. Anche per loro in entrambi i casi la magia si è dissolta, i T.O.T. sono durati altri due album con Nell Sigland, involvendosi fino all’autodistruzione, mentre Liv Kristine è saltata di fiore in fiore, portando avanti parallelamente la carriera solista e quella nei Leaves’ Eyes, per poi vedere cessare l’avventura nella band col marito una volta che Krull ha smesso di essere legalmente suo marito. In ogni caso, quanto costruito con i Theatre Of Tragedy non è mai più stato replicato e ad oggi ci rimane  per le mani unicamente quella manciata di dischi, bellissimi. E lo stesso si potrebbe dire per i Queensryche senza Geoff Tate (e per Tate senza i Queensryche) o per quanto riguarda i Great White e la buon’anima di Kurt Russell. Di esempi ce ne sono diversi al riguardo eppure le band con tutti gli ego contenuti al loro interno sembrano non imparare mai dalla storia di chi li ha preceduti.

Ci sarà mai una reunion tra Tarja e i Nightwish? Tenderei ad escluderlo, Egolopainen ha trovato nella Jansen una valida e devota soldatina, mentre Tarja non credo retrocederebbe di un passo riguardo all’autonomia e alla leadership raggiunte; Inoltre, nessuno dei due ritiene di aver torto. Mai dire mai, ma credo che anche in questo caso non rimanga che ripiegare sui dischi del passato e godersi quelli, ognuno fino al proprio Rubicone, la soglia oltre la quale la pietanza si è deteriorata ed avariata.

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Discografia Relativa

  • Nightwish

    • 1997 – Angels Fall First
    • 1998 – Oceanborn
    • 2000 – Wishmaster
    • 2002 – Century Child
    • 2004 – Once

    Tarja

    • 2007 – My Winter Storm
    • 2010 – What Lies Beneath
    • 2013 – Colours In The Dark
    • 2016 – The Shadow Self
    • 2019 – In The Raw

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