E’ esistito lo “slow death”, costola del death metal, sua variante, è fluito potente a Birmingham, già patria dei Black Sabbath, che sulla lentezza hanno costruito una fama e una carriera, ma si è poi arrestato al cospetto del Rubicone. Attraversarlo ha cambiato tutto, il groove si è mangiato lo slow e quel sogno (o quell’incubo se preferite) si è interrotto, sebbene altrove in giro per il globo altri sognatori ne abbiano raccolto le ceneri “benedette” e portato testimonianza.
Contenuti:
1. Questa non è un’esercitazione (1990)
2. Slow death (1990)
3. Il Rubicone è alle spalle (‘1991 – 1993)
4. Oblio e minestre riscaldate (1993 – 2025)
1 – Questa non è un’esercitazione
Questa non è un’esercitazione, non è un articolo di approfondimento su di una band come sovente mi capita di fare, non è esattamente una monografia o una retrospettiva, e non è neanche una riflessione a seguito della quale si scolpisca sul marmo cosa sia giusto o sbagliato, cosa dobbiate pensare o meno; è solo il frutto di considerazioni personali, mie constatazioni, pertanto come tali le si può ricevere come rispedire al mittente. E’ una occasione di confronto e discussione, accettatela o chiudetela in un cassetto, come preferite. I Benediction di Birmingham sono a mio modo di vedere una tra le più significative espressioni del death metal, se non la più significativa in assoluto, la più pura, perlomeno per quello che è il mio concetto di death metal. Non sto dicendo siano la miglior band di sempre, quel titolo a mio gusto probabilmente spetta agli Obituary (pur con tutti i loro passi falsi in carriera), tallonati – sempre a mio parere – dai Nocturnus e dai Morbid Angel. Qui piuttosto si tratta di altro, mi riferisco a ciò che i Benediction hanno incarnato e rappresentato, perlomeno per un breve periodo. Segnatamente dagli esordi fino al 1992, facciamo fino all’EP “Dark Is The Season” e chiudiamola lì, affare fatto.
Esattamente al trentesimo secondo di “Subconscious Terror” Mark “Barney” Greenway ruggisce: “slooooooooooooooow!!!!” Un marchio che si fa manifesto della band e di un preciso filone musicale, che chiameremo giustappunto lo “slow death metal”. I Benediction, come i Bolt Thrower (sempre di Birmingham, come i Black Sabbath, come i Sacrilege di quel molosso doom che è “Turn Back Trilobite”), gli Asphyx, gli Autopsy, i Desecrator, anche buona parte della discografia degli stessi Obituary, sono espressione di quel death metal che si affida ad una costruzione narrativa fatta di atmosfera e riff iconici, anziché farsi sventrare da continui blast beats, velocità ipersonica, tecnica ipertrofica, testosterone in eccesso, cattivismo un tanto al chilo e ultra violenza spettacolare. Personalmente adoro “quel” death metal, andando per analogia per quanto possa sembrare strampalata, è un po’ la stessa differenza che Tinto Brass faceva tra il (suo) cinema erotico e la pornografia. Da una parte c’è immaginazione, fantasia, lavoro intellettuale, speculazione, dall’altra c’è la macelleria apparecchiata sul banco, devi solo scegliere quale pezzo di carne vuoi, ma non c’è nulla da scoprire, da indagare, nulla che possa farti realmente emozionare. Se volete, per rimanere più aderenti al genere, è la differenza che passa tra un buon film horror concettuale, spesso e volentieri datato, ed uno slasher ultra gore e ultra splatter. Non è il “quanto” ma il “come” a fare la differenza. Quando “Subconscious Terror” uscì nel 1990 non fu accolto da un tripudio generalizzato, uniforme ed incondizionato, piovvero anche tante critiche, dovute ad una produzione ritenuta eccessivamente scarna e penalizzante, a una velocità per l’appunto troppo modesta e calmierata, tanto che qualcuno si chiedeva se si dovesse effettivamente parlare di death metal, al netto del growl di Barney. I Cannibal Corpse di “Eaten Back To Life”, i Deicide del debutto omonimo, i Morbid Angel di “Altars Of Madness” e nella vecchia Europa gli Entombed di “Left Hand Path” o i Carnage di “Dark Recollections” proponevano altro, altri bpm per metro quadrato, altra intensità, altri grovigli, pur ognuno con le sue diverse sfumature.
II – Slow Death
Ciò che ad alcuni non andava a genio dei Benediction era esattamente ciò che mi ha fatto innamorare seduta stante della loro proposta musicale. Quel suono ancestrale, proveniente da un’era che non è “vecchia”, antica o datata, è proprio fuori dal tempo, scorre parallelamente al tempo, se ne astrae per diventare immanente. Sembra di assistere a giochi di ombre proiettate sulle pareti delle caverne degli uomini di Neanderthal, creature deformi e mostruose danzano scomposte, come nelle pagine di Lovecraft, silhouette incomprensibili, troppo lontane dalla nostra capacità di leggerne il significato, la provenienza, il senso. Come la stessa intro suggerisce, l’album spalanca le porte delle nostre fobie (“Portal To Your Phobias”) e ci investe con tutta la sua furia primitiva. Ogni nota, ogni colpo di cassa, di rullante, ogni linea di basso, ogni colata lavica della trachea di Barney ci percuotono e ci posseggono fin nel profondo delle viscere, come fa un burattinaio con i propri burattini, ne è in completo dominio e li agita al proprio volere. Siamo come Jessica Lange imprigionata nel pugno di King Kong. I Benediction non vanno in cerca dell’effetto wow, non smaniano per il colpo di teatro o lo shock ad ogni costo, la loro è tutta sostanza, minuto dopo minuto, una densità pazzesca, un peso specifico pari alla gravità di Giove quasi tripla di quella terrestre. “Subconscious Terror” ti mastica pezzo a pezzo e ti annienta in un’estasi di emozioni e potenza.
Il tupa-tupa di Ian Treacy alla batteria è qualcosa di orgasmico, la velocità perfetta, mai frenetico, trattenuto quel tanto che basta per essere un metronomo dell’orrore e fare sì che la tensione arrivi in modo esasperante, carica come un treno merci grosso, pesante e inarrestabile, al quale non occorre chissà quale velocità supersonica poiché è la sua stazza, la sua pachidermica inesorabilità a non lasciare alcuno scampo al malcapitato che giace inerme sui binari. Se ascoltate con la dovuta attenzione, molte delle soluzioni ritmiche di Treacy hanno del geniale. Non stiamo parlando di Neil Peart, sia chiaro, ciò che contraddistingue Treacy è l’estremo gusto per i suoi filler, i suoi raccordi, le sue micro trovate all’interno di un pezzo (anche banalmente il susseguirsi degli affondi di cassa senza accompagnarli con i crash, creando così una specie di colpo sordo che evoca delle aritmie cardiache), che contribuiscono a dare qualità sublime al songwriting dei Benediction.
Tutto il resto dell’orchestrina gira attorno a quei colpi di batteria nel modo più perfetto possibile, una macchina da guerra gargantuesca. Chitarre scarne ma al contempo grondanti melma e liquido amniotico, un basso che è il battito dell’inferno, Barney che declama l’apocalisse.
Ho sempre adorato il fatto che i Benediction avessero avuto l’ardire di scrivere un testo ad esempio come “Artefacted Irreligion”, è futurista ancora oggi, figuriamoci nel 1990 quando discettare di diavoli, satanassi e belzebù in ambito death metal era il minimo sindacale per essere ammessi nel circolo dei cattivi. Una “irreligiosità artefatta” per convenienza, per moda, per stupidità. Tanto bastò a tacciare la band di cristianità ovvero un malus (come fosse un’offesa), ma non c’era alcuna velleità evangelica o dottrinale, puro e semplice buon senso e lucidità di analisi. Maturità, un concetto spesso sfuggente nel pianeta borchiato. “Subconscious Terror” – la cui copertina è una sorta di rielaborazione horror della locandina del film Calma Piatta (Dead Calm), di Phillip Noyce, con Nicole Kidman e Sam Neil, uscito l’anno prima al cinema – è a mio modo di vedere un album eccellente, senza un solo filler in scaletta, conciso (34 minuti), dannatamente efficace, incisivo, poderoso. E soprattutto definisce un canone, quello dello slow death, qui canonizzato al suo meglio. Questa sarà la formula e il copyright spetta ai Benediction di Birmingham, figli dei Black Sabbath.
III – Il Rubicone è alle spalle
Quelli erano gli anni nei quali Nuclear Blast era una vera fucina di talenti, una label procacciatrice di novità, di musicisti e band che stavano aprendo nuove strade, inventando generi e sottogeneri. Ai Benediction bastano 11 mesi per dare un successore al “Subconscious Release”. La formazione perde Barney, come è noto trasmigrato nei Napalm Death. Al suo posto arriva Dave Ingram, ottimo growler, assolutamente adeguato per i Benediction, anche se a mio gusto e parere Barney era insostituibile e la band perde qualcosa in questo avvicendamento. Nei negozi si affaccia “The Grand Leveller”, degnissima prosecuzione di quanto intrapreso col debutto. Per anni sono vissuto nel dubbio amletico su quale fosse il miglio platter della band, se il primo o il secondo, questo per dire di che livelli celestiali stiamo parlando. Col tempo ho maturato l’idea che l’oro debba aggiudicarselo “Subconscious Release”, perché ha dalla sua l’effetto sorpresa e perché la produzione così raw e primitiva aggiunge quel quid in più, ma stiamo parlando di una lotta al fotofinish. “Vision In The Shroud” si candida tra le miglior canzoni d’apertura di un album di tutti i tempi. Solo quella vale l’intera scaletta, sebbene non sia affatto l’unica nota positiva del disco, anzi. I rintocchi di campana stabiliscono subito l’humus nel quale veniamo scaraventati. La processione funerea ha inizio, d’ora in poi sarà tutto nero. Il drumming di Treacy mantiene inalterate tutte le sue preziose caratteristiche. I riff di Peter Rewinski e Darren Brookes aggiungono fluidità e groove, non siamo ancora i livelli di “Transcend The Rubicon”, ma qui ci sono i prodromi di quella svolta. Penso ad esempio a “Graveworm”, “Opulence Of The Absolute”, “Senile Dementia”. “The Grand Leveller” è incredibilmente compatto, un album solido e ugualmente potente rispetto al suo predecessore, anche se forse manca quell’aspetto un po’ allucinato e weird che caratterizzava “Subconscious Release”; ora c’è maggior consapevolezza. L’album si chiude nientemeno che con la cover di “Return To The Eve” dei Celtic Frost, un tributo gradito e dovuto, perché molto del pentagramma dei Benediction deriva anche dalla magia degli elvetici.
I Benediction continuano a battere il ferro caldo e nel 1992 è la volta di un EP, “Dark Is The Season”. Copertina favolosa, cinque tracce, due inediti (“Foetus Noose”, “Dark Is The Season”), due recuperi (“Jumping At Shadows”, “Experimental Stage”), una cover (“Forged In Fire”), per 24 minuti di durata. La riproposizione degli Anvil è semplicemente magnifica, concorre con l’originale, accade molto raramente con le cover. I due nuovi pezzi sono eccellenti, lo stato di forma dei britannici è superlativo, anche se la line-up perde un altro pezzo, Darren Brookes si occupa sia della chitarra che del basso perché Paul Adams ha lasciato per andare negli Absolution (dalla Benedizione alla Assoluzione), dove durerà lo spazio di un demotape. “Transcend The Rubicon”, che arriva puntuale a distanza di un anno, è una rivoluzione in casa Benediction. Intanto la formazione cambia ancora, al basso subentra Frank Healy direttamente dai connazionali Cerebral Fix (nonché ex Sacrilege, e partito come chitarrista negli embrionali Napalm Death del 1987). La produzione cambia sensibilmente, gli strumenti sono molto compressi e liquidi, il suono è metallico, ma è soprattutto il songwriting ad evolvere sensibilmente. Intanto la velocità media si alza di qualche bpm, certo i Benediction non diventano i Terrorizer ma non c’è più quella lentezza calcolata e angosciosa del 1990, già l’etichetta di slow death vacilla. Ciò che più colpisce è il guitar working, spintosi ampiamente in territori groove, un elemento che caratterizza fortemente l’album. Non è più l’atmosfera a caratterizzare il sound dei Benediction ma è la canzone nella sua accezione più classica, ora i nostri sono una “tipica” band death metal, normalizzatasi. Il che non inficia affatto la qualità del disco, “Transcend The Rubicon” è un bel lavoro, di qualità, ma ha sottratto personalità e peculiarità ai Benediction, ora non sono più fuori dal tempo bensì perfettamente calati nel loro tempo.
IV – Oblio e minestre riscaldate
Il disco in realtà ottiene un riscontro generosissimo, viene accolto a braccia aperte dal pubblico e molti imparano a conoscere la band a partire proprio da “Transcend The Rubicon”. Io comprai il vinile, un gatefold apribile con un artwork oggettivamente di una bellezza sopraffina, la produzione bombastica spaccava le casse e il battage pubblicitario messo in atto dalla Nuclear Blast fu di primissimo ordine. Non c’è da stupirsi dunque che molti ancora oggi considerino questo capitolo il migliore della discografia della band. Per me invece segna l’inizio di una inversione di tendenza. Qui i Benediction operano una scelta precisa, accantonano il sound degli esordi e ne adottano uno nuovo, che non stravolge ogni cosa, ma lo lima, lo arrotonda, lo ridefinisce ottenendo un risultato d’insieme finale che cambia le carte in tavola. Ribadisco l’assoluto valore di “Transcend The Rubicon” come album in sé, ma se inserito all’interno della storia dei Benediction rappresenta croce e delizia almeno per quanto mi riguarda. Con qusta release nel 1993 la band cambia direzione, inforcato una sliding door che farà procedere le cose diversamente. Una traccia come “I Bow To None” con la sua struttura quadrata, il suo ritornello anthemico e martellante, diventa quasi la “I Wanna Rock” dei Benediction, qualcosa di parecchio distante dalla psichedelia orrorifica di una “Grizzled Finale”, ad esempio. E non è un caso se Treacy lascia i Benediction dopo la pubblicazione di questo landmark, per divergenze musicali.
Nel 1994 esce un altro EP, “The Grotesque”, contenente i due inediti “The Grotesque”, “Ashen Epitaph” e tre pezzi live. Oggettivamente un buon lavoro, la title-track è eccellente. Il peggio arriva dopo. A partire da “The Dreams You Dread” (che porta il titolo del primo demo della band di 6 anni prima), la qualità dei Benediction cala vistosamente. Il gruppo si infila in un lungo periodo corrispondente a ben quattro uscite discografiche di valore modesto, con poche idee (ed un altro cantante, visto che a partire da “Grind Bastard” Dave Hunt prende il posto di Ingram). Certo, se i ’90 non sono anni facili per il metal, a partire dai 2000 c’è invece una evidente ripresa ma i Benediction stentano fino al 2020, quando riemergono dalle secche con “Scriptures”, il tutto senza mai essere stati mollati dalla Nuclear Blast. L’ottavo lavoro della band viene presentato come un ritorno alle origini, lo è persino nella copertina e nei suoi cromatismi. Già ma quale origini? Al microfono è tornato Ingram, questo è già un indizio. Le origini sono quelle più celebrate (nonché convenienti) di “Transcend The Rubicon”. E’ esattamente quello il sound al quale i Benediction dicono ai propri fans di guardare. Un suggerimento che si rivela corretto, non una falsa promessa, la band torna effettivamente a bazzicare lì, “Scriptures” è una credibile ripresa di quel clima, anche se sono passati 27 anni e, laddove “Transcend” fu una scelta spontanea, oggi “Scriptures” si mette semplicemente in scia. Per altro senza la stessa creatività di allora, è un album ben fatto ma che non solo non aggiunge nulla alla discografia dei Benediction, anzi finisce col risultare fine a se stesso, un esercizio di stile, nostalgico, un po’ vuoto, autoreferenziale e privo di grandi guizzi, se non lo sforzo determinato di ammantare le composizioni con la giusta veste cronologica.
Recentemente, appena 2 mesi fa, “Scriptures” è stato bissato da “Ravage Of Empires”, stessi colori, quasi la stessa copertina, verrebbe da dire stessa musica. Sicuramente stessi intenti, rimanere ben posizionati nella presunta golden age di “Transcend The Rubicon” per cercare di scontentare meno fans possibili. Non una scelta esattamente all’insegna del coraggio quella degli odierni Benediction, dei quali sono sopravvissuti Peter Rewinsky, Darren Brookes (entrambi membri fondatori) e Dave Ingram, affiancati da nuovi gregari, tra i quali l’italiano Giovanni Durst alla batteria (con un curriculum di tutto rispetto alle spalle fatto di militanza, tra gli altri, nei White Whizzard e nei Monument).
Discografia Relativa
- 1990 – Subconscious Terror
- 1991 – The Grand Leveller
- 1992 – Dark Is The Season (EP)
- 1993 – Transcend The Rubicon
- 1992 – The Grotesque/Ashen Epitaph (EP)

